Uno spettro si aggira per gli Stati Uniti: e se l’università non servisse più a niente? L’idea dell’anno che fa discutere l’America su giornali, blogs e televisione è la seguente: a che serve indebitarsi fino ai denti per passare quattro anni al college? Da quando l’aria dei tempi ha invaso anche l’ultimo baluardo della ragione - l’accademia - trasformandolo in un business a tutti gli effetti, con metriche di competitività, managers, joint-ventures e politiche di espansione, un dubbio si è infiltrato nella mente del consumatore americano di conoscenza: ma varrà la pena di spendere una media di trentamila dollari l’anno, di ritrovarsi indebitati alla fine degli studi, per stare quattro anni in un hotel di più o meno lusso a fare sport, uscire con le ragazze e bere birra con gli amici?
Da sinistra e da destra, dall’esterno e dall’interno del sistema, il nuovo business universitario americano è sotto il fuoco incrociato di intellettuali, giornalisti, drop-out di successo e milionari che incoraggiano i giovani a investire il loro tempo e i risparmi dei loro genitori in un modo più utile.
Così James Altucher, imprenditore, venture capitalist, e editorialista del Financial Times, snocciola dalle colonne del suo blog (http://www.jamesaltucher.com ) le 8 alternative al college, tra le quali: gettarsi subito nell’arena e cominciare un’attività imprenditoriale. Unica regola da sapere: comprare a poco e vendere a molto. Secondo Altucher, anche se tutto va male, dopo quattro anni si saprà molto di più di dividendi, strategie commerciali, prestiti bancari etc., di quanto qualsiasi college avrebbe potuto insegnarci. E si rischia pure di aver fatto qualche soldo…Oppure: viaggiare, lavorare per un’organizzazione di beneficienza, scrivere un libro, imparare a fondo le regole di un gioco intelligente (per esempio gli scacchi), dipingere, imparare bene uno sport, recitare.
Gli fa eco Peter Thiel, miliardario high-tech, fondatore di PayPal e uno dei primi investitori entusiasti di Facebook. Libertario convinto, Thiel sostiene che l’istruzione imposta dall’alto non sia che inutile paternalismo, e ha istituito una borsa di non-studio (20 under 20: http://www.thielfoundation.org ) che dà un finanziamento di centomila dollari a venti ragazzi di meno di vent’anni che decidono di lasciar perdere l’università e cercare invece di mettere in pratica la loro idea più visionaria sotto la guida dei migliori imprenditori di Silicon Valley.
Se le posizioni estreme di Altucher e Thiel provocano reazioni indignate, la questione del valore degli studi superiori resta aperta: dopo la crisi finanziaria, la crisi immobiliare, l’America si prepara ad affrontare l’esplosione di una nuova bolla speculativa: l’università. In effetti, dati inquietanti emergono da vari studi, come il libro di Andrew Hacker e Claudia Dreifus, Higher Education? How Colleges Are Wasting Our Money and Failing Our Kids (2010, Times Book), o il rapporto dell’economista Richard K. Vedder, fondatore di un Think Tank sulla sostenibilità dell’istruzione universitaria, ripreso in un articolo del New York Times dal titolo eloquente: Plan B: Skip College? I costi delle rette universitarie sono decuplicati negli ultimi trent’anni, un aumento abnorme, confrontato all’aumento dei costi sanitari (cresciuti di sole sei volte nello stesso arco di tempo) o dell’inflazione (triplicata). In più, si tratta di un business sicuro, dato che gli investimenti nell’istruzione sono gli unici che non calano anche durante la più dura crisi economica. I rettori strapagati delle grandi università americane lo sanno bene, e approfittano delle ansie ataviche della classe media che vede nei figli laureati al college il simbolo della propria riuscita sociale e la sicurezza di un futuro migliore. Cinicamente, i grandi amministratori alzano la posta di entrata nei college esclusivi, ben coscienti che la domanda si manterrà grazie all’effetto di networking di questi club di lusso, per cui i laureati delle università della Ivy League assumono solo laureati che provengono dalle stesse università. Anche le banche sguazzano nel nuovo business: i prestiti per lo studio costituiscono un prezioso prodotto e fidelizzano una clientela di giovani che si troveranno ad avere a che fare con i rimborsi per i successivi vent’anni.
Eppure i dati mostrano che la correlazione tra carriera di successo e buoni studi universitari è scarsa. Inoltre, nell’era di Internet, avere un Master non è nemmeno più una credenziale, dato che i modelli sociali dei giovani sono gli imprenditori senza laurea di Silicon Valley, da Steve Jobs a Zuckerberg. Il mito del giovane genio che inventa il futuro nel garage fa più sognare dell’impettito diplomato di Harvard con stemma sulla giacca.
Insomma, il college non è un buon investimento. Gli stessi soldi investiti in una casa garantirebbero un futuro più roseo ai poveri freshmen indebitati.
Mentre l’Europa si agita in tutti i sensi per rispondere alla sfida della competitività universitaria e si affanna a iniettare un modello aziendalista nelle nostre vecchie istituzioni, l’America comincia a scoprire che il prodotto universitario non serve a niente. Perché? Sembra ovvio, ma evidentemente non lo è per governanti e presidenti di facoltà: semplicemente, come spiega bene il bel saggio di Martha Nussbaum Not For Profit (Princeton University Press) perché le università non servono alla produzione, bensì alla riproduzione di un insieme di valori e di un corpus culturale senza il quale una società perde la sua identità. Forse è più lucido lo studente di filosofia, che non si è mai chiesto che tipo di investimento stava facendo quando si è iscritto all’università, dell’apprendista finanziere che si trova buggerato semplicemente perché ha comprato qualcosa che non si vende e non si compra. Insomma, più Kant e meno account dovrebbe essere lo slogan per salvare i campus dal nonsenso in cui si sono cacciati.