Friday, April 02, 2021

Sessantotto a Parigi

Il Sessantotto mi ha sempre fatto sognare. Nata a Milano nel 1967, il Sessantotto per me è sempre stato solo un mito, un momento di magia e di confusione di cui si parlava in casa quando ero piccola. Dei movimenti di sinistra degli Anni Settanta ricordo solo, purtroppo, l’atmosfera plumbea milanese del terrorismo, la violenza e le morti. Ma il Sessantotto non era legato a nessuna violenza nella mia percezione di bambina. Era stata una specie di primavera, in quella Parigi libera e poetica che sognavo da piccola e che sarebbe diventata la mia città da grande.

Mi sono trasferita a Parigi per un dottorato nel 1992, in un’epoca in cui gli anni della contestazione erano un ricordo lontano. Ma lo spirito di quegli anni si sentiva ancora nelle coscienze dei miei maestri cinquantenni. Nel centro di ricerca dove andai a studiare, una concentrazione di menti eccezionali che stavano rivoluzionando le scienze sociali e cognitive dell’epoca, si respirava ancora, appunto, lo spirito rivoluzionario di quegli anni: ognuno era libero di contribuire alla ricerca con quello che sapeva, secondo il motto marxista “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue esigenze”, tutte le discipline si confondevano, nuovi saperi si creavano nelle conversazioni di corridoio del piccolo Centro di Ricerca di Epistemologia Applicata, dell’Ecole Polytechnique, allora nel cuore del Quartier Latin di Parigi, a due passi dalla Sorbona che era stata il teatro degli eventi del famoso maggio parigino.

Per il numero speciale di Micromega dedicato al Sessantotto e pubblicato a distanza di cinquant'anni nel febbraio del 2018, intervistai due miei maestri francesi, l’antropologo e scienziato cognitivo Dan Sperber e il sociologo Alain Touraine. Di generazioni diverse (Sperber è del 1942, Touraine del 1925), entrambi erano all’epoca già accademici, Dan giovane ricercatore al CNRS e Alain professore di sociologia a all’università di Nanterre. Entrambi già militanti, Dan aveva militato nel movimento contro la guerra d’Algeria e Touraine, dopo due anni passati a lavorare in miniera (1948-1950) per rendersi conto della condizione di lavoro dei minatori, militava nei movimenti operai dell’epoca, di cui è anche uno specialista. Mai nella mia vita ho trovato interlocutori più felici di poter raccontare la storia di quegli anni: i sorrisi si moltiplicavano ad ogni frase e gli occhi pieni di nostalgia andavano indietro negli anni, a quella primavera chiassosa che aveva cambiato le loro vite e quelle di molti altri.

Touraine e Sperber si incontrarono in una libreria vicino all’Odéon, dove si andava quasi tutti i giorni a discutere di cambiamento, rivoluzione e nuove idee. Si erano riuniti il sabato 11 maggio, e Touraine a un certo punto si alzò e disse: “Non serve a nulla che stiate qui chiusi dentro a discutere, bisogna andare in strada per capire cosa succede!”. La frase risultò immediatamente come un’evidenza, e il piccolo gruppo di studenti, giovani docenti e altri intellettuali si riversò nelle vie di Parigi. Alcune università erano già state occupate, tra le quali l’università di Censier e quella di Nanterre. Dan Sperber fu tra coloro che occuparono la Sorbona lunedì 13 maggio1968. Si recarono la mattina presto, e lui e Jean Métasse, un giovane storico della schiavitù, e andarono a chiedere le chiavi al decano che si trovava già nel suo ufficio. Il professore ribatté: “Ma chi siete voi? Perché dovrei darvi le chiavi?”. Jean Métasse si presentò dicendo: “Sono agrégé in Storia”. Allora il professore impressionato da quel titolo tutto francese (l’agrégation è una sorta di abilitazione ed è molto prestigiosa in Francia) gli strinse calorosamente la mano e gli consegnò le chiavi. Subito si sistemarono nei vari locali della Sorbona, erano circa una ventina, e cominciarono ad attaccare fogli sulle porte delle aule con l’annuncio di corsi in materia completamente nuove: “Storia della schiavitù”, “Sociologia dei minatori”, “Sociologia della sessualità”… Tutto era possibile, bastava immaginarlo. Se pensiamo alla cancel culture contemporanea, che invece di chiedere l’impossibile come facevano allora, restringe sempre di più le libertà di espressione, certo viene nostalgia per quel pensiero libero di immaginare nuovi campi del sapere invece che restringere quelli già esistenti. Un parallelo con i movimenti culturali contemporanei è comunque possibile: c’è in entrambi una richiesta di una cultura nuova, di nuovi orizzonti intellettuali per comprendere un mondo che non era e non è più lo stesso di quello in cui erano stati educati i genitori. Benché oggi il movimento di rinnovamento culturale sia imbrigliato dalle norme del politically correct e dunque tenda a una costante vittimizzazione e colpevolizzazione, credo che il bisogno di cambiare radicalmente il modo in cui la cultura è concepita sia più che legittimo allora come oggi.

Ma all’epoca non ci si vittimizzava: si agiva. Cosa volete studiare? I popoli autoctoni del Brasile perché nessuno ve lo insegna? Benissimo! Troviamo un giovane studente in antropologia che faccia un corso su questo. Era un cambiamento di paradigma à la Thomas Kuhn, lo storico della scienza autore del libro Le Rivoluzioni Scientifiche, ma invece che essere a livello di una disciplina scientifica era al livello della cultura e della società intere. Come in Kuhn, il mondo sotto gli occhi di quei giovani non era semplicemente più lo stesso. Non si sarebbero mai più potuti indossare gli occhiali di prima: una vera rivoluzione che rendeva la realtà incommensurabile al mondo precedente era cominciata.

Nel pomeriggio, il piccolo gruppo degli occupanti della Sorbona riuscì a salire sulla famosa cupola dell’edificio e da là osservare la grande manifestazione (circa un milione di persone) guidata da Daniel Cohn-Bendit che attraversava il boulevard Saint Michel per dirigersi verso l’università. Sperber si ricorda il cielo terso di Parigi, l’aria unica di libertà che si respirava là in cima al mondo, in cima alle istituzioni, il senso di ebbrezza di poter cambiare tutto e il senso di rinascita in un mondo nuovo, giovane e aperto a domande che nessuno si era mai fatto.

La manifestazione confluì alla Sorbona e molti studenti si unirono all’occupazione. C’era un circolare frenetico tra una sala e l’altra, tutti avevano idee di attività possibili: gruppi di autocoscienza delle donne, gruppi di riflessione sul razzismo, sugli operai, sui diritti degli immigrati, sulla medicina alternativa…e a un certo punto un ragazzo entra in una sala per avvertire tutti: “Venite: si fa l’amore nell’anfiteatro!”. Di colpo, uomini e donne cresciuti in una società dai valori borghesi come la Francia, abituati a non incontrarsi sui banchi di scuola, ancora separati per genere, si guardavano con occhi nuovi, lasciavano cadere le inibizioni, e nell’imponente anfiteatro dell’università, facevano l’amore.

Qualcuno suggerì che ci voleva un po’ di musica. L’idea fu allora di andare a cercare un pianoforte. Un gruppo di forzuti si recò dunque in casa di qualche amico di amici che aveva lo strumento e insieme lo trasportarono nel cortile della Sorbona. I momenti rivoluzionari sono quelli in cui le idee diventano performative: si trasformano immediatamente in atti. Sono azione e pensiero insieme.

Non voglio fare un resoconto storico di quel che successe nel maggio 1968 a Parigi, non ne sarei capace e ci sono tanti protagonisti di quei tempi che hanno scritto di questo nel numero di Micromega del 2018. Quel che sto cercando di fare è catturare un’atmosfera, un sentire che mi è stato trasmesso da tanti amici più vecchi di me e che ha fatto del Sessantotto un’esperienza unica, un’esplosione di passioni, amore, coraggio, entusiasmo, collera, sentimento di ingiustizia, che non so se si è mai ripetuta, almeno in Europa, in tempi più recenti.

Alain Touraine, sociologo dei movimenti sociali, grande intellettuale e uomo impegnato politicamente, era stato il professore di Daniel Cohn-Bendit, un giovane ebreo franco-tedesco che fu la guida spirituale del famoso maggio. Cohn-Bendit era nato in Francia da genitori tedeschi militanti di estrema sinistra e poi antinazisti e aveva studiato a Nanterre per poi diventare la voce del movimento di maggio. Arrestato a più riprese in quell’anno - mi racconta Touraine - quando il giudice gli chiede dettagli su cosa stava facendo al momento delle violenze che ebbero luogo sulle barricate, Cohn-Bendit risponde con un sorriso soave: “Mais je faisais l’amour, votre honneur!” (“Stavo facendo l’amore, vostro onore!”).

In un articolo pubblicato sul giornale di estrema destra Minute, Jean-Marie Le Pen dice di lui: “Questo Cohn-Bendit, perché è ebreo e tedesco, si prende per un nuovo Karl Marx!”.

Esperto dei movimenti sociali, professore già all’epoca, Touraine aveva uno sguardo più disincantato sul movimento quando lo intervistai nel 2018. Secondo lui, l’impatto politico del 1968 fu poco e se ci fu, fu negativo. Ma l’impatto sociale e culturale fu immenso, così come la risonanza mondiale del movimento, che rimbalzava dagli Stati Uniti, all’Italia, dalla Germania al Cile. A partire dal Sessantotto, come spiega nel libro Un nouveau paradigme (Fayard, 2005), i movimenti cosiddetti sociali si sono trasformati in movimenti culturali, cosa che è confermata da movimenti recenti come per esempio la primavera araba. Le rivendicazioni sono più simboliche che sostanziali. In più, sempre secondo il sociologo, il movimento del maggio Sessantotto non aveva alcuna unità, era spontaneo. L’opposizione tra studenti e sindacati in quell’occasione ne è per lui un sintomo. E le correnti di estrema sinistra che parteciparono, fondamentalmente tre: i comunisti, i gruppuscoli di sinistra e gli studenti di Nanterre, erano in lotta tra di loro. I comunisti, per esempio, erano del tutto ostili alle barricate. Quando il mitico poeta e scrittore comunista Louis Aragon si presenta alla Sorbona per parlare con gli studenti viene fischiato da tutti. Solo Cohn-Bendit insiste che gli sia data la parola urlando: “Laissez parler cette vieille crapule communiste!” (Lasciate parlare questa vecchia canaglia comunista!).

Secondo Touraine nel Sessantotto non si era in un mondo politico, ma in mondo di immaginario, di rappresentazioni, di immagini. Centrali, per esempio, le espressioni grafiche del movimento, soprattutto a Nanterre, dove il grande corridoio della facoltà fu completamente decorato. Qualsiasi idea di un’estrema sinistra forte e di un pericolo rivoluzionario va scartata, cosa che è provata dal fatto che non ci furono morti a Parigi. L’unità era nell’immaginario e nella cultura, non nella politica, il che spiega anche gli effetti politici deleteri che il Sessantotto ebbe negli anni a venire, i cosiddetti anni di piombo. Ciò non vuol dire che il movimento non abbia avuto impatto sulla società francese. Secondo Touraine, ci sono almeno due aspetti sui quali il movimento ha radicalmente cambiato la società: le questioni soggettive, personali, come il rapporto alla sessualità, e le questioni post-coloniali e globali. E questa eredità è ancora presente ai giorni nostri: se pensiamo a movimenti come me too, agli studi post-coloniali e all’ecologia, soggetto eminentemente non politico, ci rendiamo conto che l’eredità di quegli anni è ancora vivacissima ai giorni nostri.

 

Consegnate a Micromega le mie conversazioni con Sperber e Touraine, avevo in programma un viaggio di lavoro a New York. Negli stessi giorni anche Paolo Flores D’Arcais si trovava a New York per lavoro. A cena da vecchi amici incontrai Todd Gitlin, uno dei protagonisti dei movimenti studenteschi americani, autore di libri come The Sixties: Years of Hope, Days of Rage (1987) e The Whole World is Watching (1972). Decidemmo dunque con Paolo di raccogliere anche la sua testimonianza.

Todd ci ricevette in un ufficio modesto e disordinato, pieno di libri dappertutto, in un sotterraneo della scuola di giornalismo di Columbia University. Aveva parlato talmente tante volte dei movimenti americani degli Anni Sessanta, che aveva paura di non aver più niente da dire. E invece la conversazione fu piacevolissima, molto personale, e Todd decise di raccontare gli eventi dal punto di vista del suo vissuto di giovane studente americano per cercare di capire la portata esistenziale che quegli anni avevano avuto per lui.

Negli Stati Uniti, il Sessantotto cominciò ben prima dell’anno 1968, e Todd fu convolto dall’inizio, ancora prima della fondazione dell’organizzazione attivista SDS (Students for a Democratic Society), che fu la base del movimento della New Left, la sinistra radicale americana. Ciò che lo portò alla contestazione, già nel 1959, era il rischio del nucleare, la nuova spada di Damocle che pendeva sulle teste del mondo intero.

Studiava a Harvard, dove fu coinvolto in un gruppo locale di attivisti anti-nucleare, influenzato soprattutto dalla sua ragazza di allora, una “red diaper baby” come li si chiamava allora, ossia figlia di comunisti. L’attivismo in questo gruppo divenne rapidamente il centro della sua vita da studente a Harvard per i successivi tre anni. Ma non era ancora l’attivismo radicale della New Left: era un attivismo pacifista and anti-militarista ispirato soprattutto dalla sensazione apocalittica di stare rischiando l’estinzione dell’umanità.

Negli anni successivi, Todd, come molti giovani, viveva un paradosso esistenziale: da un lato era molto facile pensare al peggio, alla catastrofe totale, il che è ben comprensibile in un’epoca in cui le crisi politiche/nucleari tra i due blocchi erano di attualità. Dall’atro lato, improvvisamente c’era la sensazione di trovarsi in un mondo nuovo, un mondo dove c’erano molte persone con le quali sentire una forte affinità, e condividere tutto. Una sorta di nuova famiglia, intelligente, appassionata e idealista. Tutti erano pieni di passione, senza rinunciare anche a un certo realismo: non si sentivano solo in uno stato teologico di preparazione alle fiamme dell’inferno del nucleare, ma pensavano di poter far rinsavire il mondo. Non come movimento studentesco da solo, ma con l’aiuto di altre parti della società che avrebbero aiutato ad avere influenza sul potere e spingere per nuove riforme. Kennedy era diventato presidente, il movimento per i diritti civili era diventato una realtà che stava muovendo la società…insomma, si viveva il paradosso di alternare una visione catastrofica del futuro ad un certo ottimismo pragmatico.

Nella SDS c’erano comunque differenze, anzi forti dissensi su cosa fare praticamente. Quando Todd divenne il terzo presidente dell’organizzazione nel 1963, la maggior parte dei membri (a quei tempi giusto qualche centinaia), provenivano dai movimenti per i diritti civili. Ma già allora, qualche leader delle frange più radicali del movimento per i diritti civili, anticipando il fatto che il movimento avrebbe potuto vincere e che il vecchio ordine sudista e razzista era ormai al tramonto, come per esempio Stokely Carmichael, leader del SNCC- Student Nonviolent Coordinating Committee, cominciava a pensare che bisognasse guidare il movimento verso la lotta di classe e trasformarlo in un movimento interraziale, al di fuori delle università.

Nel frattempo, però, scoppia la guerra in Vietnam. La SDS decise di organizzare una grande manifestazione contro la guerra nell’aprile del 1965. E da quel momento, le energie per il movimento nei campus furono fomentate fondamentalmente dalla guerra. La guerra divenne l’ossessione collettiva non solo della SDS ma di tutta la New Left. Ciò ebbe molte conseguenze importanti. Per prima cosa, la New Left vedeva nel presidente Lindon Johnson, successore di John F. Kennedy, vero liberal, che fece avanzare le cause dei diritti civili e si impegnò in molte altre battaglie sociali, soltanto un presidente guerrafondaio che affondava sempre di più l’America nella guerra del Vietnam. Questo spostò il movimento naturalmente a sinistra: non volevano avere nulla a che fare con la sinistra dell’establishment politico che era responsabile della guerra. Poi, una parte considerevole del movimento si alienò dalla New Left in generale e questo fu l’inizio di quello che un paio d’anni dopo fu chiamato il Black Power.

C’era poi la causa dei neri che avanzava in un certo senso in modo parallelo. I due segmenti più radicali del movimento dei diritti civili però erano entrambi interraziali all’inizio, non solo neri: uno era il SNCC, l’altro era il CORE (The Congress of Racial Equality). Il capo del CORE era un uomo meraviglioso: James Farmer, un socialista che era stato attivo nelle organizzazioni che avevano preceduto SDS. Era interraziale lui stesso, con una moglie bianca. Le maggiori manifestazioni al nord in supporto dei sit-in organizzati al sud a quei tempi per i diritti dei neri furono organizzate da CORE. Ma l’umore razziale si stava indurendo già a partire dal 1964, in parte a causa della violenta negazione di molti diritti richiesti dal movimento al Sud. Anche SNCC cominciò a muoversi in una direzione più dura e i bianchi furono espulsi. Lo stesso disagio cominciò a sentirsi in CORE, e James Farmer fu sostituito da un leader molto più orientato a fare CORE un movimento nero.

Lo spirito di insurrezione generale accelerò nell’ottobre 1967, con la marcia verso il Pentagono e la settimana di proteste a Oakland Stop the Draft, che riuscirono ad occupare l’intero centro della città. Il senso di essere ormai in un ciclo ascendente di violenza continuava a crescere.  Il 1968 fu anche l’anno di due assassinii: Martin Luther King e Robert Kennedy. Dopo la morte di King ci furono manifestazioni dappertutto, ma soprattutto vere e proprie sommosse nelle comunità nere. La SDS non giocò un grande ruolo, perché ormai i destini della lotta dei neri e del movimento erano separati. L’atmosfera era orribile e molti pensarono che l’ultima speranza per una riforma non violenta dell’America se ne fosse andata con King.

Nel 1968 la militanza del movimento entrò in conflitto con il governo assolutista e la polizia di Chicago durante la convention del Partito Democratico, un evento recentemente ricostruito al cinema dal bel film di Aron Sorkin,

The Trial of the Chicago 7
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Todd è un idealista, un uomo gentile e senza violenza. Aveva visto persone che conosceva perdere la testa, prendere posizioni assurde, dogmatiche, idiote…Conosceva abbastanza storia per sapere come vanno a finire le rivoluzioni di sinistra, e in quel momento viveva in California dove lavorava per un giornale underground, e aveva già perso in parte speranze nel movimento. Decise comunque di andare alla grande manifestazione organizzata contro la convention democratica. Racconta a me e a Paolo nel suo studio di New York: “Andai con un doppio ruolo, di manifestante e di giornalista: osservatore e attore insieme. C’era una rivista di sinistra radicale che si chiamava Ramparts a quei tempi e che pubblicava, a Chicago, ogni giorno durante la settimana della Convention democratica, dei rapporti e analisi su quello che succedeva nella strada. E io scrissi di ciò che stava accadendo a Chicago. Ero là, dentro e fuori allo stesso tempo. Vedevo com’era facile arrendersi al caos psicologico che regnava. Sapevo di amici picchiati e arrestati, ero acciecato dai gas lacrimogeni, etc. etc. E mentre succedeva questo inferno, eravamo fieri ed eccitati di aver rovinato la convention democratica”.

La gente uscì da quello scontro confusa. Todd non credeva alla rivoluzione, ma sapeva che il mondo stava guardando e che questo dava un peso cruciale a quell’evento. Non era il cambiamento del potere che contava, ma il cambiamento dei rapporti di potere che sarebbe stato trasformato per sempre.

L’altro ricordo di Todd è la rivoluzione sessuale. All’inizio i gruppi di discussione sulla sessualità erano misti: uomini e donne che si raccontavano le loro esperienze, che imparavano a confrontarsi. Poi le donne decisero di procedere da sole, etichettando gli uomini come “membri della classe dominante”. Todd lo visse male, visse anche quella rottura come la fine di una speranza universalista del movimento, bianchi e neri, uomini e donne, operai e studenti tutti insieme per un mondo migliore. Ma Todd è un idealista. Credeva a un risveglio collettivo. Una grande riconciliazione, con gli esseri umani, tra le nazioni, con la Natura. Quella visione chiaramente fallì. Era assurdo pensare che la rivoluzione cubana potesse essere applicata agli Stati Uniti, che le cause dei gay fossero comparabili a quelle dei bianchi poveri americani, che le cause delle donne fossero da confrontare con quelle dei neri. Eppure, da quel sentimento di risveglio collettivo dipese anche l’emergere di tutte quelle lotte.

 

Ho ascoltato questi tre protagonisti del Sessantotto con aria sognante, cercando di immaginarmi cosa possa significare a diciotto o vent’anni vivere un’esperienza collettiva così intensa. Non mi è mai capitato nulla di questo genere, anche se un’atmosfera di sfrenata fantasia e di apertura al nuovo la vissi a Parigi durante il grande sciopero del 1995. Solo l’atmosfera: i contenuti politici e culturali erano pochi, ma la città era come sotto un incanto nuovo, la solidarietà gli uni con gli altri era totale e si moltiplicavano le iniziative collettive. Ho il ricordo di una meravigliosa prima colazione all’alba, sul Pont des Arts, organizzata spontaneamente da un gruppo di ragazzi, che chiedevano a tutti i passanti di portare qualche croissant, di sedersi attorno un lunghissimo tavolo improvvisato e di parlare insieme. Partecipai piena di gioia, dicendomi che il famoso Sessantotto francese doveva aver avuto momenti di altrettanta bellezza.

Ho molti amici della generazione che aveva vent’anni nel Sessantotto. Alcune amiche mi chiedono: “Ma perché ti piace tanto frequentare i vecchi?” Non sanno in realtà che i miei amici oggi settantenni sono stati quelli che hanno inventato la gioventù. E’ perché mi piacciono i giovani che sono a loro così tanto affezionata.





Friday, April 06, 2018

Una scatola di anguille


 This is my second episode of "Travelling with Dan". alas, in Italian.
                                                
La ricchezza della vita è fatta di ricordi, dimenticati.
                                                                        Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 13 febbraio 1944 

                                                                                                           
Il caldo mi perseguitava nelle scarpe. I piedi si gonfiavano, deformando il motivo traforato che decorava la tomaia bianca delle ballerine sportive con la suola di gomma che avevo comprato apposta per il viaggio. Faticavo a seguirti, ad ascoltare le tre damine in gonna corta, calze bianche e mocassini che ci facevano da guida nel parco di Nara. Era un caldo noto, milanese, un’afa piatta e costante. Qualcuno aveva inviato quelle tre signorine senza età, vestite da bambine, per farci visitare la città il giorno dopo il nostro arrivo. Indossavo pantaloni color ghiaccio e una maglietta verde che mi era sembrata così elegante quando l’avevo acquistata prima del viaggio e che ora mi stringeva dappertutto, gonfiata com’ero dal calore estivo giapponese, un caldo avvolgente che mi ottundeva la mente e m’impediva di ascoltare ciò che dicevi in quel tuo inglese incomprensibile a quelle signorine altrettanto incomprensibili.
Attraversare il giardino immenso di Nara mi riportava a una fatica infantile, estenuante e non udibile dagli adulti. I dettagli del mio corpo deformato dal calore si facevano sentire sempre più acuti, rendendomi insopportabile camminare, togliendo qualsiasi piacere alla visita. Una volta, da piccola - avrò avuto otto o nove anni - accettai un invito in gita dai nostri vicini di casa in campagna. Mi piaceva l’idea di andare sola con loro a visitare i giardini di Villa Carlotta, sul Lago Maggiore. Avevo chiesto in prestito a mia madre una sua lunga camicia scozzese cui avevo dato forma di vestito stringendola alla vita con una cintura di cuoio. Avevo indossato un vecchio paio di scarpe Superga bianche, senza calze, perché la caviglia nuda che fuoriusciva dal bordo liso della scarpa mi sembrava slanciasse meglio le mie gambe già lunghe di ragazzina allampanata. Ma le scarpe erano strette, il caldo nel giardino della villa mi aveva gonfiato i piedi e la pelle si attaccava alla tela delle Superga, creando piaghe dolorosissime. Io non dicevo nulla e andavo avanti a camminare contorcendomi. La vicina e le sue figlie mi guardavano imbarazzate. Lei mi chiese se dovessi andare in bagno, dato che il mio passo claudicante sembrava ritmare le contrazioni di un corpo che non ce la faceva più a trattenere qualcosa. Io dissi di no e gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Avevo voglia di piangere anche a Nara, avrei voluto chiedere alle signorine di lasciarci soli finalmente, di lasciarci riposare. La vita con te che tanto avevo voluto ora mi paralizzava, mi terrorizzava. Puntavo i piedi per restare ferma, dopo averti trascinato in una vita nuova, ero io che esitavo, che non ce la facevo a guardare lontano. La tua premura nei miei confronti era quella di un adulto gentile alle prese con una bambina impacciata, affettuoso e incapace di sentire ciò che lei sente. C’è un proverbio italiano che dice: “Nessuno sa dove stringe la scarpa tranne quello che la porta al piede”, come se il dolore muto e infantile del corpo a disagio fosse quello più incomunicabile.
Ricordo i cerbiatti nel parco. Li ricordo bene anche perché i disegni dei cerbiatti sono stampati in blu sul kimono bianco del Nara Hotel che conservo ancora. A volte lo indosso di mattina, quando dormo nuda, d’estate. Lo avevamo comprato all’hotel, prima di partire per Kyoto, un paio di giorni dopo il nostro arrivo.
Ci eravamo rivisti in primavera, dopo un anno difficile, e decisi di accompagnarti in Giappone. Eri venuto a prendermi a Milano, dove mi ero rifugiata dopo che quel nostro amore impossibile ci aveva travolto la vita a Parigi. Tu sposato, molto più vecchio di me, con una mente feroce e inarrestabile, una specie di animale selvaggio, fiero e insieme ferito al cuore. Io giovane, brillante e fanatica, disposta a infatuarmi per qualsiasi idea, qualsiasi causa, pur di uscire dall’immobilità della mia adolescenza milanese. Avevo perso mia madre pochi anni prima, ero scappata da Milano per non sentire il dolore, come i cani che corrono via veloce perché hanno ricevuto un calcio. Ti avevo eletto mio maestro, mia guida intellettuale e spirituale. Traducevo i tuoi libri, ma in realtà quel che cercavo in te, quello che mi conquistava, non erano le tue teorie, ma la tua forza mentale, il tuo spirito, quell’energia che, quando finalmente andammo a vivere insieme, sentivo circolare nella casa, la polvere magica che le fate lasciano cadere al loro passaggio: un’energia chiara, luminosa, quasi tangibile, un calore spirituale che insieme moltiplicammo in una formula magica.
Mi ricordo le passeggiate incantate a Parigi, mi sembrava che tutto si dorasse al nostro passaggio, come nelle favole che leggevo da piccola. L’inverno del nostro amore ci fu uno storico sciopero dei trasporti in Francia. La città era paralizzata, la gente andava in giro a piedi, con gli sci, le poche macchine che circolavano si fermavano per caricare i passanti che facevano l’auto-stop. Come in un racconto di Kleist, la popolazione intera sembrava sotto un incanto di bontà e di generosità. Una mattina in cui non avevo chiuso occhio tutta la notte per godermi quel sentimento di beatitudine che aveva invaso il mio corpo, la mia casa, tutto quello che mi circondava in quei giorni, uscii di casa all’alba, percorsi la rue de Mazarine fino alla Senna, e vidi sul Pont des Arts una lunga tavola da pranzo con una tovaglia rossa imbandita di croissants e dolciumi vari. Mi avvicinai curiosa, e un gruppo di ragazzi, anch’essi dall’aria beata, mi propose di unirmi a loro per fare colazione. Mi sedetti con loro stranita, le nuvole grigio-rosa della mattina passavano veloci sulla testa e intravvedevo un futuro luminoso, in cui avrei dovuto solo seguire il mio istinto, un cui la vita sarebbe stata mossa dal vento caldo del nostro amore.
Ci sembrava che quel disordine di tutto e tutti fosse una conseguenza del meraviglioso disordine interiore che provavamo. Nulla sapeva più stare al suo posto: le cose, le persone, mosse dalla forza magnetica dei sentimenti giganteschi che ci attraversavano, cambiavano posto, non stavano più ferme, come se in cielo cambiassero le costellazioni. Entrammo insieme da Shakespeare and Company, per comperare Middlemarch di George Eliot, che volevi farmi leggere. Il commesso ci guardò basito, non riuscì a emettere suono e ci porse il libro in dono con uno sguardo di gratitudine. Lo ringraziammo ridendo e uscimmo contenti nella luce fredda di quell’inverno indimenticabile.
Poi tutto si ruppe. Avevamo volato forse un po’ troppo alto, e il tonfo fu allora davvero forte, rimbomba ancora nelle mie orecchie. Tu partisti negli Stati Uniti, io non riuscii a raggiungerti, la mattina in cui dovevo partire sentii la mia vita e il senso di quell’amore dissolversi tra le mani. Mi misi a letto a piangere. Ti dissi che non avrei preso l’aereo. Feci le valigie in malo modo e lasciai Parigi con l’idea di non tornarci mai più. Rientrai a Milano, a casa di mia zia, e rimasi a letto intere settimane, con incubi atroci, bestie feroci che mi divoravano, visioni di dolori immortali ed eterni. La cacciata dal Paradiso, la caduta agli Inferi che stavo vivendo assomigliava ironicamente a tutte le letture della mia giovinezza, che d’un tratto prendevano un senso nuovo, come se mi fosse stato svelato il segreto dell’esperienza profonda della vita. Allora mi misi a leggere, seduta a letto. Leggevo Il Rosso e il Nero, leggevo Milton, leggevo Auden e La terra desolata di Eliot e per la prima volta capivo quella desolazione, capivo la crudeltà di Aprile, le parole non rimandavano a nient’altro che alla descrizione semplice di ciò che avevo vissuto. Fu proprio in Aprile che tornasti. Io cominciavo a riprendermi: mi ricordo un bagno al mare, in Liguria, in cui di nuovo mi era sembrato di avere un corpo vivo, e poi una notte con un amante gentile, che avevo amato distrattamente solo per terapia. Mi chiamasti e venisti a prendermi a Milano. Ti avevo detto che a Parigi non sarei più venuta. Dunque si ricominciava da casa mia. E dal Giappone.
Nara è una cittadina ancora in parte tradizionale. Fu capitale del Giappone tra il 710 e il 784 e conserva i tratti eleganti e il senso di superiorità che si respira in tutti i luoghi che furono al centro degli imperi o delle corti. Ricordo poco della passeggiata in città. Ricordo il blu profondo dei tessuti appesi all’entrata dei portoni e il marrone caldo delle case di legno; ricordo visite a templi tutti uguali e una salita interminabile fino a raggiungere una casupola di legno scuro, con panche semplici, un piccolo ristoro per turisti dove assaggiammo entrambi per la prima volta il gelato al tè verde con i fagioli rossi dolci. Il sapore ottuso e dolciastro dei fagioli creava un contrasto perfetto con il gusto lievemente amaro e astringente del tè verde, e i due colori, il verde chiaro del gelato e l’amaranto spento dei fagioli, riposavano lo sguardo abbagliato dal sole.
Prendemmo poi un treno. A Kyoto ci aspettava un elegante ryokan, albergo tradizionale giapponese. Il sole non entra mai direttamente nelle camere di un ryokan. La luce è riflessa, per evitare fastidiosi scintillii: l’estetica giapponese è opaca, come il metallo grezzo, non ancora lustrato. Ciò che brilla è violento, osceno: si dice che le geishe si facessero annerire i denti per evitare qualsiasi riflesso lucente sul viso. I tessuti sono rugosi, l’oro dei paraventi sempre patinato, verdastro, l’argento ossidato. Ad aspettarci, in camera, c’era una brocca d’acqua gelata e due semplici kuzu-zakura, dolcetti fatti con un impasto zuccherato di fagioli, avvolti elegantemente in una lunga foglia verde annodata. Sciogliesti il nodo per offrirmi il pasticcino con un gesto accurato. La camera era fresca, la luce riposante, ci sdraiammo sui futon disposti a terra, nell’ombra. Facemmo l’amore in silenzio, io ancora lontana, straniera a me stessa e a te, entrambi sorpresi dalla bellezza di quel rifugio, di quella tana accogliente. Mi ricordo poco, se non l’atmosfera sorda e ovattata della camera, e il gusto del pasticcino ancora in bocca. Poi facemmo un bagno, prima in camera, nella vasca di legno rettangolare, poi nelle grandi vasche comuni del ryokan, dove si condivide l’acqua con gli altri ospiti, in un rito di purificazione più che di pulizia.
La cena fu servita in camera da un’inserviente che entrava in ginocchio e scompariva dietro le quinte tra una portata e l’altra. Ci sedemmo per terra, sugli stessi tatami sui quali poco prima erano disposti i due futon. Lo spazio della camera è uno solo, come a teatro, e la scena cambia in continuazione. Dopo il sonno, o dopo l’amore, il letto scompare in un armadio. Sui tatami appaiono allora vassoi, porta vivande e cuscini per sedersi. Dietro le quinte delle pareti di carta di riso si alternano le ombre discrete degli inservienti, come se quell’intimità così perfetta, così protetta, fosse troppo esemplare per non essere osservabile dagli altri. Ceniamo imbarazzati e contenti, sicuri di risultare goffi nei modi a quegli osservatori sparsi e silenziosi, eppure già trasformati dalle posture nuove, dal bagno rituale, in creature marziane e purissime.
A Kyoto, il mondo parallelo giapponese ci stava già conquistando. Visitammo musei, teatri, templi, facemmo il corso accelerato per turisti per apprendere la cerimonia del té, ci comprammo cianfrusaglie e chincaglierie di tutti i tipi. Decidemmo solennemente che il bagno sarebbe stato alla giapponese per sempre: prima ci si striglia sotto la doccia, insaponandosi così da eliminare qualsiasi sporcizia, poi si fa colare l’acqua del bagno nel quale si entra già perfettamente puliti. L’idea di tornare a quei bagni torbidi, pieni di sapone squagliato, di capelli e di schiuma, ci sembrava semplicemente immonda. In un tempio, tu feci scrivere il nome in giapponese di tuo figlio su un foglio che sarebbe stato incollato a una tegola e lì sarebbe rimasto per sempre. Quel figlio poi se ne andò a stare in Oriente, chissà se un giorno passerà di lì, chissà se, per caso, viaggiando, si troverà a ripararsi dal caldo sotto il tetto dove c’è scritto il suo nome.
Il tempio era immerso nel verde. Facemmo una passeggiata nel bosco, il caldo umido mi batteva di nuovo nella testa e nelle scarpe. Ci sedemmo in un ristoro in mezzo agli alberi. Isamu, che ci accompagnava, ordinò oudon freddi, che arrivarono in bellissime scatole rettangolari, accompagnati da eleganti ciotole laccate di rosso, ricolme di cubetti di ghiaccio. Imbarazzati, aspettammo il gesto di Isamu per sapere come mangiare quegli strani spaghetti gelati. Isamu prese con le bacchette gli oudon già freddi per disporli nella ciotola di ghiaccio. Poi li immerse nella salsa di soja con cui erano serviti e finalmente avvicinò le bacchette alla bocca. Facemmo lo stesso. Il ghiaccio intanto cominciava a sciogliersi per il caldo, trasformandosi in una meravigliosa zuppa gelata in cui la pasta veniva immersa una prima volta, come in un rito di purificazione, per poi essere immersa nella soja e infine gustata. Il freddo bagnato degli oudon sulla lingua e sul palato mi prese tutti i sensi, come un piacere sensuale al quale non ero preparata. Il silenzio intorno divenne d’un tratto evidente, così come i colori forti dei piatti in contrasto con il cibo incolore. Il mio corpo si liberava dalla stretta del caldo, e mi sembrò quasi di essere dentro, per qualche secondo, a un altro sentire. Ci guardammo complici e contenti.
Kyoto è circondata di colline verdi. I confini urbani restano percepibili, anche se, a viaggiare in macchina, il paesaggio giapponese sembra quasi padano: fittissimo di costruzioni, una città ininterrotta circondata da qualche zuccotto verde di alberi. Una volta, in auto, andando verso Tokyo, Isamu si fermò sul ciglio di un’autostrada trafficata. Ci fa scendere dalla macchina. Intorno a noi c’è solo un paesaggio uniforme di sobborghi urbani, un misto di torri e fabbriche, attraversati da autostrade che s’innescano una dell’altra e si attorcigliano come serpenti grigi. Isamu mi prende delicatamente il viso tra le mani, costringendomi a dirigere lo sguardo dove vuole lui. Più lontano, s’intravvede un monte con la cima innevata, come nei quadri di Hokusai, e proprio da lì, da quel triste spiazzo dell’autostrada, se fisso il monte, la traiettoria della mia vista sarà intercettata da alcuni rami di pesco fioriti. E così, nel mezzo di quel non-luogo tetro e banale, sorge una vista sublime, precisa e concentrata, una linea diretta con la bellezza di un solo punto nell’orizzonte. L’estetica giapponese è nel dettaglio delle cose, dell’intensità del mettere a fuoco un particolare, staccandolo dal resto. Non è l’estetica europea estensiva del paesaggio a perdita d’occhio, l’Europa verde dei campi e delle vigne. E’ una bellezza delle cose, degli oggetti, come se l’occhio si potenziasse in quella relazione visiva intensissima con una sola cosa. Mi ricordo di un film, Hana-Bi, dove un killer innamorato porta la moglie malata di cancro a vedere delle cose belle prima di morire, e così, tra una sparatoria e l’altra, riesce a trascinarla a vedere un aquilone, un albero, una nuvola, ma attenzione: non le nuvole, quella nuvola, solo quella lei si porterà con sé nell’altro mondo.
Una cosa che mi piaceva di quel viaggio insieme era il tuo modo gentile di farmi sentire piccola e stupida, trasportata da una parte all’altra del mondo come una bambina dentro a una valigia, senza capire bene cosa mi stesse succedendo. A Kyoto mi facevi da guida come se conoscessi la città da sempre. Eri tu l’invitato d’onore in Giappone, io una semplice, sconosciuta accompagnatrice, una “insignificant other” come ti dicevo scherzando, per di più imbarazzata dal mio ruolo di amante legittima. L’imbarazzo mi ottundeva il cervello. Mi sentivo in uno stato d’intontimento permanente, come se non sapessi dove mettermi, se non vicino a te. Tutto mi sembrava enorme, smisurato, la tua sapienza, la tua celebrità, il mondo, tutto quello che avrei dovuto sapere per vivere in un mondo così grande e inesauribile. Allora meglio non guardare, non provare a fare nulla, solo nascondersi dietro di te, rannicchiarsi contro di te, lasciarti decidere, lasciarti parlare, con quel tuo inglese incomprensibile, io zitta, piccola. Mi dico a volte, solo tu mi hai fatto stare zitta, solo tu mi hai fatto sentire piccola, io che mi muovo in questo corpo gigantesco, che non ho mai avuto misura in nulla, che sono scappata sempre perché dovunque fossi crescevo troppo e, come Alice nel paese delle meraviglie, cominciavo a distruggere quello che mi stava intorno ingigantendomi…E invece, proprio a Kyoto, mi stringi di colpo per strada, al semaforo, con quel tuo fare schietto e la tua immensità discreta e naturale, mi stritoli tra le tue braccia sudate, la camicia di lino blu che porti è incollata alla pelle, e io mi incollo al tuo petto, sicura che solo lì, così vicina, non mi succederà mai nulla di male, perché in quel momento io so che sei abbastanza grande per contenermi tutta, lo so con una certezza che mi scioglie il cuore.
Lista delle cose da ricordare:
Gli oudon gelati
La montagna tra i rami di pesco
Il dolcetto del ryokan
Il gelato al tè verde con i fagioli rossi
Il bacio per strada, a Kyoto
A Tokyo ci accoglie nella hall dell’hotel Lucas, un linguista inglese che ha sposato una giapponese e da anni vive in Giappone. Ha l’aria sperduta come noi nella città gigantesca. Cerchiamo un ristorante. Lui, nella zona, non ne conosce. Noi ancor meno. E’ come se fosse atterrato sul pianeta sbagliato. Tokyo è fatta di quartieri tutti uguali al nostro occhio occidentale, che si ripetono come cloni: una città di satelliti giganteschi e indistiguibili, come quelle stazioni spaziali dove atterrano gli eroi di Star Wars. Andiamo a caso per le strade, guardando in alto, perché a volte i ristoranti migliori sono nascosti nei grattacieli, al quinto, sesto, decimo piano. All’entrata dei palazzi guardiamo le scritte in giapponese e i disegni di sushi, di oudon e di tempura. Spesso, se il ristorante è in basso, ai disegni si affiancano modelli di plastica perfetti dei piatti che saranno serviti, come in un gioco di bambole in cucina. Mi piacciono quei giocattoli alimentari, mi ricordano l’uovo al tegamino di plastica che tenevo nello sportello del Dolce Forno, il piccolo forno giocattolo che condividevo con mia sorella per preparare merende prelibate alle nostre bambole.
Lucas è perso, si annoia, gli hanno ordinato di accoglierci ma non ne ha nessuna voglia, vorrebbe essere a casa a bere tè verde con la sua moglie giapponese, non sa cosa dirci, non gli importa nulla di chi siamo e cosa facciamo là, forse è per quello che è venuto a vivere così lontano dall’Europa, per essere lasciato in pace. Sarei capace io? Sarei capace di lasciare tutto e andare a vivere in un posto davvero lontano, un luogo marziano come questo, giusto per amore di un dettaglio, che so, per la passione del tè verde? Lucas ha detto proprio così, che è il tè verde che l’ha fatto restare in Giappone, non quello che si trova ovunque anche da noi ormai, ma il matcha, quella specie di polvere verde rana, che si scioglie con un frustino di vimini nell’acqua caldissima ma non bollente, la stessa polvere con cui si fanno gelati e frappé, con un colore che è più inebriante del sapore. Sa di tè e di caffè insieme, è un gusto opaco, asciutto e avvolgente, come una carta preziosa.
Prendo io la decisione, Lucas è troppo impacciato, conosco quel genere di accademici, rischiamo di camminare a vuoto per tutta la sera. Entro in un palazzo seguendo un’illustrazione di tempura, prendiamo l’ascensore fino al ventinovesimo piano. Il tempura bar è di apparenza banale, senza uno stile particolare. Non c’è odore di fritto, buon segno. Ci servono in fretta, le verdure sono croccanti, la frittura è solo un involucro, uno scrigno che contiene in uno stato perfetto le fettine di zucca arancioni, i gamberi rosa, le zucchine striate di verde. Il conto è carissimo, più di trecento dollari. Pago io, imbarazzata di aver scelto un posto così caro. Bisogna saper scegliere i tempura bar se si vuole spendere poco. Non si paga caro il cibo, si paga la purezza dell’olio. I buoni tempura bar hanno olio buono e pulito, scaldato per la prima volta. Più si scende di qualità, più l’olio è scaldato e riscaldato. C’è addirittura un mercato dell’olio impuro: i buoni tempura bar vendono a quelli meno buoni l’olio di seconda mano, e così via in una catena di impurità in discesa che ricorda all’inverso la purezza ascendente del rituale del bagno giapponese: l’acqua sempre più pulita e l’olio sempre più sporco.
Eppure valeva la pena: valeva la pena di pagar cara quella purezza, quell’assenza, un lusso infinito in questo mondo ormai saturo di troppe cose, unto e grasso, mal digerito. Mi innamorai di te per la stessa ragione. Perché eri essenziale, non c’era nulla di troppo, un’austerità esemplare, io piena di ninnoli e di paramenti inutili, e tu così puro davvero, così vero. Io tutta costruita nella mia milanesità folkloristica, la signorina per bene, la sciura borghese che sa apparecchiare la tavola, che sa che le forchette vanno a sinistra e i coltelli a destra, che ha norme e misure per tutte le cose inutili, inessenziali, discutibili. Che me ne faccio delle forchette a sinistra e dei tovaglioli piegati sotto il coltello nel paese delle bacchette e degli oudon sul ghiaccio? Che me ne faccio delle regole da cui sono scappata e alle quali mi sono aggrappata come un naufrago alla sua zattera una volta lontana dal mio mondo? Ma tu mi guardavi così da lontano, guardavi giù giù nella terra degli umani quella ragazzina che ero, viziata, sbagliata, tutta tesa in un artificiale tentativo di distinzione, distinguersi dal mondo da dove venivo, aggiungere un che di esotico alla parte della ragazza milanese, un esotismo che però avrei potuto spendere solo a casa, come una piuma sul cappello, o un modo diverso di allacciarsi il cappotto. Quando ci incontrammo a Parigi avevo poco più di vent’anni, e quel tuo sguardo vero su di me, sincero fino all’osso, mi aveva fatta rinascere proprio lì, davanti a te. Dopo anni a cercare la postura giusta, la distanza giusta, eccoti lì davanti, senza posa, a guardarmi dritta dentro, come guardavo io la montagna giapponese tra i fiori di pesco, giusto la bellezza dell’essenziale. Sono essenziale? Io? Ho un’essenza? Chi sono io, che cosa c’è di me che può perdurare uguale a Parigi, o a Milano, o qui in Giappone tra i rami di pesco in fiore e i grattacieli di Tokyo?
Da allora non ti mollai più un istante. Volevo sentire sempre quello sguardo su di me. Solo con te ero vera, ero ciò che volevo essere, solo con te il mondo si sarebbe aperto all’infinito, l’avrei conquistato, tenuto in una mano, l’avrei guardato anche io da lontano come te, come due marziani purissimi avremo girato il mondo intero senza atterrare mai più.
Isamu ci porta alle terme, in montagna. Indossiamo entrambi il kimono e degli impossibili zoccoli, una tavoletta liscia alla quale sono incollati due pezzetti di legno a mo’ di tacco, uno davanti e uno dietro. Camminiamo come asini impacciati avanti e indietro per la stazione termale. Credo di aver capito che una lieve mancanza di destrezza sia una qualità in Giappone. Bisogna camminare scomodi, con le scarpe strette, non sapere dove mettersi, non essere mai diretti, sfacciati, allungare timidamente la mano con il proprio biglietto da visita girando lo sguardo, evitare le strette di mano franche all’americana, evitare il passo deciso, sicuro, come se solo nell’incertezza ci fosse eleganza. Forse per questo ai Giapponesi piacciono le donne bambine, con le gonne a pieghe e i calzettoni corti. Perché anche le bambine sono impacciate, a volte goffe, e vulnerabili.
A cena da Isamu, sua moglie resta in cucina. Ha preparato tutto: la zuppa calda, gli antipasti, il pesce affumicato. C’è un musicista tra gli invitati che racconta la sua vita di concerti e la durissima scuola di pianoforte che sta facendo subire a sua figlia perché diventi una grande concertista. Così forse se ne andrà, penso. Così non dovrà restare in cucina mentre il marito intrattiene gli ospiti in salotto. Così se ne andrà lontana da quel padre megalomane ed esigente. Durante la cena, il Giappone mi appare piano piano sotto un’altra luce, come un mondo duro, arcaico, sul quale è calata una mano di modernità senza che davvero il paese sia diventato moderno. Quelle donne bambine e silenziose sono il simbolo della sua arcaicità. Forse anche tutta quella pulizia ossessiva, e l’assenza totale di differenze etniche: in Giappone tutti sono Giapponesi. Mi ricordo un racconto di Kenzaburo Oé, di un paracadutista nero americano catturato in un villaggio del centro del Giappone, e lo stupore dei bambini del villaggio attorno a quello strano essere dalla pelle scura e i denti luccicanti, troppo bianchi. Alla fine il paracadutista è fatto a pezzi, massacrato in un rituale di catarsi collettiva dal diverso.
Vorrei viaggiare per sempre con te, vorrei non atterrare più, come quel paracadutista, sento che la salvezza è solo se resto in volo, se non m’immergo più in nessun mondo, né quello piccolissimo dal quale provengo e di cui conosco tutto, né negli altri mondi immensi, sconfinati, lontani, diversi, dove tu mi porti e ai quali non appartieni mai. Di dove sei tu? Da dove vieni? Chi rompe l’incantesimo della sua origine, chi non si identifica più nella fitta boscaglia così familiare del primo luogo, o chi non si è mai identificato, o ancora chi quel luogo non l’ha mai avuto, forse è condannato a esser massacrato ovunque, come il paracadutista di Oé. Oppure può salvarsi se resta sempre in aria, se non scende a terra. Tu sei un luftmensch
Ora ricordo quegli anni con te proprio così, come su un’astronave. Ti dicevo che casa nostra a Parigi era un’astronave, dove ci fermavamo di tanto in tanto a riposare, prima di riprendere i nostri viaggi. L’importante era non atterrare mai. Perché me ne sia andata resta un mistero. Avevo bisogno di tornare giù? Di ritrovare la boscaglia fitta? Mistero. Anche perché non la ritrovai mai più.
Isamu ha un segreto. Un ristorante non lontano dall’università dove si mangiano le anguille. Ne avevamo mangiate anche a Comacchio, sull’Adriatico, quella strana città spettrale, con i canali veneziani sui quali galleggiavano anatre di legno. E’ la specialità della città. Ma l’anguilla giapponese è molto più prelibata. E’ un pesce grasso l’anguilla. Contrasta con la cucina giapponese così epurata, essenziale. Con un sorriso sornione, Isamu ci conduce al ristorante, dopo la tua ultima conferenza all’università. E’ un buongustaio e un uomo che sa vivere. E’ sorridente e di buona conversazione, si vede, anche se parliamo poco. Il ristorante è in ombra, le finestre piccole danno su un bellissimo giardino di aceri. E’ un luogo fresco, una specie di tana, dove ci sentiamo comodi e al sicuro. Parliamo male, lui nel suo inglese incomprensibile, tu nel tuo inglese incomprensibile, io silenziosa, come una moglie giapponese in cucina, non so cosa dire, sto a guardare. Eppure è una buona conversazione. Condividiamo qualcosa. Il fresco, forse, la tua lezione che abbiamo appena ascoltato. E l’attesa delle anguille. Beviamo saké freddo, e finalmente dalla cucina escono tre scatole nere di lacca, con incisi motivi marini in color oro. Luccicano appena nella penombra e ci vengono posate davanti chiuse, come i regali dei Re Magi. Isamu sorride, il suo viso si illumina, ci guarda con intesa e lentamente alza il coperchio della scatola. Si intravvede un colore bruno, di caramello. Le anguille sono là, uniformi, come soldatini, sotto un manto caramellato che fa venire l’acquolina in bocca. Con le bacchette faccio un buco in quel manto, e sento che affondo in una carne bianca e tenera. Portiamo tutti e tre le bacchette alla bocca nello stesso momento e ci guardiamo: la scatola delle meraviglie è sotto i nostri occhi, scura, discreta, e il sapore denso di quel pesce serpente si insinua nei corpi di tutti e tre, nelle facce, nei sorrisi. Piano, piano gustiamo l’anguilla, è un piacere segreto e fortissimo, bisogna stare in silenzio. Quante parole inutili a volte. Quando tutto ciò che c’è di bello al mondo può stare dentro a una scatola. Ti guardo, in silenzio. E’ vero. Sei l’unico uomo che è riuscito a farmi stare zitta.
Lista delle cose da ricordare
Il tè verde
L’acqua calda delle terme in montagna
Un ristorante popolare a Ginza, al tramonto, dove mi raccontavi dell’Africa e di te
Una risata per strada dopo il tempura bar
Una scatola di anguille

Saturday, February 03, 2018

EDGE 2018: What is The Last Question?

Read EDGE's last question here: https://www.edge.org/the-last-question

Here is mine:

Wednesday, January 03, 2018

Séminaire Epistémologie Sociale 2018 EHESS : Les Passions Epistémiques



Gloria Origgi
Séminaire d'épistémologie sociale : les passions épistémiques (crédulité, propagande, désaccords et fausses nouvelles)

Lundi de 13 h à 15 h (salle 2, 105 bd Raspail 75006 Paris), du 15 janvier 2018 au 28 mai 2018

Ce séminaire s’insère dans la recherche contemporaine en épistémologie sociale. Nous essaierons d’examiner avec les outils de ce champ de recherche le rapport entre émotion et vérité dans la gestion et la manipulation des passions épistémiques. L’opinion publique est-elle manipulable ? Par quels mécanismes ? À qui et pourquoi faut-il croire ? Quel est le rôle de l’expertise dans les démocraties ? Quelles sont les formes de propagande propres à la démocratie ? Le séminaire proposera un parcours de lectures de philosophie contemporaine et des classiques de la philosophie et des sciences sociales du XXe siècle pour illustrer ces questions en présentant en même temps des notions clé de l’épistémologie sociale.

La connaissance de l’anglais est requise. Des lectures obligatoires seront distribuées à chaque séance


15 janvier : Introduction : vérité, passion et autorité de la Rhétorique d’Aristote aux fake news

22 janvier : Qu’est-ce qu’un expert ? La vraie ou fausse question de l’érosion de la confiance dans l’expertise

29 janvier : La fabrication du consentement. Walter Lippman et l’opinion publique

5 février : Cascades informationnelles et chambres d’échos : information et réputation

12 février : Paula Diehl (Université de Bielefeld) : Antipolitics, Aggressive Entertainment, and Post-Truth Politics (analyse d’un débat politique)

19 février : Stephen Holmes (Law School - NYU et Blaise Pascal Chaire au CESPRA, EHESS) :Why Leaders Lie

5 mars : Mathilde Duclos (doctorante SciencesPo) : présentation du texte de Gabriel Tarde :L’opinion et la foule http://livre-rose.hyper-media.eu/wp-content/uploads/2014/03/tarde_opinion_et_la_foule.pdf

12 mars : Les nouvelles formes de légitimation du savoir : techniques de surveillance et « docilité épistémique »

19 mars : Pascal Engel (CRAL – EHESSPolitique de la foutaise : de Foucault à Trump 

26 mars : Jan Jonathan Bok (Université de CambridgeTruth and Power : The Politics of Expertise in l’Aquila Earthquake Trial

9 avril : Hugo Mercier (CNRS- Institut Nicod) : La théorie argumentative du raisonnement et la diffusion des fake news

16 avril : Le statut du savoir. Le rôle des passions statutaires dans la hiérarchie de la connaissance

23 avril : De la propagande en démocratie

14 mai : Peut-on être en désaccord entre « pairs » ? Réflexions critiques sur l’épistémologie du désaccord

28 mai : Jason Stanley (Université de Yale) (à confirmer) : How Fascism Works


Contact : Gloria Origgi : gloria.origgi@gmail.com ; Nathalie Abitbol Evin :nathalie.evin@ehess.fr