Monday, January 30, 2012

Intervista a Tony Kushner


Tony Kushner ha ricevuto qualche giorno fa il Premio PUFFIN/NATION For Creative Citizenship che premia un artista il cui lavoro abbia una dimensione militante e di impatto sulla società e sulla politica. Chi meglio di Kushner, che da 30 anni è l'anima dei suoi tempi, lo sguardo critico della società americana e della modernità tout court? L'ho intervistato a New York dopo aver visto il suo ultimo, bellissimo lavoro teatrale, The Intelligent Homosexual Guide to Capitalism, Socialism with a Key to the Scriptures.


Che l’aria dei tempi risvegli spettri socialisti anche nel cuore dell’impero capitalista, gli Stati Uniti? C’è da chiederselo, da quando le ripetute crisi finanziarie sconvolgono la vita dei normali cittadini di Grecia, Islanda, Irlanda, Stati Uniti, Italia … nel nome del mercato, dei tassi d’interesse, del debito pubblico e delle agenzie di rating: il generale De Gaulle, non certo un uomo di sinistra, aveva visto sbagliato quando aveva detto seccato: “La politique de la France ne se fait pas à la corbeille”, ossia, la politica della Francia non si fa alla Borsa: la politica oggi si fa alla Borsa, o alle Banche Centrali: gli Stati si piegano a politiche di tutti i tipi, promettono riforme e cure di austerità per rassicurare i fantomatici “mercati” che travolgono i loro titoli in operazioni di speculazione che non hanno più niente a che fare con l’economia reale. Chi ha scelto questo mondo? Chi ha scelto questa economia? Nessuno ha votato il sistema dell’indebitamento pubblico, che è passato in 30 anni negli Stati Uniti e in Europa da una media del 25% del PIL nazionale a più del 70%. Perché dobbiamo riconoscerci in un mondo economico che non capiamo più, per cui non abbiamo votato e che non ci rispetta più? La sinistra liberal si limita a corregere i conti della destra e non si sogna di mettere in questione il fondamento del sistema economico contemporaneo. Ma c’è un’eredità del marxismo storico che i politici non vedono più, ossia: la coscienza: oggi forse non si parla più di coscienza di classe. Ma la coscienza di chi si è, il riconoscere il proprio ruolo nella società è essenziale perche la nostra vita sociale abbia senso. Non ci riconosciamo più nel mondo governato da meccanismi che non capiamo, non sappiamo più qual è il nostro posto.

Più o meno così mi dice Tony Kushner al telefono da New York. Kushner non è solo un intellettuale e un drammaturgo raffinato. E’ un interprete dei suoi tempi. La sua opera teatrale è lo specchio delle ansie, dei drammi collettivi delle ultime decadi. Nel 1993 vinse il premio Pulitzer per Angels in America: A Gay Fantasia on National Themes, sul flagello dell’AIDS nell’America reaganiana. Ebreo newyorkese, Kushner ha criticato spesso la politica di Israele nei confronti della Palestina, tanto da vedersi rifiutato all’ultimo minuto il dottorato honoris causa offertogli dall’università di CUNY a New York sotto la pressione della comunità ebraica. La cosa creò talmente scandalo questa primavera, che infine Cuny gli diede il titolo. Intervistato dopo la cerimonia, Kushner disse che mai un titolo di studio era stato così difficile da ottenere!

Oggi è in scena a New York la sua nuova creazione teatrale, The Intelligent Homosexual Guide to Capitalism and Socialism, with a key to the Scriptures. Il titolo è una doppia citazione del celebre pamphlet di George Bernard Shaw: The Intelligent Woman’s Guide to Socialism and Capitalism, scritto nel 1927, e di un libro meno conosciuto, ma che fu alla sua epoca uno dei più grandi best-sellers mai pubblicati, ossia il libro misticizzante di Mary Baker Eddy, Science and Health with a Key to the Scriptures, pubblicato nel 1875, una specie di manuale di self-help dell’epoca, con uno stile New Age ante litteram.

E’ la storia di un vecchio anarchico di origine italiana, Gus Marcantonio, iscritto al CPUSA, il partito comunista americano, che convoca i suoi tre figli nella sua casa di Brooklyn perché ha deciso di suicidarsi. Marcantonio non si riconosce più in questo mondo, si sente inutile, superato. Dopo una vita da operaio militante, tutto ciò che gli resta sono i suoi tre figli e la casa che, nel delirio del mercato immobiliare newyorkese degli ultimi anni, ha decuplicato di valore. Dato che conosce i problemi economici di ciascuno dei figli, la sua scelta è un modo di rendersi utile, lasciando in eredità la casa. La scena si svolge principalmente nella sala da pranzo della casa di famiglia, con Marcantonio, i tre figli, i compagni e gli ex-compagni dei figli, la zia suora laica…Tra politica, omosessualità ed eutanasia, la conversazione pian piano si colora, trasformandosi in un affresco dei tempi: dalla crisi finanziaria all’individualismo insano che ha rimosso qualsiasi senso di comunità dalla società americana. Ho chiesto a Tony Kushner di parlarmi di quest’aria dei tempi:

G.O. I tuoi lavori sono spesso il riflesso dell’era in cui viviamo. Mi chiedevo se avessi cominciato a lavorare a “The Intelligent Homosexual Guide” prima o dopo la crisi economica del 2008.

T.K. Ho dei periodi di gestazione molto lunga dei miei lavori teatrali. Ci ho messo più di dieci anni a scrivere Angels in America. The Intelligent Homosexual Guide l’avevo cominciato nel 2006, pensando a un romanzo più che a un’opera teatrale. Poi, nel 2007, mi sono reso conto che i dialoghi erano così lunghi che si adattava meglio al teatro. E’ stata concepita dunque prima della crisi, ma è andata in scena dopo, e ho dovuto adattare alcune parti dopo il collasso dell’economia. Certamente, i sintomi della crisi erano già tutti là: le fantasie sfrenate della magia del libero mercato: il concetto stesso di mercato “libero” è un nonsenso: l’economia è ciclica, la gente fa ben poche scelte, è trascinata in basso o in alto da forze che non controlla. Le teorie di economia politica dominanti negli States negli ultimi due decenni, sono state puro delirio, un ultraliberalismo che ha ridotto ai minimi termini uno Stato già inesistente, senza pensare che lo Stato non è solo un erogatore di servizi, ma un bene comune, una comunità di pari. Invece le differenze economiche e sociali non si sono mai così accentuate. Siamo vissuti in una sacralizzazione psicotica del concetto di individuo contro quello di collettivo. Ma se non hai una comunità, una classe che ti riconosce, sei semplicemente rimosso dalla storia.

G.O. E’ una considerazione molto marxista. Ti consideri un socialista?

Non lo so esattamente. Mi sono sempre considerato un liberal di sinistra. Da giovane ho militato in movimenti contro la guerra del Vietnam e contro la politica americana in Israele. Il socialismo e il comunismo non sono opzioni possibili negli Stati Uniti, come lo sono state in Europa e in altre regioni del mondo. Se chiedi a qualcuno per strada cosa vuol dire “Comunismo”, ti risponde che vuol dire “Dittatura”. Eppure, la reazione del governo americano durante la crisi del 2008, è stata una reazione socialista: lo stato ha pagato miliardi per salvare le banche. In America abbiamo oggi il peggio del socialismo (l’intervento pubblico in difesa di un’economia falsa e malata) e il peggio del capitalismo (un pensiero selvaggio di auto-preservazione egoista contro qualsiasi logica sociale e collettiva).

Sono convinto però che oggi abbiamo bisogno di alcuni concetti marxisti. Per esempio, l’idea di egemonia culturale del vostro Antonio Gramsci non è mai stata così attuale, perché si applica alle nostre democrazie. Gramsci parla di egemonia culturale quando una classe sociale riesce a dominare una società culturalmente differenziata e imporre un paradigma unico di pensiero, di valori e di cultura che diventa pian piano una norma sociale o una lente indispensabile per leggere il mondo, ossia, un’ideologia dominante che non ci permette più di guardare il mondo con occhi diversi. Mai più di ora, con la fine delle grandi opposizioni ideologiche tra Est e Ovest, ci sentiamo prigionieri di un pensiero dominante dal quale non si può più uscire, come se fosse una necessità naturale: il libero mercato. Gramsci è attuale, perché il risveglio passerà per la presa di coscienza che il mondo descritto dal libero mercato, con quegli individui egoisti, affaristi e perennemente interessati, non è l’unico mondo possibile: in quell’umanità schiava della propria logica di accumulazione, noi non ci riconosciamo più. Gli intellettuali oggi devono dare voce a quell’assenza di riconoscimento: come diceva Gramsci, devono essere “organici”, saper parlare delle ansie collettive, delle rabbie, delle insofferenze che la cultura dominante nasconde. E’ quello che cerco di fare nel mio lavoro.

G.O. Gramsci è italiano. Anche il protagonista di The Intelligent Homosexual Guide è di origine italiana…

Infatti. L’italia ha avuto una storia di pensiero politico molto più interessante di quel che si conosce normalmente negli Stati Uniti. L’emigrazione italiana della fine del XIX secolo non ha generato solo Mafia e padrini, come Hollywood ci ha insegnato a credere. Parte degli emigranti italiani erano anarchici, e portarono in America idee nuove e progressiste. Il fascino dell’anarchia rispetto al comunismo è che difende l’autonomia dei soggetti. Quel che cerchiamo oggi è un mondo di individui autonomi e responsabili, che siano padroni delle proprie scelte e non schiacciati dalle forze della storia, dell’economia e delle egemonie culturali. Il padre di Gus Marcantonio nella mia opera, è un anarchico italiano del gruppo di Paterson, in New Jersey. Gli italiani a Paterson erano quasi tutti lavoratori del tessile, data la florida industria della seta nella cittadina del New Jersey. Anarchici convinti, portarono in America le idee di Errico Malatesta, di Kropotkin e di Bakunin. Fondarono una rivista importante, La questione sociale, di cui Gaetano Bresci, l’uccisore di Umberto I, anch’egli anarchico emigrato a Paterson dalla Toscana, fu uno dei principali animatori. Nella storia, mi immagino alla fine che tra le eredità che lascia Gus Marcantonio, c’è una valigia, nascosta nel muro della casa: la valigia, dimenticata per gran parte della scena, sulla tavola, tra discussioni infinite della famiglia, contiene lo stemma del Partito Comunista Americano, bandierine, copie dei primi del Novecento della rivista La Questione Sociale, e la pistola, usata da Gaetano Bresci per uccidere il re d’Italia. Anche se non andò proprio così, è vero che Bresci fu mandato a compiere il regicidio dal gruppo di anarchici di Paterson, che gli pagarono il viaggio ed erano d’accordo con l’operazione. Mi sono immaginato quella valigia come un’eredità di ideali del padre, ormai chiusi in un muro il cui unico valore è il suo costo al metro quadrato.

G.O. Perché il riferimento a George Bernard Shaw nel titolo?

Beh, dopo questa conversazione dovrebbe essere ovvio: Shaw è stato uno dei grandi critici del capitalismo, il suo The Intelligent Women’s Guide to Socialism è un pamphlet di un “socialista anti-sociale”, come si definiva lui, in cui la condanna al capitalismo come fonte massima di ingiustizia sociale e di intolleranza tra i popoli è espressa in modo più evidente. Noi ci siamo bevuti troppo a lungo l’ideologia secondo la quale il libero mercato creava libertà globale, nuove opportunità do scambio e di incontro. Il libero mercato ha creato differenze socio-economiche enormi tra i cittadini di uno stesso paese e tra paesi, e una guerra strisciante e permanente tra potenze economiche. Shaw denunciava tutto ciò nel 1928, e denunciava anche i rischi di correzione del sistema capitalistico in chiave autoritaria. In questo fu profetico.

A proposito di profeti, due dei personaggi del tuo dramma sono religiosi…I compagni omosessuali di due dei figli, sono entrambi predicatori cristiani Perché il riferimento alla religione, alle Scritture, al libro di Mary Baker Eddy?

Perché è una storia di spettri del passato, di suicidio come ultima dimensione che dia senso alla vita, di bisogno insomma di immaterialità in una società crassa, ubriaca e sommersa dal materialismo. La valigia di Marcantonio nel muro, con i parafernalia del Partito Comunista, è uno spettro, così come la valigia che entra in scena alla fine del dramma, piena dei medicinali che Marcantonio forse userà (ma la storia non lo dice) per la sua eutanasia: lo spettro della morte, di una morte assunta come scelta. Mary Baker parlava di dialettica tra materiale e immateriale nel suo libro. Anche Hegel parlava di dialettica tra materia ed essenza. Ho cercato di evocare questo disperato bisogno di immateriale che la religione non esaurisce assolutamente, ma di cui la religiosità forsennata di questi anni è un’espressione. C’è immaterialità nella cultura, nelle idee, nelle tradizioni, nell’empatia, nell’amore. C’è immaterialità anche nella morte, e nella scelta di morire, come ultimo gesto di libertà, di sospensione dalla macchina materiale che ci assoggetta.

Saturday, January 28, 2012

La mort du lecteur/La morte del lettore


Nel 1968, in un celebre saggio, Roland Barthes – (che il raro pubblico che mi legge dandomi della snob intellettuale non sa nemmeno chi sia, ma non importa, in fondo è il punto di tutto il saggio di oggi, e poi, dài, c’è Wikipedia…) - dichiarava la morte dell’autore (uso i grassetti perché sembra che il nostro lettore vittorioso non legga nient’altro) ormai sorpassato dall’onnipotenza del lettore. Povero autore, scacciato dal suo regno, detronizzato dalla potenza dei linguaggi multipli, delle scritture multiple, dei dialoghi, le chat, le infinite conversazioni che gli toglievano qualsiasi autorità sul discorso, si ritrovava da re della parola a piccola comparsa in un groviglio di conversazioni a tutti i livelli che non avrebbe mai più controllato.

Eppure. Aveva davvero visto giusto Barthes? E’ l’autore che è morto?

Viviamo in un’era di possibilità infinite per il lettore: lo schermo serale dei nostri laptop pullula di blog, di forum, di giornali online in cui il lettore ha lo stesso, ripeto, sottolineato, lo STESSO diritto di parola dell’autore. Basta gerarchie, basta filtri di autorità, il lettore può leggere un articolo e rispondere dicendo che non è d’accordo, che ne sa di più, che contraddice la riga numero quattro con cui l’autore si faceva bello, grazie a un fondamentale volumetto che ha scritto sull’argomento…

Ma al lettore la parità non piace. L’autore è un nemico. Un nemico lontano e invincibile che mantiene il suo statuto di nemico solo grazie alla sua lontananza, alla sua totale superiorità gerarchica rispetto al lettore.

Il lettore non è purtroppo diventato re. E’ diventato schiavo della sua libertà. Il lettore legge, ama l’autore, e insieme, nella sua ambivalenza eterna, lo insulta, lo abbassa, lo bistratta, ma non parla con lui.

Mi capita di avere un blog su un quotidiano italiano, IL FATTO. Essendo abituata alla dialettica dal mio mestiere di accademica, quando il lettore commenta, anche aggressivamente, qualcuno dei miei articoli, la mia prima reazione è di rispondergli. Ma il lettore selvaggio, come l’ha ben definito il buon vecchio Umberto Eco, non vuole risposte. Non vuole dialettica. Vuole solo odiarti e insieme ammirarti nella tua infinita, incolmabile, distanza di autore. Un autore che gli risponde, che lo considera un interlocutore, non è più un autore: è uno sfigato in carne ed ossa come lui. Meglio azzerarlo, ammazzarlo, dargli del coglione che accettarlo nel proprio circolo di interlocutori. Perché se diventiamo tutti uguali, allora chi leggo? Mia nonna? Mio cognato che la sera parla di politica? No! Vogliamo autorità, vogliamo pareri che vengono dall’alto, dall’iperuranio, da un mondo delle idee a cui il lettore non avrà mai accesso perché NON VUOLE avere accesso.

Non esiste letteratura più ricca di quella dedicata alla vera identità dell’autore. Shakespeare era forse quattro donne, oppure era Marlowe, oppure il mandante dell’omicidio di Marlowe, ma, soprattutto, per favore, non fateci sapere chi fosse, perché se fosse umano, invece che sovra o sotto-umano, potremmo parlargli, magari dialogare con lui. E questo il lettore lo rifiuta.

Se prendete qualche minuto per leggere i commenti ai miei articoli online sul blog de IL FATTO, ci sono chicche meravigliose come: “L’autrice ha colto, non intenzionalmente ovviamente, il cuore del problema”, oppure “Bisognerebbe chiedersi a chi l’ha data via Gloria Origgi per poter scrivere tali cazzate su questo giornale”, o ancora “L’autrice dell’articolo dev’essere un’esperta di Copia/Incolla per aver messo insieme queste informazioni”.

A volte reagisco, contro il saggio consiglio del mio direttore, che pensa che al lettore selvaggio non valga la pena di dare una replica. Ma sto piano piano capendo che ha ragione lui. Non è l’autore che è morto, pace il buon Barthes. E’ il lettore. Triste, livoroso, incazzato, non cerca nessun dialogo. Ti odia e basta. Affogato in troppa informazione, il lettore galleggia, come un cadavere, senza sapere più come esercitare il suo potere di veto. Allora, come un kamikaze, spara su tutti, non accetta repliche, e si consola pensando che l’autore in fondo non esiste, è una costruzione culturale, e se qualcuno salta fuori in carne ed ossa e gli dice “Guarda, son qui! Sono l’autore! Ti tendo una mano: parliamo!” dev’essere un mandante di un partito realista pericoloso che vuole combattere le comode derive del post-moderno.

Caro lettore, tu n’es plus mon semblable, mon frère, sei una figura patetica, peggio delle vittime della pubblicità, che mi abbatte in pubblico e corre a comperare i miei libri. Ma ho ancora bisogno di te!

Il lettore è morto. Viva il lettore!!

Tuesday, January 03, 2012

Reputazione, sirena del presente


Ricco, famoso, pluripremiato, Orlando Figes aveva tutto dalla vita. Figlio della femminista Eva Figes, sposato a un’avvocata conosciuta, il più celebre storico britannico dell’Unione Sovietica poteva dormire sonni tranquilli. E invece, la notte, stava sveglio a scrivere su Amazon.co.uk recensioni velenose contro i libri dei suoi colleghi sovietologi per rovinare la loro reputazione. Autore di best-sellers come Sospetto e silenzio. Vite private nella Russia di Stalin (Mondadori, 2009) e La danza di Natasha. Storia della cultura russa (Einaudi, 2004), Figes era apprezzato sia dal grande pubblico sia dai colleghi specialisti, una reputazione rara, da difendere a caro prezzo, perché normalmente chi è amato dai molti è odiato dai pari. Eppure, per la sete di gloria, ha perduto tutto.

All’ennesima stroncatura online, il suo rivale, Robert Service, professore di storia a Oxford, comincia a insospettirsi. Le recensioni, che definiscono il suo ultimo libro, Comrades, “orrendo” e “curiosamente noioso”, provengono tutte da un recensore anonimo, che si firma historian. Da bravo storico, Service si lancia in una ricostruzione filologica dello stile dei messaggi, e, quando inizia ad accumulare prove, ne parla ad altri colleghi anch’essi colpiti dalle stroncature misteriose, e scrive ad Amazon per domandare l’indirizzo IP del computer da cui provengono i messaggi. Intanto, Rachel Polonsky, che aveva recensito negativamente qualche anno prima un libro di Figes sul Times Literary Supplement, riceve la seguente recensione del suo ultimo lavoro, Molotov’s Magic Lantern, dallo stesso misterioso historian: “E’ uno di quei libri riguardo al quale la prima domanda che viene in mente è perché sia stato scritto”. La Polonsky e Service proseguono insieme l’inchiesta: in effetti, basta un click sul profilo di historian per vedere che è uno pseudonimo legato al conto orlando-birkbeck, un bell’atto mancato per qualcuno che vuole distruggere i suoi nemici. Polonsky salva tutte le recensioni di historian, tra le quali anche un’invettiva contro Kate Summerscale, che nel 2008 aveva soffiato a Figes un premio letterario importante: “A cosa stavano pensando i giurati del Samuel Johnson quando hanno dato deciso di premiare questo libro?” In verità, historian non si limita a stroncare gli avversari: ama anche scrivere recensioni appassionate, solo però dei libri di Figes. Di Sospetto e Silenzio, infatti, scrive: “Meravigliosamente scritto, lascia il lettore stupito, travolto eppure più lucido di prima. Un regalo per tutti noi”.

Accusato, Figes contrattacca, nega tutto, dice agli avvocati di fare causa a Service per diffamazione: in una battaglia reputazionale sempre più shakespeariana, Figes è messo ai ferri corti dalle prove schiaccianti fornite dalla Polonsky. Allora, sempre di notte, cancella gli pseudonimi e accusa la moglie di essere lei l’autrice delle recensioni, perché non poteva accusare nessun altro, dato che l’indirizzo IP del computer corrispondeva a quello di casa sua! Come nel romanzo di Emannuel Carrère, L’avversario, in cui il protagonista preferisce sterminare l’intera famiglia che confessare di avere una falsa reputazione, Figes diffama la povera moglie avvocata, minaccia Service di lasciarlo in mutande per i soldi che dovrà pagare di causa, e infine crolla: confessa tutto, dicendo di non capire lui stesso il perché delle sue azioni, e accusando una grave depressione nervosa.

Una colossale guerra di reputazione in ambienti, come l’accademia e l’editoria e Internet, che si nutrono come vampiri di questo strano elisir del presente, che guida le nostre azioni contro qualsiasi razionalità. La reputazione - l’essere visto negli occhi degli altri – quel riflesso delle nostre azioni nello sguardo altrui, è forse la nostra passione più profonda. Forse, dietro all’Homo Oeconomicus razionale e interessato, esiste un’altra faccia delle nostre motivazioni, la Passione della Gloria, come la chiamava Hobbes, unica a garantirci di essere visti, di non svanire nel rumore collettivo. Ma attenzione: la reputazione consegna allo sguardo altrui il destino della nostra immagine, rendendolo manipolabile, fragile e fa così di noi stessi le prime vittime del nostro bisogno di esistenza sociale.