Friday, April 06, 2018

Una scatola di anguille


 This is my second episode of "Travelling with Dan". alas, in Italian.
                                                
La ricchezza della vita è fatta di ricordi, dimenticati.
                                                                        Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 13 febbraio 1944 

                                                                                                           
Il caldo mi perseguitava nelle scarpe. I piedi si gonfiavano, deformando il motivo traforato che decorava la tomaia bianca delle ballerine sportive con la suola di gomma che avevo comprato apposta per il viaggio. Faticavo a seguirti, ad ascoltare le tre damine in gonna corta, calze bianche e mocassini che ci facevano da guida nel parco di Nara. Era un caldo noto, milanese, un’afa piatta e costante. Qualcuno aveva inviato quelle tre signorine senza età, vestite da bambine, per farci visitare la città il giorno dopo il nostro arrivo. Indossavo pantaloni color ghiaccio e una maglietta verde che mi era sembrata così elegante quando l’avevo acquistata prima del viaggio e che ora mi stringeva dappertutto, gonfiata com’ero dal calore estivo giapponese, un caldo avvolgente che mi ottundeva la mente e m’impediva di ascoltare ciò che dicevi in quel tuo inglese incomprensibile a quelle signorine altrettanto incomprensibili.
Attraversare il giardino immenso di Nara mi riportava a una fatica infantile, estenuante e non udibile dagli adulti. I dettagli del mio corpo deformato dal calore si facevano sentire sempre più acuti, rendendomi insopportabile camminare, togliendo qualsiasi piacere alla visita. Una volta, da piccola - avrò avuto otto o nove anni - accettai un invito in gita dai nostri vicini di casa in campagna. Mi piaceva l’idea di andare sola con loro a visitare i giardini di Villa Carlotta, sul Lago Maggiore. Avevo chiesto in prestito a mia madre una sua lunga camicia scozzese cui avevo dato forma di vestito stringendola alla vita con una cintura di cuoio. Avevo indossato un vecchio paio di scarpe Superga bianche, senza calze, perché la caviglia nuda che fuoriusciva dal bordo liso della scarpa mi sembrava slanciasse meglio le mie gambe già lunghe di ragazzina allampanata. Ma le scarpe erano strette, il caldo nel giardino della villa mi aveva gonfiato i piedi e la pelle si attaccava alla tela delle Superga, creando piaghe dolorosissime. Io non dicevo nulla e andavo avanti a camminare contorcendomi. La vicina e le sue figlie mi guardavano imbarazzate. Lei mi chiese se dovessi andare in bagno, dato che il mio passo claudicante sembrava ritmare le contrazioni di un corpo che non ce la faceva più a trattenere qualcosa. Io dissi di no e gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Avevo voglia di piangere anche a Nara, avrei voluto chiedere alle signorine di lasciarci soli finalmente, di lasciarci riposare. La vita con te che tanto avevo voluto ora mi paralizzava, mi terrorizzava. Puntavo i piedi per restare ferma, dopo averti trascinato in una vita nuova, ero io che esitavo, che non ce la facevo a guardare lontano. La tua premura nei miei confronti era quella di un adulto gentile alle prese con una bambina impacciata, affettuoso e incapace di sentire ciò che lei sente. C’è un proverbio italiano che dice: “Nessuno sa dove stringe la scarpa tranne quello che la porta al piede”, come se il dolore muto e infantile del corpo a disagio fosse quello più incomunicabile.
Ricordo i cerbiatti nel parco. Li ricordo bene anche perché i disegni dei cerbiatti sono stampati in blu sul kimono bianco del Nara Hotel che conservo ancora. A volte lo indosso di mattina, quando dormo nuda, d’estate. Lo avevamo comprato all’hotel, prima di partire per Kyoto, un paio di giorni dopo il nostro arrivo.
Ci eravamo rivisti in primavera, dopo un anno difficile, e decisi di accompagnarti in Giappone. Eri venuto a prendermi a Milano, dove mi ero rifugiata dopo che quel nostro amore impossibile ci aveva travolto la vita a Parigi. Tu sposato, molto più vecchio di me, con una mente feroce e inarrestabile, una specie di animale selvaggio, fiero e insieme ferito al cuore. Io giovane, brillante e fanatica, disposta a infatuarmi per qualsiasi idea, qualsiasi causa, pur di uscire dall’immobilità della mia adolescenza milanese. Avevo perso mia madre pochi anni prima, ero scappata da Milano per non sentire il dolore, come i cani che corrono via veloce perché hanno ricevuto un calcio. Ti avevo eletto mio maestro, mia guida intellettuale e spirituale. Traducevo i tuoi libri, ma in realtà quel che cercavo in te, quello che mi conquistava, non erano le tue teorie, ma la tua forza mentale, il tuo spirito, quell’energia che, quando finalmente andammo a vivere insieme, sentivo circolare nella casa, la polvere magica che le fate lasciano cadere al loro passaggio: un’energia chiara, luminosa, quasi tangibile, un calore spirituale che insieme moltiplicammo in una formula magica.
Mi ricordo le passeggiate incantate a Parigi, mi sembrava che tutto si dorasse al nostro passaggio, come nelle favole che leggevo da piccola. L’inverno del nostro amore ci fu uno storico sciopero dei trasporti in Francia. La città era paralizzata, la gente andava in giro a piedi, con gli sci, le poche macchine che circolavano si fermavano per caricare i passanti che facevano l’auto-stop. Come in un racconto di Kleist, la popolazione intera sembrava sotto un incanto di bontà e di generosità. Una mattina in cui non avevo chiuso occhio tutta la notte per godermi quel sentimento di beatitudine che aveva invaso il mio corpo, la mia casa, tutto quello che mi circondava in quei giorni, uscii di casa all’alba, percorsi la rue de Mazarine fino alla Senna, e vidi sul Pont des Arts una lunga tavola da pranzo con una tovaglia rossa imbandita di croissants e dolciumi vari. Mi avvicinai curiosa, e un gruppo di ragazzi, anch’essi dall’aria beata, mi propose di unirmi a loro per fare colazione. Mi sedetti con loro stranita, le nuvole grigio-rosa della mattina passavano veloci sulla testa e intravvedevo un futuro luminoso, in cui avrei dovuto solo seguire il mio istinto, un cui la vita sarebbe stata mossa dal vento caldo del nostro amore.
Ci sembrava che quel disordine di tutto e tutti fosse una conseguenza del meraviglioso disordine interiore che provavamo. Nulla sapeva più stare al suo posto: le cose, le persone, mosse dalla forza magnetica dei sentimenti giganteschi che ci attraversavano, cambiavano posto, non stavano più ferme, come se in cielo cambiassero le costellazioni. Entrammo insieme da Shakespeare and Company, per comperare Middlemarch di George Eliot, che volevi farmi leggere. Il commesso ci guardò basito, non riuscì a emettere suono e ci porse il libro in dono con uno sguardo di gratitudine. Lo ringraziammo ridendo e uscimmo contenti nella luce fredda di quell’inverno indimenticabile.
Poi tutto si ruppe. Avevamo volato forse un po’ troppo alto, e il tonfo fu allora davvero forte, rimbomba ancora nelle mie orecchie. Tu partisti negli Stati Uniti, io non riuscii a raggiungerti, la mattina in cui dovevo partire sentii la mia vita e il senso di quell’amore dissolversi tra le mani. Mi misi a letto a piangere. Ti dissi che non avrei preso l’aereo. Feci le valigie in malo modo e lasciai Parigi con l’idea di non tornarci mai più. Rientrai a Milano, a casa di mia zia, e rimasi a letto intere settimane, con incubi atroci, bestie feroci che mi divoravano, visioni di dolori immortali ed eterni. La cacciata dal Paradiso, la caduta agli Inferi che stavo vivendo assomigliava ironicamente a tutte le letture della mia giovinezza, che d’un tratto prendevano un senso nuovo, come se mi fosse stato svelato il segreto dell’esperienza profonda della vita. Allora mi misi a leggere, seduta a letto. Leggevo Il Rosso e il Nero, leggevo Milton, leggevo Auden e La terra desolata di Eliot e per la prima volta capivo quella desolazione, capivo la crudeltà di Aprile, le parole non rimandavano a nient’altro che alla descrizione semplice di ciò che avevo vissuto. Fu proprio in Aprile che tornasti. Io cominciavo a riprendermi: mi ricordo un bagno al mare, in Liguria, in cui di nuovo mi era sembrato di avere un corpo vivo, e poi una notte con un amante gentile, che avevo amato distrattamente solo per terapia. Mi chiamasti e venisti a prendermi a Milano. Ti avevo detto che a Parigi non sarei più venuta. Dunque si ricominciava da casa mia. E dal Giappone.
Nara è una cittadina ancora in parte tradizionale. Fu capitale del Giappone tra il 710 e il 784 e conserva i tratti eleganti e il senso di superiorità che si respira in tutti i luoghi che furono al centro degli imperi o delle corti. Ricordo poco della passeggiata in città. Ricordo il blu profondo dei tessuti appesi all’entrata dei portoni e il marrone caldo delle case di legno; ricordo visite a templi tutti uguali e una salita interminabile fino a raggiungere una casupola di legno scuro, con panche semplici, un piccolo ristoro per turisti dove assaggiammo entrambi per la prima volta il gelato al tè verde con i fagioli rossi dolci. Il sapore ottuso e dolciastro dei fagioli creava un contrasto perfetto con il gusto lievemente amaro e astringente del tè verde, e i due colori, il verde chiaro del gelato e l’amaranto spento dei fagioli, riposavano lo sguardo abbagliato dal sole.
Prendemmo poi un treno. A Kyoto ci aspettava un elegante ryokan, albergo tradizionale giapponese. Il sole non entra mai direttamente nelle camere di un ryokan. La luce è riflessa, per evitare fastidiosi scintillii: l’estetica giapponese è opaca, come il metallo grezzo, non ancora lustrato. Ciò che brilla è violento, osceno: si dice che le geishe si facessero annerire i denti per evitare qualsiasi riflesso lucente sul viso. I tessuti sono rugosi, l’oro dei paraventi sempre patinato, verdastro, l’argento ossidato. Ad aspettarci, in camera, c’era una brocca d’acqua gelata e due semplici kuzu-zakura, dolcetti fatti con un impasto zuccherato di fagioli, avvolti elegantemente in una lunga foglia verde annodata. Sciogliesti il nodo per offrirmi il pasticcino con un gesto accurato. La camera era fresca, la luce riposante, ci sdraiammo sui futon disposti a terra, nell’ombra. Facemmo l’amore in silenzio, io ancora lontana, straniera a me stessa e a te, entrambi sorpresi dalla bellezza di quel rifugio, di quella tana accogliente. Mi ricordo poco, se non l’atmosfera sorda e ovattata della camera, e il gusto del pasticcino ancora in bocca. Poi facemmo un bagno, prima in camera, nella vasca di legno rettangolare, poi nelle grandi vasche comuni del ryokan, dove si condivide l’acqua con gli altri ospiti, in un rito di purificazione più che di pulizia.
La cena fu servita in camera da un’inserviente che entrava in ginocchio e scompariva dietro le quinte tra una portata e l’altra. Ci sedemmo per terra, sugli stessi tatami sui quali poco prima erano disposti i due futon. Lo spazio della camera è uno solo, come a teatro, e la scena cambia in continuazione. Dopo il sonno, o dopo l’amore, il letto scompare in un armadio. Sui tatami appaiono allora vassoi, porta vivande e cuscini per sedersi. Dietro le quinte delle pareti di carta di riso si alternano le ombre discrete degli inservienti, come se quell’intimità così perfetta, così protetta, fosse troppo esemplare per non essere osservabile dagli altri. Ceniamo imbarazzati e contenti, sicuri di risultare goffi nei modi a quegli osservatori sparsi e silenziosi, eppure già trasformati dalle posture nuove, dal bagno rituale, in creature marziane e purissime.
A Kyoto, il mondo parallelo giapponese ci stava già conquistando. Visitammo musei, teatri, templi, facemmo il corso accelerato per turisti per apprendere la cerimonia del té, ci comprammo cianfrusaglie e chincaglierie di tutti i tipi. Decidemmo solennemente che il bagno sarebbe stato alla giapponese per sempre: prima ci si striglia sotto la doccia, insaponandosi così da eliminare qualsiasi sporcizia, poi si fa colare l’acqua del bagno nel quale si entra già perfettamente puliti. L’idea di tornare a quei bagni torbidi, pieni di sapone squagliato, di capelli e di schiuma, ci sembrava semplicemente immonda. In un tempio, tu feci scrivere il nome in giapponese di tuo figlio su un foglio che sarebbe stato incollato a una tegola e lì sarebbe rimasto per sempre. Quel figlio poi se ne andò a stare in Oriente, chissà se un giorno passerà di lì, chissà se, per caso, viaggiando, si troverà a ripararsi dal caldo sotto il tetto dove c’è scritto il suo nome.
Il tempio era immerso nel verde. Facemmo una passeggiata nel bosco, il caldo umido mi batteva di nuovo nella testa e nelle scarpe. Ci sedemmo in un ristoro in mezzo agli alberi. Isamu, che ci accompagnava, ordinò oudon freddi, che arrivarono in bellissime scatole rettangolari, accompagnati da eleganti ciotole laccate di rosso, ricolme di cubetti di ghiaccio. Imbarazzati, aspettammo il gesto di Isamu per sapere come mangiare quegli strani spaghetti gelati. Isamu prese con le bacchette gli oudon già freddi per disporli nella ciotola di ghiaccio. Poi li immerse nella salsa di soja con cui erano serviti e finalmente avvicinò le bacchette alla bocca. Facemmo lo stesso. Il ghiaccio intanto cominciava a sciogliersi per il caldo, trasformandosi in una meravigliosa zuppa gelata in cui la pasta veniva immersa una prima volta, come in un rito di purificazione, per poi essere immersa nella soja e infine gustata. Il freddo bagnato degli oudon sulla lingua e sul palato mi prese tutti i sensi, come un piacere sensuale al quale non ero preparata. Il silenzio intorno divenne d’un tratto evidente, così come i colori forti dei piatti in contrasto con il cibo incolore. Il mio corpo si liberava dalla stretta del caldo, e mi sembrò quasi di essere dentro, per qualche secondo, a un altro sentire. Ci guardammo complici e contenti.
Kyoto è circondata di colline verdi. I confini urbani restano percepibili, anche se, a viaggiare in macchina, il paesaggio giapponese sembra quasi padano: fittissimo di costruzioni, una città ininterrotta circondata da qualche zuccotto verde di alberi. Una volta, in auto, andando verso Tokyo, Isamu si fermò sul ciglio di un’autostrada trafficata. Ci fa scendere dalla macchina. Intorno a noi c’è solo un paesaggio uniforme di sobborghi urbani, un misto di torri e fabbriche, attraversati da autostrade che s’innescano una dell’altra e si attorcigliano come serpenti grigi. Isamu mi prende delicatamente il viso tra le mani, costringendomi a dirigere lo sguardo dove vuole lui. Più lontano, s’intravvede un monte con la cima innevata, come nei quadri di Hokusai, e proprio da lì, da quel triste spiazzo dell’autostrada, se fisso il monte, la traiettoria della mia vista sarà intercettata da alcuni rami di pesco fioriti. E così, nel mezzo di quel non-luogo tetro e banale, sorge una vista sublime, precisa e concentrata, una linea diretta con la bellezza di un solo punto nell’orizzonte. L’estetica giapponese è nel dettaglio delle cose, dell’intensità del mettere a fuoco un particolare, staccandolo dal resto. Non è l’estetica europea estensiva del paesaggio a perdita d’occhio, l’Europa verde dei campi e delle vigne. E’ una bellezza delle cose, degli oggetti, come se l’occhio si potenziasse in quella relazione visiva intensissima con una sola cosa. Mi ricordo di un film, Hana-Bi, dove un killer innamorato porta la moglie malata di cancro a vedere delle cose belle prima di morire, e così, tra una sparatoria e l’altra, riesce a trascinarla a vedere un aquilone, un albero, una nuvola, ma attenzione: non le nuvole, quella nuvola, solo quella lei si porterà con sé nell’altro mondo.
Una cosa che mi piaceva di quel viaggio insieme era il tuo modo gentile di farmi sentire piccola e stupida, trasportata da una parte all’altra del mondo come una bambina dentro a una valigia, senza capire bene cosa mi stesse succedendo. A Kyoto mi facevi da guida come se conoscessi la città da sempre. Eri tu l’invitato d’onore in Giappone, io una semplice, sconosciuta accompagnatrice, una “insignificant other” come ti dicevo scherzando, per di più imbarazzata dal mio ruolo di amante legittima. L’imbarazzo mi ottundeva il cervello. Mi sentivo in uno stato d’intontimento permanente, come se non sapessi dove mettermi, se non vicino a te. Tutto mi sembrava enorme, smisurato, la tua sapienza, la tua celebrità, il mondo, tutto quello che avrei dovuto sapere per vivere in un mondo così grande e inesauribile. Allora meglio non guardare, non provare a fare nulla, solo nascondersi dietro di te, rannicchiarsi contro di te, lasciarti decidere, lasciarti parlare, con quel tuo inglese incomprensibile, io zitta, piccola. Mi dico a volte, solo tu mi hai fatto stare zitta, solo tu mi hai fatto sentire piccola, io che mi muovo in questo corpo gigantesco, che non ho mai avuto misura in nulla, che sono scappata sempre perché dovunque fossi crescevo troppo e, come Alice nel paese delle meraviglie, cominciavo a distruggere quello che mi stava intorno ingigantendomi…E invece, proprio a Kyoto, mi stringi di colpo per strada, al semaforo, con quel tuo fare schietto e la tua immensità discreta e naturale, mi stritoli tra le tue braccia sudate, la camicia di lino blu che porti è incollata alla pelle, e io mi incollo al tuo petto, sicura che solo lì, così vicina, non mi succederà mai nulla di male, perché in quel momento io so che sei abbastanza grande per contenermi tutta, lo so con una certezza che mi scioglie il cuore.
Lista delle cose da ricordare:
Gli oudon gelati
La montagna tra i rami di pesco
Il dolcetto del ryokan
Il gelato al tè verde con i fagioli rossi
Il bacio per strada, a Kyoto
A Tokyo ci accoglie nella hall dell’hotel Lucas, un linguista inglese che ha sposato una giapponese e da anni vive in Giappone. Ha l’aria sperduta come noi nella città gigantesca. Cerchiamo un ristorante. Lui, nella zona, non ne conosce. Noi ancor meno. E’ come se fosse atterrato sul pianeta sbagliato. Tokyo è fatta di quartieri tutti uguali al nostro occhio occidentale, che si ripetono come cloni: una città di satelliti giganteschi e indistiguibili, come quelle stazioni spaziali dove atterrano gli eroi di Star Wars. Andiamo a caso per le strade, guardando in alto, perché a volte i ristoranti migliori sono nascosti nei grattacieli, al quinto, sesto, decimo piano. All’entrata dei palazzi guardiamo le scritte in giapponese e i disegni di sushi, di oudon e di tempura. Spesso, se il ristorante è in basso, ai disegni si affiancano modelli di plastica perfetti dei piatti che saranno serviti, come in un gioco di bambole in cucina. Mi piacciono quei giocattoli alimentari, mi ricordano l’uovo al tegamino di plastica che tenevo nello sportello del Dolce Forno, il piccolo forno giocattolo che condividevo con mia sorella per preparare merende prelibate alle nostre bambole.
Lucas è perso, si annoia, gli hanno ordinato di accoglierci ma non ne ha nessuna voglia, vorrebbe essere a casa a bere tè verde con la sua moglie giapponese, non sa cosa dirci, non gli importa nulla di chi siamo e cosa facciamo là, forse è per quello che è venuto a vivere così lontano dall’Europa, per essere lasciato in pace. Sarei capace io? Sarei capace di lasciare tutto e andare a vivere in un posto davvero lontano, un luogo marziano come questo, giusto per amore di un dettaglio, che so, per la passione del tè verde? Lucas ha detto proprio così, che è il tè verde che l’ha fatto restare in Giappone, non quello che si trova ovunque anche da noi ormai, ma il matcha, quella specie di polvere verde rana, che si scioglie con un frustino di vimini nell’acqua caldissima ma non bollente, la stessa polvere con cui si fanno gelati e frappé, con un colore che è più inebriante del sapore. Sa di tè e di caffè insieme, è un gusto opaco, asciutto e avvolgente, come una carta preziosa.
Prendo io la decisione, Lucas è troppo impacciato, conosco quel genere di accademici, rischiamo di camminare a vuoto per tutta la sera. Entro in un palazzo seguendo un’illustrazione di tempura, prendiamo l’ascensore fino al ventinovesimo piano. Il tempura bar è di apparenza banale, senza uno stile particolare. Non c’è odore di fritto, buon segno. Ci servono in fretta, le verdure sono croccanti, la frittura è solo un involucro, uno scrigno che contiene in uno stato perfetto le fettine di zucca arancioni, i gamberi rosa, le zucchine striate di verde. Il conto è carissimo, più di trecento dollari. Pago io, imbarazzata di aver scelto un posto così caro. Bisogna saper scegliere i tempura bar se si vuole spendere poco. Non si paga caro il cibo, si paga la purezza dell’olio. I buoni tempura bar hanno olio buono e pulito, scaldato per la prima volta. Più si scende di qualità, più l’olio è scaldato e riscaldato. C’è addirittura un mercato dell’olio impuro: i buoni tempura bar vendono a quelli meno buoni l’olio di seconda mano, e così via in una catena di impurità in discesa che ricorda all’inverso la purezza ascendente del rituale del bagno giapponese: l’acqua sempre più pulita e l’olio sempre più sporco.
Eppure valeva la pena: valeva la pena di pagar cara quella purezza, quell’assenza, un lusso infinito in questo mondo ormai saturo di troppe cose, unto e grasso, mal digerito. Mi innamorai di te per la stessa ragione. Perché eri essenziale, non c’era nulla di troppo, un’austerità esemplare, io piena di ninnoli e di paramenti inutili, e tu così puro davvero, così vero. Io tutta costruita nella mia milanesità folkloristica, la signorina per bene, la sciura borghese che sa apparecchiare la tavola, che sa che le forchette vanno a sinistra e i coltelli a destra, che ha norme e misure per tutte le cose inutili, inessenziali, discutibili. Che me ne faccio delle forchette a sinistra e dei tovaglioli piegati sotto il coltello nel paese delle bacchette e degli oudon sul ghiaccio? Che me ne faccio delle regole da cui sono scappata e alle quali mi sono aggrappata come un naufrago alla sua zattera una volta lontana dal mio mondo? Ma tu mi guardavi così da lontano, guardavi giù giù nella terra degli umani quella ragazzina che ero, viziata, sbagliata, tutta tesa in un artificiale tentativo di distinzione, distinguersi dal mondo da dove venivo, aggiungere un che di esotico alla parte della ragazza milanese, un esotismo che però avrei potuto spendere solo a casa, come una piuma sul cappello, o un modo diverso di allacciarsi il cappotto. Quando ci incontrammo a Parigi avevo poco più di vent’anni, e quel tuo sguardo vero su di me, sincero fino all’osso, mi aveva fatta rinascere proprio lì, davanti a te. Dopo anni a cercare la postura giusta, la distanza giusta, eccoti lì davanti, senza posa, a guardarmi dritta dentro, come guardavo io la montagna giapponese tra i fiori di pesco, giusto la bellezza dell’essenziale. Sono essenziale? Io? Ho un’essenza? Chi sono io, che cosa c’è di me che può perdurare uguale a Parigi, o a Milano, o qui in Giappone tra i rami di pesco in fiore e i grattacieli di Tokyo?
Da allora non ti mollai più un istante. Volevo sentire sempre quello sguardo su di me. Solo con te ero vera, ero ciò che volevo essere, solo con te il mondo si sarebbe aperto all’infinito, l’avrei conquistato, tenuto in una mano, l’avrei guardato anche io da lontano come te, come due marziani purissimi avremo girato il mondo intero senza atterrare mai più.
Isamu ci porta alle terme, in montagna. Indossiamo entrambi il kimono e degli impossibili zoccoli, una tavoletta liscia alla quale sono incollati due pezzetti di legno a mo’ di tacco, uno davanti e uno dietro. Camminiamo come asini impacciati avanti e indietro per la stazione termale. Credo di aver capito che una lieve mancanza di destrezza sia una qualità in Giappone. Bisogna camminare scomodi, con le scarpe strette, non sapere dove mettersi, non essere mai diretti, sfacciati, allungare timidamente la mano con il proprio biglietto da visita girando lo sguardo, evitare le strette di mano franche all’americana, evitare il passo deciso, sicuro, come se solo nell’incertezza ci fosse eleganza. Forse per questo ai Giapponesi piacciono le donne bambine, con le gonne a pieghe e i calzettoni corti. Perché anche le bambine sono impacciate, a volte goffe, e vulnerabili.
A cena da Isamu, sua moglie resta in cucina. Ha preparato tutto: la zuppa calda, gli antipasti, il pesce affumicato. C’è un musicista tra gli invitati che racconta la sua vita di concerti e la durissima scuola di pianoforte che sta facendo subire a sua figlia perché diventi una grande concertista. Così forse se ne andrà, penso. Così non dovrà restare in cucina mentre il marito intrattiene gli ospiti in salotto. Così se ne andrà lontana da quel padre megalomane ed esigente. Durante la cena, il Giappone mi appare piano piano sotto un’altra luce, come un mondo duro, arcaico, sul quale è calata una mano di modernità senza che davvero il paese sia diventato moderno. Quelle donne bambine e silenziose sono il simbolo della sua arcaicità. Forse anche tutta quella pulizia ossessiva, e l’assenza totale di differenze etniche: in Giappone tutti sono Giapponesi. Mi ricordo un racconto di Kenzaburo Oé, di un paracadutista nero americano catturato in un villaggio del centro del Giappone, e lo stupore dei bambini del villaggio attorno a quello strano essere dalla pelle scura e i denti luccicanti, troppo bianchi. Alla fine il paracadutista è fatto a pezzi, massacrato in un rituale di catarsi collettiva dal diverso.
Vorrei viaggiare per sempre con te, vorrei non atterrare più, come quel paracadutista, sento che la salvezza è solo se resto in volo, se non m’immergo più in nessun mondo, né quello piccolissimo dal quale provengo e di cui conosco tutto, né negli altri mondi immensi, sconfinati, lontani, diversi, dove tu mi porti e ai quali non appartieni mai. Di dove sei tu? Da dove vieni? Chi rompe l’incantesimo della sua origine, chi non si identifica più nella fitta boscaglia così familiare del primo luogo, o chi non si è mai identificato, o ancora chi quel luogo non l’ha mai avuto, forse è condannato a esser massacrato ovunque, come il paracadutista di Oé. Oppure può salvarsi se resta sempre in aria, se non scende a terra. Tu sei un luftmensch
Ora ricordo quegli anni con te proprio così, come su un’astronave. Ti dicevo che casa nostra a Parigi era un’astronave, dove ci fermavamo di tanto in tanto a riposare, prima di riprendere i nostri viaggi. L’importante era non atterrare mai. Perché me ne sia andata resta un mistero. Avevo bisogno di tornare giù? Di ritrovare la boscaglia fitta? Mistero. Anche perché non la ritrovai mai più.
Isamu ha un segreto. Un ristorante non lontano dall’università dove si mangiano le anguille. Ne avevamo mangiate anche a Comacchio, sull’Adriatico, quella strana città spettrale, con i canali veneziani sui quali galleggiavano anatre di legno. E’ la specialità della città. Ma l’anguilla giapponese è molto più prelibata. E’ un pesce grasso l’anguilla. Contrasta con la cucina giapponese così epurata, essenziale. Con un sorriso sornione, Isamu ci conduce al ristorante, dopo la tua ultima conferenza all’università. E’ un buongustaio e un uomo che sa vivere. E’ sorridente e di buona conversazione, si vede, anche se parliamo poco. Il ristorante è in ombra, le finestre piccole danno su un bellissimo giardino di aceri. E’ un luogo fresco, una specie di tana, dove ci sentiamo comodi e al sicuro. Parliamo male, lui nel suo inglese incomprensibile, tu nel tuo inglese incomprensibile, io silenziosa, come una moglie giapponese in cucina, non so cosa dire, sto a guardare. Eppure è una buona conversazione. Condividiamo qualcosa. Il fresco, forse, la tua lezione che abbiamo appena ascoltato. E l’attesa delle anguille. Beviamo saké freddo, e finalmente dalla cucina escono tre scatole nere di lacca, con incisi motivi marini in color oro. Luccicano appena nella penombra e ci vengono posate davanti chiuse, come i regali dei Re Magi. Isamu sorride, il suo viso si illumina, ci guarda con intesa e lentamente alza il coperchio della scatola. Si intravvede un colore bruno, di caramello. Le anguille sono là, uniformi, come soldatini, sotto un manto caramellato che fa venire l’acquolina in bocca. Con le bacchette faccio un buco in quel manto, e sento che affondo in una carne bianca e tenera. Portiamo tutti e tre le bacchette alla bocca nello stesso momento e ci guardiamo: la scatola delle meraviglie è sotto i nostri occhi, scura, discreta, e il sapore denso di quel pesce serpente si insinua nei corpi di tutti e tre, nelle facce, nei sorrisi. Piano, piano gustiamo l’anguilla, è un piacere segreto e fortissimo, bisogna stare in silenzio. Quante parole inutili a volte. Quando tutto ciò che c’è di bello al mondo può stare dentro a una scatola. Ti guardo, in silenzio. E’ vero. Sei l’unico uomo che è riuscito a farmi stare zitta.
Lista delle cose da ricordare
Il tè verde
L’acqua calda delle terme in montagna
Un ristorante popolare a Ginza, al tramonto, dove mi raccontavi dell’Africa e di te
Una risata per strada dopo il tempura bar
Una scatola di anguille