Monday, July 04, 2005
I cento anni di Sartre
Jean-Paul Sartre 1905-1980
A conclusione di questo mese di celebrazioni sartriane – (il 21 giugno Jean-Paul Sartre avrebbe compiuto cent’anni), che hanno visto in Francia e altrove il moltplicarsi di eventi e convegni – tra cui una mostra alla Bibliothèque Nationale di Parigi ancora in corso - gli interrogativi su cosa resta della filosofia di Sartre sono ancora aperti. L’impressione che si ha in Francia, e in generale in Europa, è che resti poco. Se il Sartre letterario de La Nausea o de Le mani sporche ancora circola nelle librerie in qualche edizione tascabile, non si può dire lo stesso di opere come La critica della ragione dialettica o L’essere e il nulla. Faceva notare Annie Cohen-Solal in un articolo di qualche giorno fa che in Francia nel 2004 solo tre giovani studiosi di Sartre hanno ottenuto un insegnamento all’università. Ma l’ottimismo di Cohen-Solal sull’eredità di Sartre fuori dalla Francia è forse da mitigare. Anche in Italia Sartre è considerato un filosofo superato, troppo legato alle contingenze politiche della storia francese, impigliato nel ‘cliché’ esistenzialista del filosofo da café parigino che osserva le giravolte del cameriere intorno ai tavoli per trarne una teoria sull’inevitabile malafede della condizione umana. Nella tradizione continentale, l’esistenzialismo sartriano accusa il peso del tempo più delle filosofie che lo ispirarono, come la fenomenologia o l’ermeneutica. E il suo destino politico di “cattivo maestro”, difensore del comunismo sovietico, ne fa un perdente davanti all’amico/nemico Raymon Aron, compagno di studi, co-fondatore della rivista Les Temps Modernes e convinto anticomunista, del quale si celebra sempre quest’anno il centenario (1905-1983).
Cosa resta dunque oggi della filosofia sartriana? Per quanto possa sorprendere, la discussione è oggi ancora molto accesa intorno ai temi più metafisici di Sartre, come la sua teoria del soggetto come essere per sé, del sé come coscienza riflessa sul proprio essere. L’intuizione di Sartre è che la conoscenza di sé ha uno statuto epistemologico particolare: conoscere sé stessi non significa scoprire un fatto del mondo, come il fatto che fuori stia piovendo. Significa assumere la responsabilità di ciò che si è e si pensa. La tensione tra una visione “cognitiva”, cartesiana, della coscienza di sé come accesso infallibile al contenuto dei propri pensieri e una visione “costitutiva” - per cui conoscersi significa assumere di essere dei soggetti - è il fulcro del dibattito contemporaneo sulla conoscenza di sé in filosofia della mente. Basti pensare all’antologia curata da Crispin Wright, Knowing Our Own Minds, (Clarendon Press, 1988) o ai recenti libri di Richard Moran, Authority and Estrangement, (Harvard University Press, 2002) e Akeel Bilgrami Self-Knowledge and Intentionality (Harvard University Press, 2005). Il legame sartriano tra la responsabilità che assumiamo nel deliberare sui nostri pensieri e l’autocoscienza è una via d’uscita, per esempio per Richard Moran, dall’espressivismo imputato a Wittgenstein, per il quale gli enunciati sui nostri pensieri non sono altro che “espressioni” dei nostri stati interni, più o meno come dire “Ahi!” è un’espressione di un dolore. Conoscersi è deliberare su sé stessi, accettare in pieno la responsabilità morale di essere dei soggetti, trascendendo così, in piena tradizione sartriana, la “fatticità”, ossia la passività dell’essere in sé come semplice oggetto di osservazione. Così Vincent Descombes, uno dei pochi filosofi oggi a saper fare interagire la filosofia analitica contemporanea con la tradizione francese, nel suo ultimo libro Le complément du sujet (Gallimard, 2004) riapre il dialogo con Sartre, inserendo a pieno titolo il suo pensiero nella lunga querelle del soggetto che attraversa la storia della filosofia fino ad oggi, ignara delle distizioni di scuola.
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