Monday, December 02, 2013

Intervista a Edmund White. Micromega 28/11/2013

Qui pubblico un estratto dell'intervista pubblicata su Micromega con Edmund White, scrittore, militante gay, erudito autore di biografie letterarie e squisito collega ed amico a Columbia University.




Si sa che a New York può succedere di tutto, anche di avere come collega e “compagno di banco” all’Italian Academy della Columbia University uno dei più grandi scrittori viventi, Edmund White, mostro sacro della letteratura americana, vincitore in settembre del premio Francia-America, per il suo nuovo romanzo Jack Holmes and his Friend (Bloomsbury, 2013). Celeberrimo per il suo racconto autobiografico, Un giovane americano, uscito negli Anni Ottanta, White fu il primo scrittore americano a fare un vero “coming out” sulla sua esperienza omosessuale. Ma White è molto più di un’icona della letteratura gay: lettore instancabile, ha dedicato gran parte del suo lavoro ai grandi maestri della letteratura del Novecento, scrivendo un’imponente biografia di Jean Genet e altri libri biografici su Proust e Rimbaud. Nato nel Middle West, White ha vissuto a New York, Parigi, Roma, facendo il giornalista, l’editore, ogni tanto l’accademico, un uomo con un’inesauribile curiosità intellettuale che ha l’aria di qualcuno che non si ferma mai. E’ anche il grande scrittore dell’ “auto-fiction” americana, un genere letterario più tipicamente francese che White ha declinato con estrema ironia, alternando racconti autobiografici a vere e proprie “confessioni” di vita, giocando sul doppio filo della vita romanzata e del romanzo della vita. Le sue confessioni irriverenti spesso travolgono amici e conoscenti, che si ritrovano nel grande teatro letterario di White messi a nudo con vizi e debolezze. Il libro in uscita in febbraio sui suoi anni parigini, Inside a Pearl (Bloomsbury, 2014) si annuncia piccante e scomodo: non farà piacere a tutti di ritrovarsi tra le pagine candide e pungenti di quest’uomo di settantatre anni, sieropositivo e reduce da due infarti, con un passato da libertino e uno sguardo ingenuo sul futuro da bravo ragazzo del Middle West…
Ci incontriamo all’Italian Academy, un’istituzione italiana, forse l’unica al mondo, che prende sul serio gli studiosi del nostro paese. Si sa che il problema principale degli italiani è che sono i primi a non prendersi sul serio. Eppure qui, grazie al tocco magico di un direttore italofilo, cosmopolita e poliglotto – lo storico dell’arte David Freedberg – un gruppo di “scholars” di casa nostra o di altre nazionalità con una ricerca specifica sull’Italia, viene selezionato da un comitato accademico internazionale per confrontarsi per qualche mese con i mostri sacri dell’accademia e della cultura americana. E pure noi siamo costretti qui a prenderci sul serio. White è uno dei fellows di quest’anno, perché lavora a un libro su Lorenzo Da Ponte, librettista di Mozart, ma non solo, ebreo di nascita e poi prete cattolico spretato, libertino e amico di Casanova e infine primo professore di italiano proprio a Columbia University. Un altro spirito instancabile che, come White, attraversa epoche e continenti con entusiasmo di vivere, serietà e un’irresistibile bravura nel non prendersi troppo sul serio che solo la libertà di pensiero può dare.

Gloria Origgi: Sono una tua ammiratrice da tempo, un po’ perché amo l’autobiografia come genere letterario e tu hai scritto molti libri autobiografici, e poi perché tu scrivi del mondo letterario, dei mostri sacri della cultura e dell’industria culturale mondiale, hai uno sguardo insieme ammirato e cinico nei confronti della grande letteratura del cosiddetto “canone”. C’è una frase che mi ha colpito nel tuo libro A City Boy. A un certo punto dici che un giorno capisti che la grande letteratura in fondo non è altro che un ennesimo prodotto di marketing. Cosa ne pensi oggi, quando ormai è chiaro che tu sei uno dei “grandi”? Esiste ancora la grande letteratura?

Edmund White: Beh, non penso la grande letteratura sia semplicemente una costruzione culturale, però sono convinto che c’è un’interessante sociologia da fare sul fenomeno della cultura alta, e su come si crea una reputazione, un tema che ti interessa particolarmente! Avendo vissuto vicino a persone molto famose, come Susan Sontag, ho imparato a osservare le loro strategie. Susan faceva sempre la mossa giusta per accumulare ancora più celebrità di quella che aveva. Era davvero una stratega della reputazione. Per esempio, mi ricordo un episodio del 1981. Premetto che gli intellettuali di sinistra americani furono tra gli ultimi a riconoscere la crudeltà del regime sovietico. La mia spiegazione è che la sinistra non aveva nessun potere negli Stati Uniti e dunque poteva mantenere posizione astratte e radicali perché non si confrontava mai con la realtà. Comunque, nel 1981 la Sontag fece un famoso discorso a New York, nel Town Hall dicendo che il comunismo era fascismo dal volto umano. Era l’anno in cui Reagan fu eletto presidente, l’aria dei tempi stava per cambiare radicalmente, e lei se ne rese conto, e cambiò rotta. Il pubblico le lanciò addosso i pomodori, il discorso fu oggetto di infinite controversie nei salotti intellettuali newyorkesi, che ancora pullulavano di leftists convinti. Sembrava che avesse deciso di appoggiare Reagan. Eppure lei aveva capito che, per salvare la sua reputazione, era tempo di cambiare. E’ vero anche che in quegli anni lei subiva il fascino di Joseph Brodsky, che aveva incontrato nel 1976 e al quale si era legata sentimentalmente per un periodo. Brodsky ebbe un grande impatto sugli intellettuali americani. I suoi processi, la persecuzione intellettuale, avevano aperto gli occhi a molti sulla spietatezza dell’URSS. In ogni caso, Susan si era subito allineata con la traiettoria internazionale del comunismo. Un’altra volta fu al New York Institute for the Humanities, dove volle parlare del “viaggio”, ossia della peregrinazione degli intellettuali occidentali in Russia alla scoperta del comunismo. Venivano portati a vedere fabbriche, a visitare fattorie, cose che non avevano mai visto nei loro paesi, e poi a conoscere gli intellettuali locali, che in realtà non erano altro che funzionari di partito. Quel che disse a quella conferenza è che quel viaggio era sempre lo stesso, in Russia come a Cuba o in Cina. Segue certe formule codificate. Era molto interessata agli intellettuali che non si fecero sedurre dal viaggio, come per esempio André Gide. La ragione per cui lo ammirava tanto è che lui aveva un interprete francese in Russia, un comunista che era andato a vivere là perché credeva profondamente nel sistema e che fu disilluso. Era l’informatore di Gide e gli aprì gli occhi in modo che non fosse semplicemente sbalordito dal viaggio, come accadde a molti. In ogni caso, Susan era bravissima a curare la sua immagine e farla evolvere con i tempi.

G.O. La tua relazione con Susan fu complicata, mi sembra di capire. Avevate un rapporto di amicizia e stima reciproca, eppure tu decidesti di ritrarla in un personaggio del tuo romanzo Caracole. Cosa che le dispiacque molto…

Si arrabbiò moltissimo. Chiese addirittura al mio editore di togliere le sue due righe di presentazione del mio romanzo Un giovane americano dalla quarta di copertina in ogni lingua. Non so perché. Non trovo quello che avevo scritto così aggressivo, e poi, è vero che pensavo a lei, ma l’ambientazione è così diversa, così lontana, un mondo di aristocratici e palazzi in una Venezia immaginaria del Settecento. Certo, parlavo di una donna brillante e appassionata, molto spesso le due cose vanno insieme, non trovi? Ho partecipato a un dibattito qualche sera fa con Catherine Millet, la scrittrice francese del libro erotico La vita sessuale diCatherine M., anche lei è brillante e appassionata, che male c’è?
In ogni caso, Susan si arrabbiò moltissimo e rompemmo la nostra amicizia. La colpa fu in parte di un’amica newyorkese negli anni in cui abitavo a Parigi, una grande alcolizzata, alla quale il mio partner dell’epoca aveva detto che ero molto solo in Francia. Allora venne a trovarmi, cominciammo a parlare e mi chiese di leggerle le cose che stavo scrivendo. Così feci, e lei, senza rispettare il silenzio, dato che si trattava di un manoscritto non ancora pubblicato, corse subito a raccontare a Susan che stavo scrivendo su di lei, creando così il malinteso. Se non glielo avesse detto, non se ne sarebbe neanche accorta. Comunque, una relazione complicata.

G.O. Parlando di Susan Sontag, dicevi della la visione ingenua della sinistra americana nei confronti del comunismo, un argomento su cui ritorni spesso nelle tue descrizioni degli Anni Settanta in America. Come fu la transizione politica dagli Anni Settanta agli Anni Ottanta? Tu stesso dici che negli Anni Ottanta non ti consideravi più un socialista, ma un anarchico, e che per “anarchico” intendevi in fondo un individualista.

E.W. Come ho detto, la sinistra americana degli Anni Settanta si permetteva di essere così radicale perché quel che pensava non aveva conseguenze politiche né negli Stati Uniti né altrove. Allora si poteva dire a cena “Viva Marx o Viva Mao”, tanto il comunismo era lontano, non si sarebbe mai avvicinato agli Stati Uniti e non ne avremmo mai pagato le conseguenze. Negli anni che passai a San Francisco, incontrai Simon Karlinsky, un intellettuale russo straordinario, direttore del dipartimento di slavistica a Berkeley. Aveva letto qualche articolo di giornale su di me in cui dicevo che ero un socialista e mi disse, “Oh, Edmund, ma di cosa stai parlando? Tu non sai di cosa stai parlando!”. E io pensavo fosse giusto un russo bianco che aveva le sue ragioni dinastiche per essere un anti-socialista. Poi cominciai a capire. All’inizio prendevo con lui le posizioni tipiche degli americani di sinistra, e gli rispondevo: “Ok, ma almeno Lenin va bene!”. Ovviamente Lenin non andava bene per niente, era un mostro come tutti gli altri. Allora cercavo un periodo anteriore in cui l’URSS fosse difendibile, in cui l’utopia socialista ancora prevaleva sulle lotte di potere, ma era in realtà impossibile. Emma Goldman aveva già denunciato le derive dei bolscevichi nel 1919, quando ci fu la repressione della rivolta di Kronstadt, guidata da marinai e pescatori contro la politica economica di Lenin. Non si poteva chiudere gli occhi in quel modo. Non c’è mai stato un “buon periodo” del bolscevismo, è inutile sognare. E Simon, che era un mio grande amico, era arrivato in America con la famiglia a sedici anni scappando dalla Manciuria, allora sotto il regime sovietico. Era uno studioso di Nabokov, e io pensavo fosse di destra come Nabokov, il quale aveva preso posizioni per me all’epoca insostenibili, come il suo appoggio alla guerra del Vietnam. E invece proveniva da una famiglia semplice, che aveva sofferto le peggiori umiliazioni a causa dei bolscevichi.

G.O. Dimmi di più della tua relazione con Nabokov, che giocò un ruolo importante nella tua carriera di scrittore.

E.W. Per prima cosa, io adoravo Nabokov. Addirittura lo sognavo, sognavo i suoi libri.

G.O. Perché lo ammiravi così tanto? Non mi fraintendere, anch’io lo amo moltissimo, soprattutto perché è uno dei pochi scrittori, insieme a Canetti o a Sebald, che ha un rapporto complesso con la lingua che usa per scrivere. La sua autobiografia Parla, ricordo, mi ha profondamente influenzata. Non mi stupisce dunque la tua ammirazione, ma vorrei capirne le ragioni.

E.W. Una delle cose che mi attrae di più del suo lavoro è il suo stile complesso e barocco per raccontare storie forti, intrighi invece molto chiari, quasi melodrammatici direi. La cosa funziona meglio nei romanzi che nei racconti. Prendi Disperazione:un uomo che pensa di uccidere il suo doppio e alla fine non fa che architettare l’omicidio perfetto di sé stesso. L’idea è molto intelligente. Lo stile barocco si mescola a una trama poliziesca. Hermann, il protagonista, è chiaramente un pazzo. Nabokov amava scrivere di pazzi. Non amava scrivere né di geni né di gente speciale, ma della varietà aberrante degli esseri umani. Trovo questo affascinante.
Fu così che venni in contatto con lui. La sua reputazione stava lentamente declinando negli Stati Uniti alla fine della sua vita. Molti dei suoi ultimi romanzi non ebbero un gran successo. All’epoca lavoravo per una rivista letteraria e, dato che ammiravo Nabokov moltissimo, decisi di creare molto rumore intorno all’uscita di uno dei suoi ultimi libri e di preparare un servizio speciale. Ingaggiai un fotografo, Lord Snowden, per andare a fargli delle foto e chiesi a una serie di scrittori importanti di scrivere dei saggi su di lui. Anche io ne scrissi uno. A lui l’idea piacque molto e scrisse anche lui un saggio sull’ispirazione, che illustrai nella rivista con l’immagine di un bellissimo quadro di Jean-Léon Gérome, un pittore francese accademico della fine dell’Ottocento, che anche lui conosceva. Ebbi anche il problema di dover “editare” il suo pezzo, che non era cosa facile per un ammiratore come me. Ma lui disse che la mia versione andava benissimo. In realtà non ci siamo mai incontrati di persona. Ci siamo parlati per telefono. Qualche tempo dopo, Nabokov fu intervistato da Gerald Clarke, il biografo di Truman Capote, per la rivista Esquire. Durante l’intervista, Clarke gli chiese quali erano i suoi scrittori americani preferiti. E Nabokov fece il mio nome. Questo accadeva nel 1976, e il mio primo libro Forgetting Elena, era apparso tre anni prima, e già scomparso. Ma ovviamente, il suo giudizio positivo ebbe un impatto enorme sulla mia reputazione. Dopo la sua morte, andai a Montreux con un amico che stava pubblicando L’incantatore in francese, un racconto scritto in russo e mai pubblicato in vita, che il figlio Dimitri tradusse in inglese nel 1986. Lì incontrai la moglie di Nabokov, con cui passai un paio d’ore.

G.O. E quando decidesti di scrivere una biografia di Jean Genet?

E.W. Nel 1986. Abitavo a Parigi all’epoca, e il mio editor preferito mi chiamò da New York per sapere se conoscessi qualcuno che aveva voglia di scrivere un libro su Genet e subito gli dissi: “Lo voglio scrivere io!”. Così mi affidò il compito di scrivere la biografia di Genet, ma di lì a poco si ammalò di AIDS e morì. Lo stesso anno, scoprii di essere sieropositivo. Pensavo anche io che sarei morto. Andai avanti comunque con il progetto, ma faticosamente, con molti problemi. A quei tempi un editor di una buona casa editrice americana non aveva più di quattro libri all’anno di cui occuparsi. E dunque l’editor che prese il posto del mio amico ebbe il tempo di lavorare sul mio manoscritto tanto da riempire ogni pagina di correzioni. Quando vidi ritornarmi il manoscritto tutto segnato, mi dissi che non avevo nessuna voglia di riprendere daccapo il progetto. Lo ripresi comunque e il manoscritto rimase in attesa più di un anno, dovetti far intervenire il mio agente per farlo riprendere in mano. E infine vinse il National Book Critics Circle Award, un premio molto importante qui.

G.O. E’ interessante però che non si trattasse di una tua idea ma di una commessa. Però la redazione ti prese molto tempo. Ti “innamorasti” a un certo punto del personaggio o no?

E.W. Non mi è mai piaciuto Genet e io non sarei piaciuto a lui. Ha una visione dell’omosessualità sinistra, colpevole, si compiace nel considerarla nei suoi aspetti sordidi, quasi fosse un tratto criminale. Poi, odiava gli americani, i bianchi, i borghesi e gli altri omosessuali. Mi avrebbe sicuramente odiato.
Lo stimo come scrittore, ma trovo detestabile il personaggio. In ogni caso, credo che in generale, più si passa tempo in compagnia di un personaggio di cui si conoscono sempre meglio i dettagli della vita, più lo si disprezza. All’inizio pensavo il contrario. Pensavo che tutti funzionassimo nella lettura con un sistema di “rinforzo”: più lo leggi e più lo ami. Comunque a dire il vero quel che successe con Genet è che dopo sette anni passati a scrivere la sua biografia avevo la stessa opinione di lui che avevo all’inizio, ossia che si trattasse di un uomo estremamente complicato, difficile. Gli americani hanno la fama di essere “gentili per routine”. Ecco, Genet è assolutamente l’opposto, qualcuno di spiacevole per routine.

G.O. Tutti gli autori francesi di cui ti sei occupato erano omosessuali?

E.W. Beh, sì, se vogliamo considerare anche Rimbaud un omosessuale…Era più che altro un enfant terrible, che amò uomini e donne. La relazione con Verlaine non fu sufficiente a farlo considerare dalla critica come uno scrittore gay. Nella breve biografia che ho scritto di lui, invece, approfondisco proprio il tema della sua omosessualità: in fondo, Rimbaud e Verlaine furono la prima coppia omosessuale di artisti pubblicamente riconosciuta.
Gli altri autori di cui mi sono occupato erano tutti omosessuali. Anche il mio libro su Proust non fu immediatamente accettato dalla critica, soprattutto in Francia. Sostenevano che la mia lettura del ruolo dell’omosessualità nella vita di Proust fosse troppo pronunciata. Come se avessi “forzato” una lettura gay  di Proust che toglieva qualcosa alla sua grandezza.

G.O. Questo è molto interessante, perché il concetto stesso di “grande letteratura” è basato su una certa idea dell’universalità della natura umana, o del suo genio creativo. Come se specificando certe caratteristiche di un autore, il suo genere, la sua omosessualità, la sua appartenenza a un’etnia particolare, si perdesse in universalità e se ne riducesse così la grandezza.

E.W. Questo vale particolarmente per la Francia. Anche quando la mia biografia di Genet andò in lettura a Gallimard, gli editori erano contenti che il mio libro non fosse troppo “omosessuale” Con il libro su Proust è diverso, perché in quel caso insistei proprio sulla sua omosessualità. Esistevano già miriadi di libri su Proust, dunque, quando decisi di scrivere un libro su di lui, avevo bisogno di trattarlo da una prospettiva particolare. Mi chiesi cosa potevo fare di un po’ differente. E pensai che tutti quanti dicono di Proust di quanto sia bravo a trasformare figure maschili in personaggi femminili, come Alfred Agostinelli trasformato in Albertine. Ma è una lettura davvero banale, direi ridicola dei personaggi proustiani. Proust era sicuramente un maestro nell’inversione di genere, ma in modo molto più complesso. Il suo autista, Alfred, non è che uno degli ispiratori della figura di Albertine, che viene creata dai tratti di diverse persone incontrate. I tratti maschili non sono invertiti meccanicamente in tratti femminili! Una studiosa americana, Elisabeth Ladenson, ha scritto un libro sull’omosessualità femminile in Proust (Proust’s lesbianism, 1999) mostrando che l’interesse di Proust per le relazioni omosessuali andava ben al di là dell’omosessualità maschile e del semplice trasporre maschi in femmine. L’omosessualità saffica, pensa ad esempio alla figlia di Vinteuil nella Ricerca,attraversa tutta l’opera di Proust ed è, secondo la Ladenson, l’unica forma di amore che trova pienezza e condivisione invece di frustrazione. Insomma, la sua visione dell’omosessualità è estremamente elaborata ed è questo che cerco di mostrare nel mio libro: quali persone e per quali ragioni cambiano sesso nel romanzo di Proust, non la semplice ovvietà che Proust era omosessuale.

G.O. E qual è la tua visione del rapporto tra letteratura e genere? Il genere influenza la letteratura?Esiste una voce omosessuale o eterosessuale in letteratura?

E.W. Proust aveva molte appartenenze diverse: era ebreo da parte di madre, sicuramente omosessuale (non sembra ebbe mai relazioni con donne) ed era un borghese con un complicato rapporto con l’aristocrazia. In suoi scritti mondani sull’alta società all’inizio giocarono contro la sua carriera letteraria, perché era giudicato un “mondano” che si trascinava da un salotto all’altro. Penso che tutte queste appartenenze ambigue, non dichiarate, vissute in modo complesso e tormentato, abbiano partecipato a farlo sentire un outsider. C’è un libro recente, molto interessante, di Claude Arnaud, Proust contre Cocteau, che racconta la relazione di amicizia e di rivalità tra i due scrittori. Cocteau aveva un incredibile successo mondano. Era un grande amico della contessa di Chevigné, che servì da modello a Proust per la sua duchessa di Guermantes, e mentre Cocteau trionfava nei suoi salotti, Proust le scriveva lunghe lettere che lei leggeva distrattamente dicendo : “Che barba!”. Eppure per i posteri, Cocteau resta un autore leggero, che perdeva troppo tempo a correre dietro ai ragazzi e ad andare alle feste, mentre Proust prese la giusta decisione di sottrarsi alla mondanità, trasformando sangue in inchiostro. Fu un vero martire della sua arte. La sua scommessa era l’immortalità, e l’ha vinta: oggi Proust è probabilmente l’autore del XX secolo più conosciuto al mondo, più di James Joyce. Credo sia questo tipo di scommessa che determini il rapporto con la grande letteratura, e che il genere, in questa scommessa, non abbia nulla a che fare.


( il seguito su Micromega)