Sunday, October 08, 2017

In viaggio con Dan 1: Il Niño Fidencio

(Ho deciso di pubblicare una serie di racconti di viaggi che feci anni fa con il mio compagno di allora, un geniale antropologo, viaggi in un certo senso per me d'iniziazione, che mi insegnarono a pensare e mi portarono dal mondo chiuso della mia adolescenza asfittica milanese all'universo infinito dell'immaginazione poderosa di Dan. Li pubblico sul questo blog perché trovo l'iter editoriale e gli spiacevolissimi incontri con gli editori un rito collettivo di umiliazione degli intellettuali al quale mi sottopongo solo per strette ragioni di lavoro (saggi, articoli scientifici, insomma, roba che mi fa mangiare a fine mese). Ma per le cose più personali non ho più voglia alla mia età di trovarmi davanti ragazzette con improbabili frangette, occhiali e aria da saputelle che mi dicono che il mio linguaggio non corrisponde ai gusti dei trenta quarantenni o altre fesserie del genere, o ancora peggio, finti agenti editoriali, dai modi manageriali, che giocano ai newyorkesi nella bassa padana e ti fanno rispondere dalla segretaria perché troppo presi a leggere l'ultimo manoscritto. In ogni caso ormai la pubblicazione è un esercizio di vanagloria, che non dovrebbe riguardare che sé stessi e il piccolo pubblico con cui negli anni si è entrati in sintonia.)



In viaggio con Dan 1: Il Nino Fidencio







L’aereo si posa a Monterrey alle sei del pomeriggio. Il deserto è rosso, carico di sole del tramonto. La città sorge da qualche parte nel Nord del Messico, circondata da un paesaggio piatto e continuo, un deserto di cactus, come quelli nei disegni di Topolino che leggevo da piccola. Il confine con il Texas non è lontano. C’è una Monterrey anche in Texas, al di à della frontiera, non deve essere molto diversa.

Adamo è venuto a prenderci all’aereoporto. E’ un signore distinto, parla in continuazione, non capisco se è per impressionarci o perché è intimidito dai professori che invita nella sua Business School per ricchi messicani. Parliamo in italiano, Adamo è di origine italiana. Lo stile di conversazione e il modo di vestire, camicia Oxford e abito su misura, ricordano mio padre: le sue tirate eloquenti su tutto, come se ogni discorso fosse davanti a un pubblico pagante, anche quando eravamo semplicemente tra di noi.

Adamo parla di politica, di filosofia, di business, di nuove tendenze nella pedagogia, di creatività, di leadership, di élites, ci stordisce di parole e ha quel modo di parlare di papà che non lascia repliche. Tu sei l’opposto. Sai molte cose che non dici. Sei timido nella conversazione, ma non per modestia: è perché sai bene che non sempre le persone vogliono sapere la verità. Preferiscono parlare per altre ragioni, per mettersi in mostra, per farsi vedere. Se tu parli, invece, dici solo la verità. Mai una parola di troppo, di seduzione, mai nulla per impressionare gli altri. Le tue parole sono cariche di verità come una pila è carica di elettricità, non puoi farci nulla, anche quando vorresti essere leggero e confonderti nella conversazione degli altri.

A volte, la tua serietà mi esaspera. Mentre pranziamo con Adamo, aggrotto lo sguardo, cerco di captare la tua attenzione, storco la bocca per farti capire che devi essere più condiscendente, cercare di entrare nel suo modo di parlare, fargli insomma da contrappunto. Tu mangi e non dici nulla. Io insisto con le mie smorfie e cerco di compensare il tuo silenzio con qualche replica qua e là, qualche ammiccamento. Cerco di fare eco al suo discorso, arricchendolo, rilanciandolo, ma mai obbiettando, perché lui ti paga bene e poi è come papà.

Ho capito tardi che eri timido. Quando ti ho incontrato, mi sembravi aggressivo ed eccessivamente sicuro di te. Ti osservavo a distanza. Non capivo perché tutti ti prendessero così terribilmente sul serio. A volte non riuscivo a capire nemmeno quello che dicevi. Ti mangiavi le parole, in francese come in inglese. Credo di averti insegnato l’italiano per capire finalmente quello che dicevi. Eppure in quell’aggressività vedevo una grandezza buona, come se ci fosse qualcosa di sovradimensionato nel tuo essere che non riusciva a stare dentro le parole, ma che traspariva da quel grammelot accademico. C’era una forza buona in te che ti faceva parlare in maniera decisa e incomprensibile. E che aveva un impatto immediato su tutti, soprattutto su noi giovani studenti che pendevamo dalle tue labbra. Stavamo a sentirti come un gruppo di fanatici. Ascoltarti ci provocava la sensazione di sicurezza meravigliosa dei bambini che appoggiano la testa sul petto dei genitori per ascoltarne la voce, poco importa di cosa stiano parlando perché il suono profondo che risuona nella cassa toracica fa bene, è un suono caldo e ovattato che cura come un balsamo magico tutte le paure. Ti ascoltavamo senza capire nulla perché ci rassicuravano le tue parole e il tuo vocione forte. Perché s’intuiva che dentro di te c’era qualcosa di materno e sensato, un nascondiglio segreto di senso a cui avremmo potuto attingere per sempre.

Adamo ci porta nel ristorante chic della club house del golf di Monterrey, cucina pessima, internazionale, mi ricorda la club house del golf club Milano a Monza dove papà ci portava tutte le domeniche. Domeniche interminabili tra amici di famiglia noiosi a parlare di par, di pat in green, di quel drive spettacolare del Mario alla buca otto. Non c’è nulla di peggio dei discorsi dei golfisti. Le tirate di mio padre su tutto e tutti erano l’antidoto collettivo alla noia.
La moglie di Adamo è colombiana, le figlie due belle ragazze adolescenti che studiano in scuole di lusso in giro per il mondo. Dei deracinés, come direbbe papà, che per lui se uno esce dal centro di Milano vuole dire che ha perso la bussola.

In quindici giorni devi insegnare cos’è l’antropologia alla futura classe dirigente messicana. Abbiamo accettato entusiasti di venire perché sei strapagato, e non abbiamo un soldo a Parigi, almeno, così dico io. Io ti ossessiono con i soldi, mi lamento sempre di non avere abbastanza soldi. Il mio retaggio borghese italiano è decadente, la rovina economica si nasconde sempre da qualche parte. Una delle immagini della mia infanzia che mi faceva più paura era quella della “miseria che bussa alle porte con le sue dita adunche”, un’espressione di mia madre, come se non si fosse mai al sicuro dalla caduta sociale. Mi dicevi a volte che sembravo uscita da un libro di Moravia. E così hai accettato questo lavoro per farmi contenta. A te dei soldi non importa nulla, lo fai solo perché ti lasci in pace con la storia della miseria.

Agli allievi di una Business School non si può insegnare nulla. Saranno degli executives da grandi, gente che esegue e che pensa poco, convinta che riflettere sia una perdita di tempo, un lusso per signore. Non vale la pena dunque di fare aprire loro i libri di Lévi-Strauss. Decidi di portarli direttamente sul terreno, di far vivere loro l’esperienza dell’antropologo. Sono contentissima, perché quell’esperienza la farò anch’io per la prima volta. Finita l’università a Milano, decisi di venire a Parigi con un tuo libro in tasca. L’avevo letto per un esame di sociologia, e avevo deciso che prima o poi ti avrei incontrato. Volevo diventare anch’io antropologa. Così dissi a mio padre, appena dopo la laurea: “Voglio andare a Parigi e diventare antropologa”. Mi guardava come se fossi matta.

Eppure a Parigi ci andai. E riuscii a incontrarti. Ma tu dicesti secco che fare l’antropologa era una cattiva idea. Non mi avevi presa sul serio. Vedevi bene che quella ragazzina milanese viziata, che arrivava pretenziosa e ben vestita, non si sarebbe ritrovata facilmente in mezzo a una tribù di Yanomami o negli altipiani etiopi dove abitano i Dorze. C’era una canzone della mia giovinezza che aveva scritto un’amica milanese per prendere in giro le velleità esotiche di certe ragazze per bene del centro. S’intitolava: “Rimini come Ouagadougou”. Ecco, ti avrò dato l’immagine di una viaggiatrice velleitaria, che sogna i tristi tropici, ma preferisce il fritto misto sotto l’ombrellone. Mi dicesti, sorridendo, che nelle montagne etiopi la sera fa freddo e le capanne bisogna costruirsele da soli. Avevi ragione tu. E negli altipiani etiopi dove avevi abitato per tanti anni non mi portasti mai. Questa volta, invece, parto anch’io all’avventura. Un’avventura a misura di business school va bene anche per me.
Partiamo in autobus, che eccitazione! Sembra una gita scolastica: colazione al sacco, zainetti e macchine fotografiche. Destinazione: Espinazo, un villaggio a novanta chilometri dalla cittadina di Mina, nello stato del Nuevo Léon. Il territorio è desertico, ci fermiamo a Mina, città fondata nel Seicento da coloni spagnoli. Le case sono basse e color sabbia, con strisce rosse sopra le porte, e gli usci dipinti di bianco. C’è un bel palazzo al centro del paese che è oggi il museo della regione. Non c’è un granché da mostrare, se non i resti di un mammut scoperti negli Anni Cinquanta. Ma due sale del museo sono dedicate al Niño Fidencio e alla storia del Fidenzismo, un’eresia cattolica che negli Anni Venti del secolo scorso portò Mina e i suoi dintorni alla ribalta.

In una vetrina, una foto d’epoca in bianco e nero mostra il bel viso dai caratteri decisi di José Fidencio Costantino Sìntora, nato il 17 ottobre 1898 nel Rancho de las Cuevas, nel comune di Iramuco, non lontano da Espinazo. Nella foto è un ragazzo dalla pelle chiara e i capelli scuri. Sulla didascalia c’è scritto che era alto un metro e ottanta e che aveva gli occhi verdi. Poco più in là, in un’altra vetrina, c’è una foto molto più sorprendente: José Fidencio è vestito da Madonna, con un abito rosso lungo fino ai piedi e un manto blu. E’ già diventato il Niño Fidencio, curador mistico conosciuto e venerato in tutta la regione.

La storia mi appassiona. A dire il vero, la religione cattolica pullula di “Santos Folk”, sciamani locali, guaritori carismatici come il Niño, adorati in una regione ma non riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa. Eppure la sua storia ha qualcosa di speciale. O speciale pare a me, perché è la prima volta che indago su un personaggio storico così da vicino.

Il Niño scopre i suoi poteri di guaritore da bambino. Alla scuola elementare religiosa, incontra il nipote di uno dei suoi insegnanti, Padre Segura, Enrique Lopez de la Fuente. I due ragazzini si legano in un’amicizia che durerà tutta la vita. Padre Segura insegna loro l’uso delle erbe per curare i malati, e il Niño rivela il suo carisma da guaritore, tanto che Enrique Lopez ne è completamente conquistato. Più tardi Lopez partirà per unirsi alla Rivoluzione e i due resteranno separati per nove anni. Secondo le testimonianze dell’epoca, il Niño non si sviluppa, resta un bambino asessuato: benché cresca in altezza, i suoi attributi maschili sono atrofici e la voce è infantile. Si potrebbe pensare a un caso di sindrome di Klinefelter, una variazione cromosomica abbastanza comune che colpisce un uomo su mille: invece di un cromosoma sessuale X e un Y, chi ha la sindrome di Klinefelter di cromosomi sessuali ne ha tre: due X e un Y. La maggior parte di coloro che hanno XXY non se ne accorgono nemmeno, e vivono una vita sana e normale. Ma alcuni possono sviluppare gravi sintomi, come infertilità, atrofia degli organi sessuali, altezza sproporzionata, petto pronunciato, pochi peli e un generale disequilibrio ormonale. Comunque sia, diventato adulto, il Niño non ebbe nessuna vita sessuale, cosa che rese ancora più celebre la sua fama di santo.

Tornato dal fronte, Lopez si stabilisce ad Espinazo per lavorare nelle miniere e fa diversi figli. Rintraccia il suo amico d’infanzia e gli chiede di venire ad aiutarlo perché uno dei suoi figli è malato. Il Niño arriva e compie il miracolo, il bambino è salvato nell’ammirazione generale. Lopez e il Niño non si lasceranno più e resteranno a Espinazo, che diventa la patria del Fidenzismo.
Il Niño comincia le sue guarigioni spettacolari mescolando misticismo, concentrazione, carisma e decotti di erbe. La sua fama si diffonde in fretta e da tutta la regione arriva una corte dei miracoli di malati in cerca di guarigione. Lo ricordano come un uomo infantile e felice, che prescriveva ai poveri disgraziati musica e buona cucina. Una volta curò un muto facendolo così arrabbiare che quello si mise a urlare, un’altra una paralitica spargendo caramelle per terra fuori dalla portata della donna che, senza neanche accorgersi si alzò e cominciò a camminare per raccoglierle. Cos’è il carisma? Cos’è l’aura che emana questo ragazzo alto e bruno, quali poteri sovrannaturali gli sono stati concessi, quale balsamo passa dalle sue mani ai corpi storpiati di quei poveretti?
Al culmine della tensione sciamanica, quando i suoi poteri si moltiplicano e la guarigione si compie, il Nino diventa donna. Anzi, la Madonna. La sua voce si fa acuta e spesso indossa un abito rosso lungo con il manto azzurro. Sono le donne della borghesia locale di Mina che glielo hanno procurato. La sua incarnazione femminile seduce e dà potere alle donne. Il Niño porta in sé il carisma femminile, il potere segreto della donna che cura, perdona e lenisce tutti i mali, la Madonna della Misericordia, il refugium peccatorum sotto il cui manto i disgraziati vengono a consolarsi e a chiedere perdono. E’ un potere selvaggio, buono e violento: il Niño fa a modo suo, non accetta consigli, si spazientisce e grida se viene interrotto nella sua trance quando è invasato e ha ricevuto lo spirito. Si veste da Madonna, diventa donna mentre lo spirito che riceve è quello di un bambino, di Gesù, come se il suo stato sciamanico fosse un’epifania del mistero cristiano per eccellenza, di quella donna vergine con suo figlio, quel binomio rappresentato ovunque nei quadri, nelle chiese, nelle statuette, negli affreschi, la strana relazione della ragazza madre e del figlio divino, come se la sapienza divina non potesse che emanare da un corpo femminile e vergine.

Una volta lessi che esistono certi pesci il cui sesso è reversibile, come Orlando, il protagonista - o la protagonista - del romanzo di Virginia Woolf. Il Labroides Dimidiatus Meyeri, un piccolo pesce comune dei fondali rocciosi, che vive in simbiosi con pesci più grossi nutrendosi dei loro parassiti, ha un singolare comportamento di gruppo. C’è un maschio dominante che veglia sul suo harem, ma se s’indebolisce o muore, allora la femmina dominante dell’harem comincia a mostrare un comportamento aggressivo e dopo tre o quattro giorni si trasforma in maschio. La cosa mi aveva molto colpita, perché avevo sempre creduto che essere maschio o femmina fosse un destino immutabile.

 Il Niño è l’opposto del pesciolino dei fondali rocciosi: lui, quando si fa potente e aggressivo, diventa donna. E’ il suo poderoso istinto di madre, quell’intuizione cosmica di aver generato tutto con il proprio corpo, il senso che tutto gli appartiene e che solo lui ne è il responsabile che gli dà potere. L’empatia totale del Niño è il suo carisma di donna.

Ci aggiriamo per Espinazo in cerca di storie sul Niño. Alcuni degli abitanti più anziani l’hanno conosciuto: è morto a 40 anni nel 1938. Tu incoraggi gli studenti a trovare un “informatore”, come si fa nei veri terreni antropologici, qualcuno cui dare fiducia e che li accompagni durante la loro esplorazione, facendo loro incontrare persone rilevanti e mostrando loro case, paesaggi, oggetti che permettano di rendere più vivida la storia del Niño.
Al centro del paese c’è una piazza dove ci sono due grandi fontane con vasche basse. Qui i curadores, eredi dei poteri del Niño, entrano in trance per accogliere lo spirito. Li guardiamo stupefatti, ma loro sono abituati alle visite: recitano la loro parte senza scomporsi, anzi, felici di avere un pubblico numeroso.

Non avevo mai visto qualcuno entrare in trance. E’ uno stato quasi contagioso, fatto di lamenti, movimenti a scatti, tremori, cambiamenti di voce. La maggior parte dei candidati a ricevere lo spirito del Niño, i sacerdoti del fidenzismo, sono donne. Donne maschili, robuste, con i capelli tagliati corti, assomigliano a dei ragazzini. Tutta l’eresia cattolica del fidenzismo sembra basata su una continua inversione di sesso. Il Niño è un ermafrodita che si veste da donna per curare i malati, le sue protettrici sono le donne di potere della borghesia locale, e le sue sacerdotesse sono donne vestite da uomo che all’apice della trance assumono la voce del Niño ragazzino, una voce bianca, pre-puberale.
Guardando le sacerdotesse in trance, mi viene da pensare che fu grazie a te che diventai una donna. Prima di incontrarti ero un androgino ben vestito, dai modi femminili e dal cervello maschile e aggressivo. Non mi piegavo mai, ero fatta di vetro: fragile e tagliente. Studiavo cose difficili, parlavo di cose difficili, volevo sempre averla vinta. Mi ricordo che fu tale lo sforzo di scrivere la mia incomprensibile tesi di dottorato che non ebbi più le mestruazioni per sei mesi. Chissà che ormoni avevano scatenato i miei neurotrasmettitori impegnati nella definizione del concetto di informazione… Andai dal medico pregandolo di rendermi le mestruazioni, e lui mi guardò giudicante, mi chiese cosa facessi nella vita, e quando gli dissi che passavo le mie giornate a leggere Rudolf Carnap e la logica filosofica, mi disse che il miglior modo di riavere le mie mestruazioni sarebbe stato quello di leggere romanzi rosa e pensare al matrimonio. Me ne andai sbattendo la porta e dandogli del vecchio barone sessista. Eppure, di lì a poco, mia sorella rimase incinta del suo secondo figlio. Quella notte sognai una Madonna insanguinata, il manto e le mani erano coperte di un sangue denso e colloso e lo sguardo era beato. Mi svegliai tristissima, rimpiangendo le mie mestruazioni involatesi in chissà quale dei mondi possibili aridi e astratti che abitavo in quegli anni. Sognavo di tornare a terra, a casa, alla carne e al sangue che mi stavo negando da anni, ai parti e ai vagiti di bambini, ai seni carichi di latte…
Proprio in quegli anni cominciai a frequentarti assiduamente, per tradurre i tuoi libri e chiederti consigli sui miei studi. Venivo a trovarti a casa tua, mi sedevo sul divano e ti lasciavo parlare. Ogni tanto mi prestavi dei libri, che riportavo a casa come sacre reliquie. Ero terribilmente intimidita da quegli incontri. Un giorno ti chiesi se potevo fumare una sigaretta per accompagnare il caffè che mi avevi preparato. Mi risposi secco che non avevi nulla in contrario, ma che vedere una donna che fuma ti faceva lo stesso effetto di vedere “une personne qui se met une saleté dans la bouche”…la frase mi paralizzò. Ovviamente quella sigaretta non l’accesi, e non ebbi mai più il coraggio di fumare davanti a te. Avevi l’autorità che mi era mancata da ragazza, e mi facevi sentire una bambina stupida. Davanti a te il mio corpo androgino si scioglieva, diventava semplicemente il corpo vulnerabile di una donna ai tuoi occhi giovanissima. Ogni volta che uscivo da casa tua, avevo l’impressione che la mia voce fosse andata in “falsetto”, si fosse fatta stridula e troppo acuta.

Una volta entrate in trance, le sacerdotesse del fidenzismo sono possedute da diversi spiriti prima di ricevere quello del Niño. Con gli occhi chiusi e la testa a penzoloni, si lasciano invadere da spiriti di passaggio, come quello di Pancho Villa, eroe della rivoluzione messicana, detto anche El Centauro del Norte comandante della Division del Norte, e poi governatore della città di Chihuaha, popolarissimo nel Nord del Messico. Allora scherzano, fanno la voce forte, chiamano ad adunata tutti gli astanti e cantano inni rivoluzionari. Poi la voce d’un tratto muta, un altro spirito passa, si sente cantare:

Vamos todos alabando
Del mundo no hagamos caso
Porque ya vamos llegando
A la estaciòn de Espinazo

I pellegrini osservano incantati, le sacerdotesse si scatenano, il rito è alimentato dalla fiducia collettiva che permea le possessioni: dobbiamo crederci tutti, dobbiamo essere dentro il rito, non c’è posto per gli osservatori. Spesso, amici antropologi mi avevano raccontato di fenomeni di contagio successi anche a loro: le crisi epilettiche, per esempio, sono comuni tra coloro che osservano una cerimonia di possessione. Anche io sento il mio corpo fremere, attraversato da chissà quali spiriti. Finalmente, la sacerdotessa che è davanti a me si calma, il suo corpo non trema più, la voce si fa sottile, sempre più acuta, come quella di un bambino: il Niño è dentro di lei. Ora può benedire i malati e cominciare a curare.

Mi allontano con la mia informatrice, una bella ragazza di vent’anni che parla un po’ di inglese, ma con la quale ci capiamo mescolando spagnolo e italiano. Ho la testa che gira, lei dice che è normale se è la prima volta che assisto a una possessione, sono spiriti molto potenti, mi dice, e quando passano travolgono tutto e tutti. Mi porta a visitare la chiesa di Espinazo. E’ un giorno speciale, c’è una cerimonia in onore del Niño e del bambino Gesù. Un girotondo di bambine mi accoglie nella chiesa, ho la nausea e ho paura che l’odore di incenso mi faccia svenire. Cantano una nenia sempre uguale, ripetendo qualcosa sul Niño, il bel Niño, il bel bambino, e passandosi un bambolotto addobbato di paramenti, sembra vestito come un vescovo, con un abitino di raso viola, lo stesso viola dei mantelli che indossano le sacerdotesse fidenziste durante le cerimonie e le cure.

Sono trascinata nel cerchio, mi dondolo anch’io su un piede poi sull’altro ripetendo la nenia che cantano tutte. Il bambolotto fa il giro delle braccia, ognuna di noi se lo tiene  in braccio e lo culla per qualche minuto, poi lo passa alla vicina. Comincio a sentirmi meglio, a provare piacere in quella strana danza, mi calma dall’agitazione delle possessioni, è una dimensione collettiva, ma non alienante come quella della trance. Sono io e non sono io, qualcosa sta succedendo dentro di me che va al di là dei limiti del mio corpo, ripeto in modo automatico i gesti che fanno gli altri e mi annullo in quel rituale mistico.

Di lì a poco è ora di ripartire. Ci siamo dati appuntamento davanti al pullman all’entrata della città alle cinque del pomeriggio. La mia informatrice mi ha regalato un amuleto, un bastone di corda intrecciata da cui pendono due teste d’aglio, una boccetta di acqua santa e una foto in banco e nero del Niño. Mi dice di conservarlo con molta cura, che è un regalo importante. Sorrido imbarazzata e insieme convinta, le dico che lo riporterò a casa e che lo conserverò nel cassetto della mia scrivania, dove accumulo da anni preziose cianfrusaglie, come lettere, ricordi di viaggi e vecchi portafogli.

Durante il viaggio di ritorno, ti sorrido felice. Sto pensando al futuro, al libro che scriverò sul Niño Fidenzio, ai miei viaggi, ai nostri viaggi, a una vita piena di avventure. Di colpo, la zavorra del mio passato, quel consigliere cattivo che mi ripete da sempre che i miei sogni ad occhi aperti non si realizzeranno, che non andrò lontano, che la mia immaginazione ha le gambe corte, si è messo a tacere, e il mondo mi sembra a portata di mano, accessibile, infinito. Tu, come al solito, mi incoraggi. Ti fa così piacere vedermi sognare, vedermi uscire dalla mia crisalide di tristezza milanese, sempre dubbiosa di me, che mi dici, certo, torna quando vuoi, hai visto com’è facile? Se te ne stai un paio di mesi qui, puoi scrivere un libro bellissimo sul Niño.

Anche gli studenti della business school sembrano soddisfatti. Sono meno sognatori di me, hanno guardato il tutto con condiscendenza, ma anche con un po’ di vergogna, perché forse non si aspettavano che a pochi chilometri dalle loro case di ricchi di Monterrey ci fossero tali “riti selvaggi”. Anzi, alcuni di loro cercano quasi di scusarsi dell’arretratezza del loro paese. Comunque è successo qualcosa a tutti quanti, un’esperienza, insomma. L’umore è ottimo durante il viaggio di ritorno, e la sera ci portano a mangiare in un ristorante circondato da montagne, dove la luce della luna si riflette in modo tale da illuminare a giorno i tavoli. Il chitarrista che anima la serata canta Paolo Conte con voce triste.

Passo il resto delle giornate a Monterrey a leggere di antropologia, di ermafroditismo, di animali che cambiano sesso. Metto insieme alla rinfusa un progetto di libro che non scriverò mai, ma che anima quelle giornate di entusiasmo.

Torniamo verso metà gennaio. Il 6 febbraio partiamo per Londra, come al solito per una tua conferenza. Festeggiamo il mio compleanno a China Town. Poi, qualche giorno dopo, prendo un volo Low Cost, il primo della mia vita, per andare da Londra a Milano a festeggiare i settant’anni di mio padre. La compagnia aerea si chiama Buzz, l’aereo è ridicolmente viola e giallo. Quell’aereo colorato e infantile mi mette di buon umore. Chissà perché anche quello è un segnale di un mondo migliore davanti a me, dove si volerà quasi gratis in giro per il mondo. Dopo la festa di compleanno per papà, prendo un treno e vado in Maremma a trovare la mia più vecchia amica. Appena scendo dal treno, lei mi guarda e mi dice che ho qualcosa di strano negli occhi, una luce nuova. La mattina prendiamo la sua piccola auto elettrica e andiamo in farmacia a comprare un test di gravidanza. E oplà: sono incinta!

Anni dopo, quando casa nostra era già invasa di disegni infantili di Leo e dei suoi giocattoli, vennero a trovarci a Parigi una coppia di amici americani. Lei più giovane di lui, ma al limitare degli anni fertili, troppo agitata, piena di ansie, mi faceva pensare a me stessa di dieci anni prima. Stava facendo cure di tutti i tipi per riuscire ad avere un bambino. L’ascoltai paziente, mentre tu chiacchieravi di cose accademiche con suo marito. D’un tratto, le dissi di aspettare un momento, andai nel mio studio, aprii il cassetto delle cianfrusaglie e con molta cura estrassi l’amuleto del Niño. Lei, filosofa, quando glielo porsi mi guardò come fossi matta. Si mise a ridere, e anche noi ridemmo. “Tanto non vi costa nulla”, dissi io, per sdrammatizzare.

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Tre settimane dopo ricevemmo una busta DHL da New York. L’amuleto era dentro con un biglietto: “The Niño strikes again”.




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21 comments:

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