Wednesday, November 30, 2011

Gender Studies between Nature and Culture


Draft. Do not quote without permission. Submitted to the GOSH volume, edited by Valentina Chizzola.

Abstract in English:
I present four possible positions about the relation between sex and gender:
  1. gender is socially constructed
  2. sex is socially constructed
  3. gender is naturally determined
  4. sex is naturally determined

By discussing Thomas Laqueur's work Making Sex, I reconstruct the history of the "one-body", "two-bodies" theories of sex, and agree with him that sex is a scientific category, thus partly socially constructed, that emerges in modern science. I then argue that some contemporary positions in gender studies could be seen as compatible with some contemporary scientific theories on the relationship between nature and culture. For example, Judith Butler's gender performativity theory could be read in a more naturalistic stance. The dialectic between sex and gender overlaps in so many ways the one between nature and culture and one cannot be understood without exploring the other.


Non sono una studiosa di gender studies. Sono una donna, e perciò ho uno spontaneo interesse per un campo d’indagine che cerca di comprendere gli aspetti sociali e culturali della distinzione tra maschile e femminile. Inoltre mi occupo di epistemologia sociale, ossia di quell’ambito dello studio della conoscenza che cerca di comprendere la dimensione socioculturale della costruzione del sapere. Nel mio lavoro intellettuale ho dunque spesso incrociato gli interessi dell’epistemologia femminista, ossia di quelle autrici, come Donna Haraway, Helen Longino, Sandra Harding e Miranda Fricker[1] che ritengono che la conoscenza non sia neutra rispetto ai ruoli sociali: la verità è in qualche modo “sessuata”, così come lo sono l’autorità e il potere e il punto di vista di chi dice cosa: la nostra posizione nel mondo, le relazioni di potere a cui siamo sottomesse/i non possono essere dissociate da ciò che diciamo. Per esempio, la standpoint view theory delle filosofe femministe sostiene che la conoscenza è socialmente situata, e che chi è in una posizione sfavorevole, marginale, nell’organizzazione sociale e politica del sapere, vede cose che chi è centrale a quest’organizzazione non vede. Recentemente, in un’intervista per La Repubblica (3 novembre 2011), la filosofa francese Elisabeth Badinter, una delle massime critiche del femminismo americano contemporaneo, ha sostenuto che l’autorità non ha sesso: il potere non è né maschile, né femminile: bisogna permettere alle donne di accedere alle cariche di potere con le stesse opportunità degli uomini, ma un mondo del potere a maggioranza femminile sarebbe per lei identico al mondo attuale, in cui il potere è ancora sostanzialmente in mano a una maggioranza maschile. Per la teoria sociale femminista e l’epistemologia femminista, la posizione di Badinter è frutto della stessa cieca sottomissione a una dominazione patriarcale che è talmente incarnata nelle nostre strutture di pensiero e d’azione da sembrare naturale all’occhio ingenuo della maggior parte delle persone, ma che in realtà non è che il frutto di una particolare configurazione storico-sociale (la struttura patriarcale) e dipende dal punto di vista di un gruppo dominante in questo periodo storico.

Il dibattito è aperto: questa premessa mi serve solo per “collocare” il mio contributo all’interno di questo libro. Benché non sia una specialista degli studi di genere, condivido con questi studi la postura intellettuale di fondo, ossia, lo sguardo disincantato che mi fa vedere qualsiasi gerarchia sociale e ordine del discorso come frutto di un punto di vista situato in uno spazio storico.

Il mio intervento si concentrerà sulla dialettica della distinzione sesso/genere, com’essa si è articolata nella storia del pensiero e negli attuali gender studies e quali sono i suoi rapporti con il dibattito natura/cultura.

Nel panorama attuale dei gender studies, si possono distinguere almeno quattro posizioni sulla costruzione dei ruoli sessuali:

La differenza tra i generi è costruita

La differenza tra i sessi è costruita

La differenza tra i generi è naturale

La differenza tra i sessi è naturale

Il punto di partenza di questa discussione risale al libro di Simone de Beauvoir, Le deuxième sexe, pubblicato in Francia nel 1949. In questo saggio, divenuto celebre per la frase: “Non si nasce donna. Lo si diventa”, in realtà la Beauvoir dedica una lunga parte alla differenza biologica tra i sessi e al femminile biologico: maschi e femmine sono due tipi di individui che si distinguono all’interno di una specie per la riproduzione. Dopo un lungo capitolo sulla distinzione biologica maschile/femminile, incentrato principalmente sui ruoli riproduttivi e sulle diverse teorie della riproduzione accumulate nei secoli, la Beauvoir conclude che tutto ciò non è sufficiente a definire la donna come l’Altro per eccellenza in contrapposizione al quale l’identità maschile si è costruita: nessuna realtà biologica può determinare un’identità fino a quando non è assunta a livello cosciente e vissuta nelle proprie azioni. La famosa frase: “On naît pas femme : on le devient” echeggia in tutto il dibattito contemporaneo sulla distinzione tra sesso e genere. Se le differenze sessuali sussistono nella maggior parte delle specie viventi per ragioni riproduttive, ciò è altamente sotto- determinato rispetto all’esistenza dell’identità maschile e femminile. La natura femminile non sarebbe correlata alla cultura femminile: difatti, anche nel mondo animale troviamo tratti “femminili”, ossia destinati alla gestazione, in individui che per comportamento sociale sono definiti “maschi”. Insomma: non c’è una corrispondenza evidente tra essere un individuo portatore di tratti riproduttivi femminili ed essere un individuo culturalmente e socialmente “donna”.

Eppure, le quattro posizioni che ho elencato sopra, mostrano che i rapporti tra natura e cultura sono più complessi di quanto Simone de Beauvoir riconoscesse nel suo libro.

La distinzione tra genere e sesso è moderna. Risale al XVIII secolo e allo sviluppo della scienza medica e dei manuali di anatomia. Il sesso è visto allora come componente anatomica del genere, o biologica, o ancora genetica (questo più avanti, nel XX secolo).

La teoria classica del corpo umano è basata sull’idea di un corpo unico. Galeno, il medico/filosofo più celebre dell’antichità, conosciuto anche per essere uno dei primi a praticare dissezioni su animali come le scimmie e i maiali, data la proibizione a Roma di effettuare qualsiasi indagine anatomica sui cadaveri, scrive: “Le donne hanno esattamente gli stessi organi sessuali degli uomini, solo messi al posto sbagliato”. Data l’ignoranza sul ruolo degli organi genitali nella riproduzione, Galeno vede l’utero femminile come un fallo introiettato e le ovaie come i testicoli. L’esplorazione delle fattezze del corpo parte dal presupposto di un corpo umano unico, legato intimamente alle leggi del macrocosmo e del microcosmo. Le differenze tra corpo femminile e corpo maschile “disturbano” una visione del corpo umano come struttura organizzata centrale nell’equilibrio dell’universo.

In questa tradizione, gli organi genitali femminili sono l’equivalente imperfetto degli organi maschili: degli organi maschili non “sbocciati”. Thomas Laqueur[2] ricorda il parallelo che Galeno fa tra gli organi femminili e gli occhi della talpa: come la talpa ha occhi anatomicamente simili agli occhi di animali simili, ma non li apre e quasi non vede, così la donna ha genitali simili a quelli maschili, ma “chiusi” dentro di sé, non esposti, e quindi meno completi e meno usati.

Aristotele avvalla la stessa teoria: il corpo umano è unico, le differenze anatomiche sono un accidente: l’uomo e la donna hanno sessi differenti perché hanno ruoli sociali differenti. Perciò lo schiavo non ha sesso: non c’è pudore davanti allo schiavo a mostrarsi nell’intimità, che si sia uomini o donne. Perché è il ruolo a determinare la dinamica tra i sessi, la seduzione, le posture, il pudore. Lo schiavo, privo di ruolo sociale, non entra nel gioco complesso dell’articolazione maschile/femminile.

La teoria del corpo unico sarà ripresa lungo tutto il Medioevo, durante il quale la medicina galenica resta l’autorità principale. Nelle immagini anatomiche del Rinascimento, il corpo maschile e quello femminile sono spesso raffigurati vicini e complementari, la vagina rappresentata come un lungo fallo introiettato. Andrea Vesalio (1514-1564), fondatore dell’anatomia moderna, grazie al suo celebre trattato De humani corporis fabrica, nonostante le numerose dissezioni anatomiche su corpi maschili e femminili, rappresenta un corpo umano unico, con sembianze differenti nella donna e nell’uomo che sono il frutto di diversi gradi di espressione degli stessi organi: solo l’utero crea problemi in questa visione, ed effettivamente gli anatomisti si domandano quale possa essere l’equivalente maschile di tale organo. La risposta più comune è che l’utero, più che un organo, sia nient’altro che una sacca di contenimento per il bambino, perché, ovviamente, che fosse la donna a portare la gravidanza, era una realtà ben evidente.

Con la rivoluzione scientifica, assistiamo a una lenta presa di coscienza della differenza tra uomo donna come differenza biologica. Con lo sviluppo della tecnica del microscopio e della microbiologia, la questione della differenza maschile/femminile diventa una questione scientifica di differente funzione degli organi nella riproduzione. Le osservazioni al microscopio di Antonie van Leeuwenhoek (1632-1723) portano alla scoperta degli spermatozoi, un primo passo dunque verso la comprensione del ruolo dei due sessi nella riproduzione. Prima di Leeuwenhoek, l’atto sessuale tra uomo e donna produceva da parte di entrambi del liquido che permetteva lo sviluppo del bambino a partire da una matrice/uovo che conteneva già tutte le caratteristiche del futuro individuo (teoria della preformazione). La scoperta degli spermatozoi, nel 1677, mette in questione la visione classica della preformazione: Leewenhoek si rende conto che nel liquido seminale maschile sono presenti milioni di “piccoli animali”, come li definisce, che hanno testa e coda e una vita propria. Il loro ruolo dev’essere quindi distinto dai liquidi prodotti dalla donna. Leeuwenhoek sviluppa una teoria erronea sugli spermatozoi, conferendo loro un ruolo preodominante nella riproduzione: sarebbe lo spermatozoo il portatore della “matrice”: esso conterebbe una miniatura di individuo già preformato che viene inculcato nell’uovo femminile e germina nell’utero durante la gestazione. La scienza embriologica, sviluppatasi soprattutto nell’Italia del Settecento, permetterà di rivedere le teorie di Leewenhoek: Lazzaro Spallanzani infatti scopre nel 1768 il ruolo complementare dell’uovo e dello spermatozoo nella riproduzione. Ma è solo con il XIX secolo che l’embriologia si sviluppa in modo sistematico, e con il Novecento che la scoperta della differenza genetica tra sessi permette di comprenderne appieno il ruolo nella riproduzione.

Eppure, già le scoperte della microbiologia sei/settecentesca, secondo lo storico Thomas Laqueur, “creano” la distinzione biologica tra i sessi: le differenze anatomiche non sono più meri accidenti di un corpo unico, ma differenze di funzione biologica. Di qui la tesi provocatoria di Laqueur che sia la differenza tra i sessi e non tra i generi ad essere socialmente costruita con l’avanzare della scienza moderna. I corpi sessuati umani dell’era moderna sono anatomicamente e biologicamente distinti. Le funzioni degli organi femminili non corrispondono alle funzioni degli organi maschili. La donna diventa un’altra “specie”, con altre funzioni, non solo sociali, ma anche biologiche. Sempre secondo Laqueur, ciò spiegherebbe il fiorire di una letteratura settecentesca sulle buone maniere femminili, su come si deve comportare una donna, come se anche per questo essere ora sessuato e biologicamente distinto ci fosse bisogno di fornire indicazioni per il suo comportamento sociale.

Dunque, per riprendere lo spazio di posizioni da cui sono partita, mentre la Beauvoir (come la maggior parte delle teoriche dei gender studies contemporanee) vede nella distinzione maschile/femminile il sostrato biologico, naturale di una costruzione sociale di genere, c’è chi sostiene, come Laqueur, che sia la distinzione di genere a essere “naturale” (i ruoli sociali distinti sono dati per scontati in tutte le società umane e in tutte le epoche storiche) e quella di “sesso” ad essere costruita culturalmente.

Ciò dimostra come in quest’ambito di ricerca la sottodeterminazione dei dati sulle teorie permette di sostenere posizioni molto diverse. In effetti, non è per nulla chiaro quale sia la determinazione biologica dei ruoli sociali e culturali, né quale sia il ruolo della biologia nel determinare certi tratti psicologici, che possono stabilizzare pratiche culturali, identità e assunzione di ruoli.

La definizione di cosa sia il “sesso”, anche anagraficamente, è molto ambigua: dal punto di vista medico odierno, il sesso è una nozione complessa, transdisciplinare. Si distingue oggi istituzionalmente tra:

1. sesso genetico o cromosomico

2. sesso ormonale

3. sesso anatomico o apparente

4. sesso psicologico o psicosociale

5. comportamento sessuale[3].

Per esempio, nel caso del transessualismo, per il cambiamento di sesso anagrafico è richiesta in molti stati una perizia medica che dimostri la persistenza del cambiamento di sesso psicologico e un intervento chirurgico che predisponga il cambiamento di sesso anatomico. Ma nel 1998, una sentenza in Francia[4] dichiarò che il cambiamento di sesso anatomico non era sufficiente per il cambiamento di sesso anagrafico, perché una trasformazione della forma degli organi sessuali non può cambiare la loro funzione biologica e genetica. Benché ci fu un ricorso e un appello alla Comunità Europea che annullò la sentenza, il caso mostra il mélange di concezioni intuitive della sessualità, pressioni normative e sentimenti personali che influenzano ancora oggi la nostra confusa visione di cosa significhi avere un sesso o appartenere a un sesso.

Insomma, la natura non ci aiuta più di tanto a spiegare la nostra appartenenza sessuale, benché gli aspetti naturali, biologici di quest’appartenenza siano innegabilmente rilevanti, tanto da essere richiesti come prove di appartenenza sessuale in decisioni giuridiche.

Il problema è più generale: i rapporti tra natura e cultura sono complessi e difficili da articolare in tutti i campi, non solo in quello che tocca la differenza sessuale. La determinazione biologica delle funzioni psicologiche e culturali dice ben poco dell’enorme esplosione culturale della specie Homo Sapiens Sapiens, la cui differenza di genoma con altre specie di primati, come gli scimpanzé, è inferiore all’1%.[5] Tipicamente, l’eccezione culturale è spiegata con lo sviluppo del linguaggio come “organo sociale e rappresentazionale” per eccellenza della nostra specie, che la distingue da tutte le altre specie viventi. Ma le basi biologiche del linguaggio sono molto poco chiare: dunque ricadiamo nel problema iniziale: come spiegare l’articolazione tra biologia e cultura?

Il femminismo post-moderno condanna la distinzione biologica come irrilevante e sostiene che la distinzione pertinente sia quella socio-culturale, che riflette una struttura di dominazione di un sesso sull’altro[6]. E così ci ritroviamo con la teoria del “sesso unico”, in cui le differenze sessuali non dovrebbero pesare più di quelle tra “un calvo e uno pieno di capelli”, come diceva Platone, e vengono usate politicamente per giustificare una società duale e ineguale, basata su una struttura patriarcale.

Più interessante, o almeno più articolata per rispondere alla questione del rapporto biologia/cultura, è la teoria della performance (gender performativity) proposta da Judith Butler nel suo libro: La disfatta del genere[7]. Secondo la Butler, il genere si determinerebbe in modo così culturalmente marcato attraverso una re-iterazione di atti, più o meno stilizzati da una cultura all’altra, che determinerebbero, tramite appunto la performance, l’accentuazione dei tratti di genere.

In che senso la teoria della performance della Butler può aiutarci a comprendere meglio l’articolazione natura/cultura nel caso del genere? Propongo qui, in conclusione di questo capitolo, un’interpretazione molto eterodossa della teoria della gender performativity, un’interpretazione che sia compatibile con una posizione più “naturalista” sulla distinzione maschile/femminile.

Difatti, la differenza genetica tra maschi e femmine non determina ovviamente in modo univoco lo sviluppo di certi tratti comportamentali. La teoria genetica è ben più complessa di così anche sullo sviluppo dei tratti biologici: i geni controllano la formazione delle proteine che costituiscono l’organismo: l’espressione degli enzimi che permettono la costruzione delle proteine dipende da molti fattori, anche ambientali. Un caso ben studiato negli esseri umani di espressione enzimatica controllata da fattori culturali e ambientali è il caso dell’espressione del lattase, l’enzima necessario a digerire il lattosio: prima della domesticazione dei bovini, circa 9000 anni fa, i bambini svezzati non bevevano più latte, e quindi non sviluppavano il lattase. Con l’introduzione dell’allevamento, gli esseri umani continuarono a sviluppare l’enzima controllato geneticamente, date le condizioni ambientali. Nei popoli dove non esiste allevamento di ovini o bovini, oppure dove non c’è la tradizione di bere il latte di questi animali, troviamo un’intolleranza maggiore al lattosio.

Se l’ambiente influenza l’espressione degli enzimi che controllano lo sviluppo di certi tratti, potremmo pensare che certi tratti tipici del comportamento di genere (per esempio: tratti virili, tratti materni, etc.) siano espressi in organismi biologici differenziati sessualmente a seconda del contesto ambientale. La struttura patriarcale, frutto della dominazione maschile, avrebbe in questo senso reso più probabile un’espressione dei tratti associati con i ruoli sociali che questa struttura destinava a uomini e donne: quindi, un tratto materno più pronunciato negli individui con un ruolo sociale inferiore, investito nel privato e nell’accudimento della famiglia e non nel pubblico esercizio del potere. Alcune pensatrici femministe, che però sono attente al sostrato biologico delle differenze di genere, sostengono posizioni che vanno in questo senso. Per esempio, Sarah Hrdy, nel suo bel libro Mothers and Others[8], sostiene che la famiglia patriarcale ha inibito l’espressione di tratti comportamentali evoluti nelle società primitive per occuparsi dei bambini, come la solidarietà e la cooperazione: il vantaggio cognitivo infatti del bambino umano rispetto alle altre specie starebbe proprio nell’essere educato da molti “altri”, e non solo la madre: altre donne, altri uomini – a differenza, per esempio, della maggior parte delle scimmie in cui il neonato resta attaccato solo alla madre per almeno i primi sei mesi di vita. La teoria della “performance” allora potrebbe essere anche letta in chiave naturalista/evoluzionista: l’iterazione di certi comportamenti all’interno di una certa gerarchia sociale favorisce (anche evoluzionisticamente) l’espressione di certi tratti sull’espressione di altri.

In conclusione, sono convinta che molte delle confusioni dei gender studies potrebbero essere risolte se si desse più peso all’articolazione tra i rapporti tra biologia e cultura, senza cadere in inutili riduzionismi, né in estremismi costruttivisti. La differenza maschile/femminile è forse la più profonda, la più interessante per comprendere cosa della biologia la nostra cultura ci lascia esprimere e viceversa.



[1] Cf . H. Longino, 1994, “In Search of Feminist Epistemology”, Monist, 77: 472-485 ; D. Harraway, 1991, “Situated Knowledges”, In Simians, Cyborgs, and Women, New York: Routledge ; S. Harding, 1993, “Rethinking Standpoint Epistemology: ‘What is Strong Objectivity?’”, in Alcoff and Potter 1993, Alcoff, Linda, and Elizabeth Potter, (eds.) 1993, Feminist Epistemologies, New York: Routledge ; M. Fricker (2007) Epistemic Injustice, Oxford University Press.

[2] Cf. T. Laqueur (1994) Making Sex : Body and Gender from the Greeks to Freud, Harvard University Press, Cambridge, Mass.

[3] Cf. Rapporto del Conseil de l’Europe, sul transessualismo : Le transsexualisme en Europe, on line: www.trans-europe.org/europe.pdf

[4] Cf. l’Affaire Bottella vs. France, 1998 che vedrà la Francia condannata dalla Commissione Europea per discriminazione. Cf. anche P. H. Castel (2003) La métamorphose impensable. Essais sur le transsexualisme, Paris, Gallimard.

[5] Cf. M.C. King, A.C. Wilson (1975) « Evolution and two Levels in Humans and Chimpanzees » Science, 1975, 188, pp. 107-116. Cf. G. Origgi (2007) « Gènes et culture » in M. Marzano (ed.) Dictionnaire du Corps, Puf, Paris, pp. 402-406.

[6] Cf. F. Collin (2007) « Différence des sexes » in Marzano (ed.) cit., pp. 302-307.

[7] Cf. J. Butler (2006) La disfatta del genere, Meltemi Editore. Tr. it. dall’originale inglese (1990) Gender Trouble, Routledge, New York, che fu all’epoca un best-seller.

[8] Cf. S.B. Hrdy (2009) Mothers and Others, Harvard University Press.

Tuesday, November 22, 2011

Reputation


Draft. Do not quote without permission. Submitted to the SAGE Encyclopedia of Philosophy of Social Science.

Reputation, from the verb puto in latin, meaning “counting, considering” plus the suffix re- that indicates the repetition, is the consideration of the value of an agent by other agents based on his or her past actions and creating expectations on the future conduct of that agent. Reputation is a special kind of social information: it is social information about the value of people, systems and processes that release information. Reputation is the informational trace of our past actions: it is the credibility that an agent or an item earns through repeated interactions. If interactions are repeated, reputation may conventionalize in “seals of approval” or disapproval or social stigmas.

The notion of reputation in social sciences has been mainly treated in economics. In Adam Smith’s liberal social theory, reputation is seen as a way of coordinating activities in a decentralized social space of transactions. According to Smith, in a free society, markets coordinate diffused knowledge in an asymmetrical way: people have a partial view of what other people know and how they will act. Also, given that most transactions occur over a lapse of time, parties have to trust each other that they will satisfy their reciprocal interest. These informational and temporal asymmetries call for efficient means of storing and retrieving information about possible partners in interactions. Reputation is more than pure information: it is evaluated information, that is, a shortcut of the many judgements and interpretations that people have cumulated about an actor. That is why people are interested in keeping a “good” reputation by signaling to potential business partners their trustworthiness.

In the rational choice tradition, reputation is modelled as a repeated game. These games raise the question on how you can signal your reputation before any interaction. That is, how you can signal your credibility in absence of information about your past behaviour. This question is studied within a rich body of work that goes under the name of Signaling Theory (Gambetta, 2009). Signaling Theory aims at solving a fundamental communication problem: Given an interaction in which interests diverge between the two parties, how can a party be certain of the qualities of the other party? Honest signallers will try to signal their good qualities (trustworthiness, accountability, strength), but dishonest signallers will try to do the same, by mimicking high-quality signals. Signaling theory may be traced back to the work of the American sociologist Thorstein Veblen. In his Theory of the Leisure Class, published in 1899, Veblen explains the display of wealth of the leisure class (luxury, expensive clothes, time-consuming unproductive activities such as sports) as a way of signaling its social position. Important developments of Signaling Theory go from the study of behavioural ecology (Krebs and Davies 1998) to the sociology and the economy of cultural tastes and lifestyles (Bourdieu, 1984). An agent emits signals in order to make a threat or a promise credible. Costly signals and robust signals, that is, signals that are difficult to fake, are those considered more credible (Zahavi, 1998).

The economist George A. Akelrof has shown that quality uncertainty is such a risky feature of markets, that reputation is needed: “Seals of reputation” in a markets are labels, certifications, guides, that is, all the devices that tend to reduce the informational asymmetry. A rational agent, according to Akelrof, has an interest in embodying these devices in order to compensate the cognitive deficit of the informational asymmetry.

Quality uncertainty and informational asymmetries have become crucial epistemological issues in contemporary information-dense societies. The vast amount of information available on Internet and on the media makes the problem of reliability and credibility of information a central issue in the management of knowledge. Informational items that do not come with some label, or seal of approval from the appropriate communities, are lost in the data deluge of the Information Age.

From the evaluator’s perspective, that is, the agent who has to filter information, reputation has an informational value. This has become a prominent issue in Web studies. Given that the structure of the Web is that of a reputational network, in which each link from a page to another can be read as a “vote” from a page to another, a number of algorithmic techniques have been developed to compute reputation of different entities on the Web: Recommender Systems, Collaborative Filtering and Reputation Systems (Resnick, 2000).

Collaborative forms of sharing ratings are also relevant in the study of Collective Intelligence (Landermore & Elster, 2012). People do not share information: they share evaluated and classified information that creates a “reputational stream” of shared judgements. The epistemological implications of the massive use of shared ratings in networked societies are huge: relying on other people’s judgements and authority challenges our epistemic responsibility. The reasons we trust collectively filtered ratings about an item or an agent are seldom explored. Choosing a doctor, an academic institution or a wine is a way of endorsing a tradition of values, a way of filtering information that is not always transparent and legitimate. Notorious biases in social networks - such as the Matthew effect, investigated by the sociologist of knowledge Robert Merton, according to which the nodes of a network that are more prominent have more probabilities to earn more reputation - create noise in the way reputation is diffused.

Other biases need further epistemological and cognitive inquiry. For example, people tend to form beliefs in order to acknowledge previously established reputations, such as voting for a certain party because a very well-reputed friend votes for that party. Also, reputations are resilient and may last over time even when the facts of the matters they are supposed to signal are no more there. For example, the prestige of institutions and corporations may last long time after their decay.

Reputation is a social commodity that needs to be handled in scientific way in order to avoid informational cascades, conformism and the perpetuation of received views.

Further readings:

Akelrof, G. (1970) "The Market for Lemons". Quarterly Journal of Economics, 84 (3), 488-500.

Bourdieu, P. (1984). Distinction. A Social Critique of the Judgement of Taste. Routledge and Kegan Paul.

Gambetta, D. (2009). "Signaling". In: P. Hedström, P. Bearman (eds) Oxford Handbook of Analytical Sociology, ch. 8.

Krebs, J. R., and Davies, N. B. (1998). An Introduction to Behavioural Ecology. Blackwell, Oxford.

Origgi, G. (2012)." Designing Wisdom Through the Web. Reputation and the Passion of Ranking". In H. Landermore, J. Elster (eds) Collective Wisdom. Cambridge University Press.

Veblen, T. (1899/2007). The Theory of the Leisure Class. Oxford World’s Classics.

Zahavi, A. (1998). The Handicap Principle. Oxford University Press.

Wednesday, November 16, 2011

Saturday, November 05, 2011

Diario Brasiliano: 2. Reputaçao





A Porto Alegre, a cena da amici galleristi, discutiamo di vini e di quadri. Hanno una bella collezione di pittori del Rio Grande do Sul, niente da invidiare ai nostri De Pisis o ai Rosai, i Tirinnanzi, i Capogrossi, come se la storia del loro Novecento ripercorresse a distanza quella del nostro. Ma possibile che colori così diversi, esperienze politiche così lontane, abbiano creato due sequenze parallelle di autorità artistiche così simili? Ditemi sinceramente, sapreste distinguere il dipinto di Joao Fahrion (1898-1970) qui sotto da un nostro De Pisis?

O questo, quotatissimo, di cui ho dimenticato il nome, da un Rosai?


Eppure, per me sono quadri che non parlano, restano muti. Com'è possibile il paesaggio qui sopra, con la luce rosa da tramonto toscano, i siena bruciata dei tetti, la chiesetta, sia un paesaggio brasiliano? E perché riferirsi, deferire all'alrte del paesaggio italiano anche laggiù, nel Rio Grande do Sul? Quel che non mi torna è che sembra una tradizione importata, copiata, che non ha nulla di autoctono. Ma almeno di questi pittori riusciamo a parlare con i padroni di casa. I maestri sono evidenti, le tradizioni parallele, le influenze lampanti, come una storia parallela raccontata da due parti del mondo diverse.

E invece, mentre si procede d'epoca, i canoni iniziano a confondersi. Allora l'ultima misura è la reputazione delle espoziozioni internazionali (questo pittore è stato esposto alla Biennale di Venezia, quest'altro a NY) e il prezzo, ovviamente.


Cosa posso dire infatti del quadro qui sopra? A me ricorda Folon con un tocco di esotico nella bocca dentata del coccodrillo in basso a sinistra. Gli unici indizi di qualità su cui riusciamo a comunicare sono completamente indiretti. Il prezzo, le mostre, chi l'ha comperato. Il pittore non lo conosco, è qualcuno del Rio Grande do Sul, che ha un suo mercato locale, ma non è entrato nel Big Business internazionale. In qualche modo si vede, anche se forse le mie percezioni sono influenzate da quel che sapevo, che i miei amici mi hanno detto, permettendomi così di filtrare l'immagine in un certo modo. Però sì, si vede che parla a un pubblico locale.
Non si può dire lo stesso di artisti brasiliani, altrettanto sconosciuti per me, nei quali immediatamente si riconosce la traccia della "qualità globale": prendiamo Adriana Varejao, che, con un'operazione di pop-art mista a design e tradizione, dipinge giganteschi azulejos su tela, ed è quotata nelle aste di Christie's tra il 250 000 e il mezzo milione di dollari:



Si vede subito che i suoi interlocutori sono ben altri. Certi disegni evocano la grazia e la violenza di Kiki Smith, il formato gigante che riproduce il dettaglio a fondo, i grandi maestri pop come Roy Lichtenstein, l'azzurro e bianco dell'azulejos il più sofisticato design contemporaneo. L'arte contemporanea non è solo una questione di reputazione nell'occhio di chi guarda (chi è l'artista, chi lo compra, dove espone, quanto costa), ma anche di reputazione degli interlocutori della converazione immaginaria che ogni opera d'arte mette in atto. Ogni volta che creiamo un'opera d'arte abbiamo in mente un gruppo di pari, vivi o morti, grandi o piccoli, che avrebbero il loro posto nella sequenza di pensieri e gesti che hanno portato fino al nostro atto. La Varejao partecipa a una conversazione più raffinata, più colta e internazionale, rispetto al suo collega del quadro precedente. Lo si riconosce subito. Non è solo la sua qualità intrinseca, né solo gli effetti stregati e capovolti di reputazione, ma il modo in cui ha saputo orchestrare il prestigio di una conversazione.

Lo stesso per il vino. Ho approfittato della meravigliosa ospitalità dei miei amici per gustare una serie di bottiglie da 90/95 punti Parker, tutte argentine o cilene. Non che non esista vino brasiliano. Ce n'è anche troppo. Sauvignon, per esempio, proprio in Rio Grand Do Sul. E poi di tutto, Cabernet, Cabernet Franc, Merlot, Malbec. Eppoi mezzo mondo del vino sta accorrendo in Brasile a comperare terre da coltivare a vite. Ma il vino brasiliano non ha ancora trovato un suo cantore, forse l'eccessiva modestia di questo paese, non so. Benché identico, soprattutto nel Sud, a quello argentino, tranne per qualche produzione di punta, il vino brasiliano non ha per ora nessuna reputazione.

Assiaggiamo allora un Rutini 2009, la più antica produzione di vini argentini:


I padroni di casa mi stampano la critica del Wine Spectator, sempre per cercare di coordinare i nostri gusti e le nostre parole, cercare un linguaggio valutativo comune. Non basta un ranking per capirsi, ci vuole un ranking condiviso. Ora, i ranking condivisi, quando si viaggia lontano, sono quelli più visibili, i ranking dominanti, non certo quelli di maggiore qualità. E infatti arrivano a cena due ricchi commercianti brasiliani, gente che viaggia il mondo e che ci tiene al "consumo ostentatorio" di beni, per segnalare una certa reputazione da "signori". Parliamo di champagne. Anche se non sono un'esperta, la mia coversazione è troppo specialistica per loro. Non conoscono la differenza tra un Blancs de Blancs, ossia uno champagne fatto solo da uve chardonnay, e una cuvée prestige. Non sanno che le uve dello champagne sono il Pinot Noir, lo Chardonnay et il Pinot Meunier, non sanno cosa significa Millésimé.
Tutto ciò che conoscono sono i nomi di Moët & Chandon et Veuve Cliquot, ossia i "picchi" di celebrità nel mercato dello champagne, i nomi più reputati internazionalmente. Ma nessuno a Parigi direbbe che i migliori champagne sono questi. Questione di conversazione. Ogni circolo ha le proprie autorità. E' per questo che è così difficile "farsi bello" lontano dai propri interlocutori abituali. Perché non ti capiscono o ti prendono per uno che non sa le regole del gioco.

Il gioco della reputazione è un gioco linguistico complesso, che bisogna saper padroneggiare. I segnali di reputazione sono in gran parte ancorati a contesti locali. Solo pochi indici sorvolano il mondo intero. Bisogna coordinare il valore delle proprie autorità alle autorità degli altri, smussare i valori, trovare delle griglie comuni di notazioni. E' per questo che il successo di Robert Parker nel mercato dei vini fu così imponente. I Parker Points sono una griglia estensiva, da 50 a 100, molto più informativa quindi dell'uno, due o tre bicchieri delle guide Michelin o Veronelli. Inoltre i punti parlano a tutti, molto di più delle complicate descrizioni dei critici. Se avessimo lo stesso sistema di notazione, diverso dal prezzo, per l'arte contemporanea (Questo è stato giudicato tre pennelli, questo quattro) sarebbe forse più facile parlarne senza fingere expertises che non esistono.

Wednesday, November 02, 2011

Diario Brasiliano: 1. Viagem




Sorvolo Rio. E' la settima volta che vengo in Brasile e non sono mai stata a Rio. A vederla così, dall'alto, è una baia frastagliata, ricca di insenature, circondata da colline a zuccotto, colorate da una miriade di casette sparpagliate, le tristissime favelas che a vederle da lontano sembrano allegri paesucoli dai mille colori. Perché il Brasile mi piace così tanto? Auto-analisi. L'anno scorso ero qui per le elezioni. Entusiasta, avevo fatto un reportage dalla terra del domani, cantando le lodi dei candidati tutti a sinistra, l'ottimismo di un paese che non parla che di sviluppo sostenibile e di politiche sociali: educaçao, saude, integraçao, che rispetta le differenze etniche, che sorride al futuro. Ma soprattutto che sorride a me. La grammatica delle emozioni è molto semplice. Un luogo diventa un bel ricordo, un posto d'elezione, perché qualcosa di bello, di emotivamente bello, vi è successo. Qui succede che l'essere italiano non è vergognoso, anzi: nel Rio Grande do Sul, lo Stato dove mi reco più sovente, per insegnare all'università di Porto Alegre, essere italiano è ottimo : è un'identità di cui andare fieri. Abituata da vent'anni a fare l'emigrante in un paese più ricco e culturalmente più autorevole, la Francia, in cui essere un "rital" è una via di mezzo tra qualcosa di ridicolo ed estremamente pittoresco, stento a credere che l'Italia possa ricevere una simile accoglienza. In macchina tra Florianopolis e Porto Alegre, io e Sandra ci fermiamo stremate in una lancheonete sull'autostrada. Un self-service essenziale, carne e fagioli, riso e qualche verdura. Il proprietario ci sente parlare in italiano. Dalla cucina cominciano ad arrivare vassoi di carne appena cucinata, e servita come nei migliori churrascos della città. Il padrone che ci serve con tale attenzione ha un'aria derelitta, la pelle ingiallita dal fumo forse, o dalla polvere della strada. Ha le mani callose, le unghie lunghe e sporche, i capelli sbiaditi come paglia sotto un berretto sgualcito. Gli occhi sono di un azzurro intenso, mi fissa con uno sguardo umido, commosso: "Mio padre era di Bergamo". Per lui Bergamo è una parola leggendaria, il nome della sua origine. Non sa altro. Gli dico che da piccola avevo una casa di campagna proprio vicino a Bergamo, che Bergamo è una bellissima città con una parte antica in alto. Provo a dargli delle immagini, le colline, il campanile della chiesa nella piazza principale, quella con lo scalone sotto il portico, dove io fumai la mia prima sigaretta con Guido e Tommaso nel lontano 1981. Sorride. Continua a guardarmi come un reperto archeologico, un pezzo di autentico mondo antico, quel mondo che esisteva solo nei racconti, forse in qualche oggetto o in qualche ricetta della nonna e che ora diventa vero.
L'Italia qui è un mito originario. Un mito positivo. E' un'Italia del Nord, che arrivò giusto dopo un'ondata di emigrazione tedesca intorno alla metà dell'800. Soprattutto veneti. Qui si beve il sauvignon. I gauchos, come sono chiamati gli abitanti del Rio Grande do Sul, sono alti, biondi. Qui vicino a Porto Alegre c'è una città che si chiama Teutonia. Il gaucho è lievemente razzista, almeno certamente più del brasiliano del Nord. Qui il colore fa la differenza, e se l'italiano emigrato a New York è piccolo e scuro, e perciò visto con superiorità dagli WASP, qui l'italiano biondo è superiore, è luminoso, ha l'aura del conquistatore. Studiare in Italia è prestigioso, persino un dottorato italiano vale qualcosa in questo paese. I Brasiliani hanno una strana, incomprensibile, umiltà. Una modestia verso l'Europa completamente ingiustificata. Non c'è il risentimento delle ex-colonie, come se non ci fosse presa di coscienza di essere una ex-colonia. Come se il legame con l'Europa fosse qualcosa di cui andare fieri ancora adesso. Almeno tra i bianchi. Per i neri, portati come schiavi dall'Africa, e per gli indios è tutta un'altra storia.

In aereo mi annoio, decido di guardare un film, ma quando viaggio verso il Brasile non ho voglia di vedere film americani, mi sembrano, come dire, "fuori posto", come se non avessero nulla a che fare con qui. C'è una pregevole assenza di Stati Uniti qui, nessuno parla in inglese, la musica è brasiliana, le bevande locali. Allora decido di guardare un film sulla vita del presidente Lula: Lula, O Filho do Brasil


con la meravigliosa Gloria Pires, che faceva sognare noi sorelle a 15 anni quando arrivarono, sugli ancora laconici schermi italiani, le prime telenovelas brasiliane. Le telenovelas furono una specie di proto-televerità, un genere ingiustamente trascurato dall'occhio severo della critica europea. Il plot consisteva essenzialmente nella cronaca quotidiana, non più lunga di 40 minuti a puntata, della vita di un nucleo familiare, un gruppo di personaggi senza niente di particolarmente interessante, ma capaci di creare quel sentimento di trasposizione, di proiezione dello spettatore che si sente inghiottito nelle vite e nel sentire degli altri. A differenza dello statunitense Dallas, che proponeva un idealtipo , il ricco spietato, anima nera dello yuppismo degli Anni Ottanta, un gruppo umano in cui ben pochi potevano identificarsi, ma potevano al massimo aspirare a una trasfigurazione in una figura superiore della vita grazie alla magia dell'arte, la telenovela non offriva trasfigurazioni, semplicemente cronache di realtà immaginarie, di mondi possibili così vicini ai nostri da creare un sentimento di familiarità unico. Quando fu ucciso Miguel da un misterioso colpo di pistola nella telenovela Agua Viva, io e mia sorella uscimmo correndo dalla camera di Roberta, dove avevano luogo le trasmissioni delle puntate, e, quasi piangendo, comunicammo a nostra madre attonita: "E' morto Miguel" come se fosse morto un parente, come se fosse evidente che anche lei dovesse essere al corrente dell'evento.
Nel film dedicato a Lula, Gloria Pires è la madre coraggiosa e analfabeta del futuro presidente. Nati e cresciuti in una miserabile baracca in mezzo al sertao, l'arida campagna del Nord-Est, la zona più povera del Brasile, gli otto figli di questa coraggiosa signora, vedono il padre andarsene a cercar fortuna in città, per scoprire presto che in realtà sta fuggendo con un'altra donna, incinta di un figlio. La madre di Lula combatte, resiste, ma i figli sono tanti, la miseria assoluta. Allora va dallo scribacchino del paese e gli fa scrivere una lettera per il marito lontano, nelle favelas di San Paolo, con la sua nuova donna, il bambino appena nato e il suo figlio maggiore che intanto l'ha raggiunto. Il marito fa rispondere dal figlio, che sa scrivere, che non è il caso di venire perché anche a San Paolo c'è solo miseria. Ma il figlio cambia le parole e scrive alla madre di vendere terra e casa e di partire. E così, la madre obbedisce, carica i suoi sette figli su un camion, paga il viaggio con i pochi soldi racimolati con la vendita della casa e delle terre e parte per San Paolo. Tredici giorni e tredici notti di viaggio allucinante, nella polvere e nella miseria. Le tappe della carovana sono marcate dai funerali improvvisati dei viaggiatori morti. La famiglia arriva intatta a San Paolo.
In una baracca vicino a un fiume vive il marito con la nuova famiglia. Non c'è tempo per le scenate, tutti i figli in silenzio entrano nella baracca e si installano come possono. Vivono di lavori miserabili, vendere arance raccolte sugli alberi della strada, lucidare scarpe. Il padre beve. La madre, in segreto, riesce a mandare a scuola due dei figli, tra cui Luiz Inàcio. Quando il padre, Aristide, lo scopre, picchia i figli, insulta la moglie. Ma lei resiste, insiste, e di lì a poco la maestra di scuola di Inàcio bussa alla sua porta per dirle dei risultati eccezionali del bambino e per chiederle di adottarlo. La mamma è fiera, commossa e insieme orgogliosa: "No, grazie, i miei figli me li cresco io!". Se ne va definitamente dal marito, trova un'altra baracca, incoraggia i figli a scuola. Sono anni miserrimi ma felici, si gioca nel barrio, la città è infinita e piena di possibilità. Inàcio cresce: sempre incoraggiato dalla madre, passa il concorso per iscriversi a una scuola professionale per meccanici, riesce a diplomarsi, l'emozione della madre per quel diploma dev'essere stata più forte di vederlo eleggere presidente della repubblica, o così almeno mi fa credere il sorriso commuovente di Gloria Pires davanti a quel figlio prodigio, che comincia a lavorare in fabbrica da operaio specializzato, oramai è salvo, non sarà un peones senza tetto né legge tutta la vita. In fabbrica si avvicina al sindacato incoraggiato dal fratello. Si innamora di una ragazza, sua vicina di casa, sorella di un amico di infanzia. Si amano, si sposano, aspettano un bambino. La sera delle doglie Inàcio l'accompagna in ospedale, aspetta fremente nel corridoio dell'ospedale. Nessuna notizia. C'è stato un problema. Aspetta tutta la notte. La mattina i medici gli comunicano che il bambino è nato morto e che la moglie è morta dandolo alla luce.
Inàcio è disperato, si rifugia nel lavoro, ma un incidente gli toglie pure quello: perde un dito durante un turno straordinario. Tutto daccapo: lavori umili, vendere frutta al mercato e infine una seconda chance.
Entra nel sindacato di questa nuova fabbrica, fa carriera nel sindacato, il Brasile si scalda politicamente, siamo negli anni della contestazione alla dittatura, 1975. Nel 1978 diventa presidente dell'unione sindacale dei lavoratori del metallo. I suoi discorsi infervorano le folle. Viene arrestato e detenuto per un mese. Alla fine della dittatura, crea, con altri il Partito dei Lavoratori. Intanto si risposa con una ragazza, anche lei vedova, ma con un figlio che ha la stessa età di quella che avrebbe avuto il figlio di Lula. Avranno altri tre figli insieme.

Partecipa all'assemblea costituente, nel 1986 diventa parlamentare al Congresso. Poi si candida alle presidenziali contro Cardoso e perde. Infine, eletto nel 2002, diventa l'uomo politico più celebre e amato della sua generazione.

Ora Lula ha un cancro alla laringe. Sembra che la maggior parte dei politici e dei magistrati che hanno avuto a che fare con la dittatura, hanno avuto un cancro. Anche Dilma, la nuova presidente. Proprio alla laringe, lui, il più grande oratore di tutti i tempi.
Qui nel Rio Grande do Sul, l'entusiasmo per il miracolo brasiliano di Lula è più mitigato. Non gli si perdona troppa demagogia, molta corruzione e molte battaglie perse, come quella per la riforma agraria.
Però, vista da lontano, o al cinema, questa è una storia perfetta per sognare. E' la sua traiettoria che ha portato questo paese alle vette del mondo. E' una storia di un ottimismo straordinario, quelle storie che ci raccontava l'America buona degli Anni Cinquanta, davvero una chance per tutti, basta darsi da fare: non gli Stati Uniti di oggi, romani, imperiali, grassi e impigriti sotto un cumulo di cartacce da avvocati e funzionari.
Forse l'uomo o la donna esemplari, come nelle Vite Parallele di Plutarco, sono l'unica politica possibile rimasta. Ma non quelli che "bucano lo schermo": quelli esemplari davvero, perché anche io, che non c'entro niente, sono fiera di Inàcio Lula.