Friday, September 19, 2008

La fine del convegno



Assorta nei miei pensieri durante un’interminabile sessione pomeridiana di un recente convegno, rifletto sulla saga di Star Wars, il mio film preferito. Ecco la chiave filosofica di quella mia passione cinematografica : siamo uomini del pleistocene, con istituzioni medievali e tecnologie futuriste ! Mi guardo attorno : gli astanti fanno fatica a tenere gli occhi aperti, vittime della stanchezza animale della digestione del pranzo consumato a mezzogiorno. Il rito delle presentazioni Power Point va avanti spietato : i conferenzieri si alternano sulla scena, davanti agli occhi vacui e a mezz’asta del pubblico. L’atmosfera è pesante, manca l’aria, la noia insopportabile. Ad un tratto, un sussulto : il pubblico si accende davanti allo scorrere di un video. Ma la scossa è breve e il sonno ripiomba rapidamente sulla platea. Alla pausa caffé i partecipanti si rianimano, si inseguono l’un l’altro, si scambiano biglietti da visita. Le conversazioni sono concitate, non bisogna perdere nemmeno un istante perché dopo saremo riassorbiti dal rito medievale della pubblica declamazione e non potremmo più scambiare nemmeno un sorriso.

Rientro in sala affranta all’idea di altre due ore di oratoria. Accendo il computer per restare sveglia, ed ecco che si apre una breccia di speranza: la connessione WiFi funziona! Comincio freneticamente a potenziare il mio ascolto: cerco on line informazioni su quello che l'oratore americano racconta, apro i siti che sta mostrando, insomma, sono viva di nuovo, e partecipo attivamente alla creazione di un sapere realmente condiviso. E, dato che immagino che il professore in questione una connessione ce l’abbia anche nel suo ufficio, mi chiedo: perché abbiamo fatto complessivamente più di seimila kilometri ad altissimo costo per trasmetterci informazioni che avremmo potuto scambiarci istantaneamente e a costo zero seduti nelle comode poltrone dei nostri uffici? Di colpo una certezza mi assale, il disincanto epistemologico è inevitabile: il convegno accademico non ha più alcun senso. E’ il sopravvivere di un antico rituale a mezzi tecnologici che ne hanno spazzato via ogni funzione, o quasi.

Ogni innovazione tecnologica mette in questione legittimazioni istituzionali esistenti. L’invenzione della stampa, e la conseguente diffusione della Bibbia stampata nel XV secolo, misero in questione il monopolio della Chiesa sulle sacre scritture, partecipando così all’avvento della Riforma. Un cambiamento di formato nella produzione e nella diffusione del sapere può rendere evidente l’obsolescenza di un’istituzione la cui funzione era stata proprio fino a quel momento di produrre e diffondere quel sapere. Così è successo per i convegni nell’era di Internet. Più del 60% del budget della Commissione Europea per la ricerca in scienze umane è consumato per viaggi e rimborsi di hotel : una mostruosa agenzia di viaggi che assorbe come un buco nero i fondi destinati alla ricerca. Il tempo allocato ad ogni intervento è comunque troppo poco, la comunicazione spesso difettosa, la sottodeterminazione tra la succinta presentazione e l’effettivo contenuto della ricerca immensa. La sessione di domande è quasi sempre mal gestita : la timida studentessa esita ad alzare la mano davanti al vecchio collega dell’oratore che si concede il solito show polemico. Le domande vengono fraintese, le risposte frammentate, il moderatore interrompe quasi sempre la discussione prima che si sia arrivati al punto con una frase di circostanza : « Forse è meglio continuare questo dibattito durante la pausa caffé ». Ma alla pausa caffé si farà tutt’altro, anzi, si farà finalmente quello che i convegni oggi hanno l’unica funzione di fare : networking.

Ma allora perché questo spreco di risorse, i pasti indigesti, le teste che si piegano sul mento, quando oggi, a basso costo, potremmo condividere risorse, discuterle, commentarle, valutarle insieme, fare tutto il lavoro che rende i convegni pesanti, noiosi e costosi per poi invece ritrovarsi leggeri e gravidi di idee per un evento sociale di vera conversazione e condivisione ? Un qualunque blog su WordPress permette di discutere articoli on line, mostrare video, chattare e commentare il lavoro scientifico degli altri. Il filtraggio collaborativo di siti come CiteULike permette di condividere risorse bibliografiche, sapere istantaneamente chi legge gli stessi articoli che stiamo leggendo e costruire comunità di conoscenza nuove, più appropriate e veramente corrispondenti ai nostri interessi. La rivoluzione di Internet è spesso vista come un rischio per la comunicazione scientifica « seria », un’introduzione di troppe voci nel vecchio rituale del consesso degli esperti. Ma se riuscissimo a utilizzare queste risorse per rendere efficiente il sapere, per condividerlo anche nella stretta comunità degli accademici, facendone un uso intelligente, forse questo contribuirebbe anche a cambiare l’immagine di un’accademia vecchia e legata a rituali obsoleti e fare evolvere dolcemente, senza rivoluzioni, le istituzioni ormai esangui del sapere.

La figlia della gallina nera




My new book, an autobiographical lexicon on the history of my Milanese childhood, is now out in Italy. Here's a review appeared in Il Corriere della Sera two days ago.

Elzeviro Un «lessico famigliare» milanese

VEDI ALLE VOCI BRU BRU E COCORITE

«Echi sono io? La figlia della gallina nera?» è un modo di dire che i lettori di certo conoscono: sottolinea un sopruso o una negligenza che in qualche modo ci riguarda. È il titolo del libro curioso e avvincente di Gloria Origgi, filosofa italiana che vive a Parigi (appunto La figlia della gallina nera, edizioni Nottetempo, pagine 125, 12,50). È una nuova specie di lessico famigliare che da privato fa presto a diventare pubblico, un' opera oltremodo femminile, come sottolinea anche la dedica «Alla memoria di mia madre. Per la memoria di mio figlio». «Le parole si portano dietro non soltanto la nostra storia, ma la storia di un' epoca, di un ambiente sociale, di una cultura», avverte l' autrice; «ho cominciato a scriverle e, pian piano, sono riemerse le persone, le atmosfere, i dolori della mia infanzia milanese». L' infanzia - e quindi la città - è quella degli anni Settanta, come si evince da una delle rare date (manca anche quella anagrafica dell' autrice) presente nella voce «Pigotta», la bambola di pezza confezionata dalla nonna per il Natale 1974: «... Non credevamo a Babbo Natale. Ma il laicismo non toglieva nessun incanto a quei natali all' alba, con mia madre addormentata in vestaglia e io e mia sorella stordite dall' ebrezza di scartare decine di pacchetti che ricoprivano il salotto di via Montenapoleone». Era, la sua, una Milano ricca, borghese. E anche «Comunista»: «Mio padre era iscritto al Pci dal 1948. Ascoltava jazz, frequentava le cineteche, leggeva Vittorini Durante una manifestazione operaia fu preso a manganellate in via Manzoni e salvato dal padrone del Don Lisander, il suo ristorante preferito. Lasciatelo stare, è il dottor Origgi!, e questo "dottor" l' aveva fatto identificare per un semplice esponente della borghesia rossa milanese». E così tra «Bru bru», «Cocorite», «Cose turche», «Esproprio proletario», «Mammalucco», «Signorina tu mi stufi», «Cosa mi guardi con quella faccia da sperduto di Allah?», «Refugium peccatorum» si arriva alla voce «Sotto quella dura scorza batte un cuore di pietra». Era il motto prediletto della madre, che rovesciava la tendenza del libro «Cuore», «allora dominante nella morale italiana della mia infanzia, per cui anche nel profondo dell' anima di un nazista a guardar bene batte un cuore d' oro». Lei sosteneva invece che perfino «la Milano-dal-cuore-in-mano decantata dai vecchi milanesi era più che altro un mito consolatorio per gli abitanti di una città spietata». E aggiungeva che la sua descrizione più appropriata si trova forse nel libro del grossetano e anarchico Bianciardi La vita agra. E noi la ringraziamo per averci ricordato un libro che oggi, dopo quarantasei anni, è ancora di scottante attualità, e uno scrittore che «pagò con la vita quella mancanza di cuore tutta lombarda».

Giulia Borgese

Pagina 43
(16 settembre 2008) - Corriere della Sera