Draft. Copyright Micromega 2010. Do not quote without permission.
I dubbi sull’eccessivo lulismo delle elezioni brasiliane sono stati dissipati al primo turno: domenica 3 ottobre Dilma Rousseff, candidata del PT (Partito dei lavoratori) appoggiata da Lula, non è passata al primo colpo: 46,8% dei voti, contro i 32,7 del socialdemocratico José Serra, suo principale avversario, entrambi spiazzati dall’inaspettato successo di Marina Silva, la candidata verde che otteneva nei sondaggi non più del 10% e che si ritrova con il 19,5% dei voti. Anche se Marina è stata eliminata per il ballottaggio del 31 ottobre, che ha portato la vittoria alla lulista Dilma, è lei la vera vincitrice, è lei che rappresenta il Brasile della nuova generazione, dei giovani ecologisti e del popolo di Internet che ha contribuito in massa alla sua campagna elettorale. La generazione del cambiamento, che è diventata grande sotto Lula, ha visto pregi e difetti del presidente operaio e non si riconosce evidentemente più solo nella lotta di classe e nella presa di distanza dalla dittatura: vuole valori nuovi, l’ecologia, lo sviluppo sostenibile, la trasparenza politica. Marina è stata insomma la candidata dei bobos (bourgeois-bohème), come si direbbe in Francia, della generazione imborghesita dalla crescita economica, ma non incattivita e ripiegata nella mentalità piccolo borghese del commerciante che ha paura di pagare troppe tasse o di farsi rubare il lavoro dallo straniero. Insomma, se i bobos francesi devono farsi andare giù un presidente come Sarkozy che ha fatto dello “scudo fiscale” la bandiera della sua troppo lunga presidenza, i loro consimili brasiliani possono ancora sperare in politici che esprimono idee e valori e che prendono il 20% dei voti.
Dilma Rousseff è comunque passata il 31 ottobre con il 56% dei voti. A 63 anni, è il nuovo presidente del Brasile e il primo presidente donna. La sua storia è molto differente da quella di Lula: figlia di Petar, emigrato bulgaro avvocato e comunista, e di Dilma Coimbra Silva, di una famiglia di allevatori di bestiame del Sud, Dilma cresce in un contesto benestante e colto. Il padre è un gran lettore: scappato dalla Bulgaria, ha vissuto a Parigi prima di arrivare in Brasile e trasmetterà alla figlia la passione per la letteratura e la filosofia francese: Zola, Proust, Sartre, nomi che i nostri politici stenterebbero a saper pronunciare. Dilma fa studi brillanti nel liceo più esclusivo di Belo Horizonte, la capitale del ricco stato del Minas Gerais. Il colpo di stato militare del 1964 è la svolta verso il militantismo radicale per questa giovane idealista. Entrata nel 1967 alla facoltà di economia, milita in un gruppo trotskista, favorevole alla lotta armata, e sposa un altro militante, il giornalista Claudio Galeno Linhares. L’indurimento del regime militare nel 1968 fa entrare la coppia in clandestinità. Nascosti a Rio, i due si divorzieranno dopo qualche mese. Sotto falso nome, Dilma si unisce al gruppo VAL-Palmares, rapina banche, ruba veicoli e, il colpo più bello, riesce a rubare due milioni e mezzo di dollari all’amante di un governatore corrotto nella cassaforte di casa sua. Riceve anche un’istruzione militare in Uruguay per due settimane, ma confessa di non aver mai sparato: solo di avere appreso a montare e smontare un fucile. Arrestata nel 1970 a San Paolo con un’arma sotto la giacca, è arrestata e torturata. Uscita dopo quattro anni di prigione, si installa nello stato del Rio Grande do Sul, a Porto Alegre dove ha una figlia nel 1974, con il suo nuovo compagno, il comunista Carlos Araujo. Carriera amministrativa locale, diventa ministra dell’energia del Rio Grande do Sul nel 1999. Nel 2001 la sua carriera decolla a Brasilia, insieme a Lula. Sarà il suo braccio destro durante tutte le sue campagne, e il suo primo ministro “ombra” nel ruolo di capo della Casa Civil, gabinetto della presidenza. Responsabile del programma Minha Casa minha vida di riconversione delle favelas, Dilma è considerata una politica ferma e responsabile, lontana dalla corruzione che ha comunque toccato pesantemente anche il governo Lula. Il suo più grande limite: non essere mai stata eletta prima d’ora, ossia, non essersi misurata direttamente con la democrazia del processo elettorale. Laddove la democrazia è ancora una parola che fa sognare, questa è una mancanza seria. Ma una cosa è certa: la meglio gioventù brasiliana è cresciuta meglio della nostra: è maturata senza negare il senso delle proprie lotte, riconoscendo i suoi errori, ed arrivando al potere con ideali nuovi.
Ora Dilma dovrà gestire l’eredità di Lula, saper essere autorevole ed autonoma dall’onnipresente ex-presidente e correggerne gli errori.
Ma quali sono gli errori che gli elettori imputano al lulismo, e che hanno provocato il successo della candidata verde al primo turno e il 21% di astensioni al secondo? Molti dei mali del governo Lula sono i mali di qualsiasi amministrazione che resta al potere a lungo: otto anni sono troppi, ci vuole rinnovamento. E in più, i vecchi mali brasiliani del voto clientelare e della corruzione. L’impunità del sistema politico brasiliano è tale che nel giugno del 2010, dopo una petizione popolare sostenuta da più di tre milioni di elettori, è stata votata una legge anti-corruzione, ficha limpa, che stabilisce che qualsiasi politico che sia stato condannato in prima istanza da un collegio di magistrati per corruzione, acquisto di voti o malversazione, non potrà essere più candidato per gli otto anni successivi, roba da far sognare a casa nostra, dove pure gli imputati di associazione mafiosa scorazzano liberamente per i corridoi di Montecitorio. Il carisma di Lula e la sua trasparenza non si propagano per magia sull’intero partito dei lavoratori, e meno che meno sull’intera politica brasiliana, che è soprattutto una politica di governatori di stati relativamente indipendenti. Scopro dunque a Porto Alegre che il governatore dello stato del Rio grande do Sul eletto al primo turno, Tarso Genro, del partito di Lula, non è indenne da persecuzioni politiche dei suoi avversari, intimidazioni e clientelismi. La corruzione è un male endemico del Brasile, mi dice l’ex ambasciatore francese Alain Rouquié, che è anche il frutto della lunga e complicata costituzione (più di 250 articoli) adottata nel 1988. Come ogni paese che esce da una dittatura, la costituzione del Brasile democratico cercò di decentralizzare il potere e dare più autonomia agli stati federali. Inoltre, a differenza della maggior parte delle costituzioni, quella brasiliana contiene anche i principi della legge elettorale, che stipula l’elezione uninominale maggioritaria a doppio turno per i senatori e una complicata proporzionale per i deputati, in modo da evitare un esecutivo eccessivamente forte, ma con la conseguenza di indebolire i governi, vittime di alleanze fragili e costretti a molti compromessi. Il PT (partito dei lavoratori) infatti non ha una maggioranza chiara nel paese, e per formare un governo, deve scendere a patti con miriadi di partitini che chiedono il loro tornaconto, insomma, la solita solfa che conosciamo anche troppo bene. Non dimentichiamo che anche la costituzione italiana è il frutto di una riflessione post-dittatura e ne porta le tracce: il potere giudiziario così indipendente in Italia e per questo così odiato dai nostri politici da galera, è la conseguenza di una costituzione che voleva un controbilanciamento dei poteri per evitare un esecutivo troppo forte.
Così Lula ha retto otto anni tra compromessi di ogni tipo politici ed economici, con una coalizione multipartitica che doveva far stare insieme forze politiche spesso incompatibili. Scandali ce ne sono stati, e spesso troppi compromessi, abbastanza almeno per fare dimettere Marina Silva da ministro dell’ambiente e far uscire dal partito un certo numero di politici, come i fondatori del Partito Socialismo e Libertà che ha presentato candidato alla presidenza il vecchio socialista Plinio Arruda Sampaio.
In più, il socialismo di Lula, lamentano tanti, si è nel tempo trasformato in paternalismo: alla parola povo, “popolo”, onnipresente nei suoi primi discorsi e nelle prime campagne, si è pian piano sostituita la parola “povero”: aiutare i poveri a uscire da una condizione di disperata miseria e ignoranza per cercare di colmare il solco enorme che separa ricchi e poveri in Brasile, uno dei paesi con il coefficiente Gini, che misura le ineguaglianze, più alto del mondo.
Di qui vari programmi, come il Minha casa Minha vida, gestito dalla stessa Dilma Rousseff, o il Bolsa Familia, che garantisce un reddito alle famiglie povere a patto che i genitori scolarizzino i figli, li vaccinino e che le future madri si sottopongano alle visite pre-natali. Ovviamente di queste politiche hanno beneficiato maggiormente gli stati del Nord povero, creando un forte risentimento nell’industrioso Sud. Inoltre, il fallimento della riforma agraria, ostacolo secolare di un Brasile che si porta la traccia della sua storia latifondista, è stata forse la più grande delusione dei suoi sostenitori: la terra resta nelle mani di pochi, dei grandi proprietari terrieri, delle multinazionali che governano con polizie speciali gli enormi territori delle fazende.
Certo, per chi sognava con Lula la vera politica come presa di coscienza di classe, come ruolo attivo e responsabile dei cittadini, qui siamo ben lontani, e ci ritroviamo in un quadro di gestione macroeconomica molto classico in cui i comportamenti collettivi si modificano con incentivi e punizioni, e buonanotte all’autocoscienza. Ma chi sogna ancora la politica così? Forse il mio amico Pietro Gallina, che la politica vera la faceva in Italia tanto tempo fa, e che a Salvador ci venne otto anni fa ad aprire un centro culturale italo-brasiliano (http://www.icbie.com/) con fondi suoi e ben poco sostegno sia dal Brasile che dall’Italia, dove offre corsi di lingua, di teatro, di musica e danza. Esco con lui e con il suo studente Ricardo, che conosce a memoria i film di Pasolini. Non aveva mai letto un libro prima di incontrare Pietro e ora mi cita Sciascia e Vittorini. Pietro se ne andò disgustato dall’Italia opportunista e avida del regno di Berlusconi, e a suo modo fa politica ancora oggi, difendendo un’idea di cultura “sostenibile” e rischiando in prima persona. I soldi per aprire il suo centro li fece vendendo a New York i quadri dell’artista Ele D’Artagnan, orfano veneziano che arrivò a Roma negli Anni Cinquanta e visse ai margini della Dolce Vita, con ruoli minori al cinema e a teatro e con un’attività di pittore ignorata in Italia, ma apprezzata post-mortem dal pubblico americano. Pietro ereditò i suoi quadri, e non avendo trovato nessuno a Roma che si prendesse la pena di organizzare una mostra in memoria di questo raffinato poeta di strada, fu sufficientemente intraprendente da organizzare a New York una mostra e da investire i guadagni in un centro di cultura italiana, un’altra dimostrazione dell’incapacità tutta italica di riconoscere il merito alle proprie glorie. Anche Pietro rimprovera a Lula l’assenza di dibattito sulle idee, sui fondamenti del nostro agire politico. Troppi compromessi, troppa macroeconomia. Certo, se ci fossero più galline bianche come il mio amico Pietro in Brasile e in tutto il mondo, che sanno vivere rimanendo coerenti alla loro visione politica, senza essere né martiri, né fanatici, il mondo sarebbe più interessante. Ma a sognare e fare sognare sono pochi dovunque: all’ideale dell’autocoscienza si è sostituito nel migliore dei casi l’ideale dell’ONG dei bravi ragazzi che vanno ad aiutare i bambini poveri, inscalfibili nel loro senso di superiorità bianca, o a salvare foreste, armadilli e orsi bianchi. L’idea che la politica passi per primo luogo dal riconoscere chi siamo, e dal comprendere quanto delle nostre azioni è ancora nelle nostre mani, è ormai forse un ideale del passato.
Insomma, le colpe di Lula in questo senso sono un po’ le colpe dell’aria dei tempi, di quel neo-paternalismo mondializzato che ha fatto discutere all’ONU a New York a fine settembre di povertà globale a poche centinaia di metri da una Wall Street blindata, sede del racket economico più grande del mondo.
Ma, per quanto la retorica paternalista non faccia sognare, bisogna riconoscere che le differenze sociali si sono davvero ridotte in Brasile e, benché il divario tra ricchi e poveri sia ancora uno dei maggiori del mondo, più di 30 milioni di persone sono uscite dalla miseria. “La mia amministrazione è l’ultima di un paese sottosviluppato” promette Lula con il suo programma Zero Fame. E il successo di Marina Silva fa pensare che abbia ragione, che il Brasile crescendo si normalizza, diversifica le sue richieste, e anche, come purtroppo succede a tutte le democrazie ricche, si disinteressa un po’ di più alla politica: le schede bianche infatti non sono mai state così numerose come il 31 ottobre di quest’anno.
Comunque i successi di Lula sono là per restare. L’economia brasiliana è in boom, e la politica economica del partito dei lavoratori non ha fatto che seguire le ricette del governo precedente, quello del presidente-sociologo Fernando Henrique Cardoso, allievo del sociologo francese Alain Touraine, che ebbe il merito di introdurre una riforma finanziaria coraggiosa che rimise in piedi l’economia brasiliana facendola stare al passo con gli standard internazionali. Oggi è il Brasile che presta soldi al Fondo Monetario Internazionale, appena vent’anni dopo essere stato uno dei paesi più indebitati del mondo.
Mentre l’economia sembra quindi avanzare ormai da sola, bisogna vedere se Dilma Rousseff riuscirà a mantenere il nuovo ruolo internazionale del Brasile, molto legato alla simpatia e allo stile scanzonato di Lula, che riusciva a farsi apprezzare da Chavez, dagli Stati Uniti e pure dall’Iran. Il Brasile ha giocato un ruolo di mediatore imprevisto nella crisi di Haïti del 2010 e in Medio Oriente; ha rivendicato un posto, non ottenuto per ora, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ed è una voce sempre più ascoltata in un mondo non più bipolare nel quale l’arte della mediazione è forse più facile che venga da un paese ex-coloniale, giovane e multirazziale invece che dallo snobismo risentito dei diplomatici europei o americani, la cui sola preoccupazione è misurare la decadenza della loro antica potenza di controllo sul globo intero.
Un altro aspetto del cambiamento brasiliano, rappresentato in particolare dalla candidatura di Marina Silva, è la religione: Marina è una cristiana evangelica, e la sua chiesa le ha dato un forte sostegno nella campagna elettorale. I cristiani evangelici, soprattutto i pentecostisti, sono il fenomeno nuovo del Brasile, avamposto cattolico per eccellenza, il paese con il più alto numero di credenti cattolici nel mondo, più di 100 milioni. Ma i tempi cambiano, la gerarchia severa della chiesa cattolica, le liturgie pesanti, fanno perdere colpi alla chiesa romana anche laggiù. Il Brasile si globalizza, perde pian piano la sua deferenza di antica colonia europea, e apre alle religioni nuove, decentralizzate, più semplici e rapide nell’accettazione dei nuovi convertiti. Per difendersi, la chiesa cattolica reagisce imitando i pentecostisti: il più celebre dei nuovi preti cantanti cattolici è Marcelo Rossi, 43 anni, che riempie gli stadi con canzonette dedicate alla Madonna, e la cui messa della domenica è ritrasmessa in tutto il Brasile da Globo TV, la più grande televisione nazionale.
Ma a parte tutto questo, qual è il vero segreto del nuovo Brasile, cos’è successo laggiù che riesce a fare sognare oggi la sinistra europea e contemporaneamente la finanza internazionale? Mi aggiro per Salvador de Bahia con l’amico Pietro Gallina, che ha il grande pregio di non farmi perdere tempo a visitare siti turistici inutili: tutto quello che mi fa vedere ha un senso per capire questo paese. Andiamo al bar con qualche suo studente e poi ci diamo tutti appuntamento a una messa di rito candomblé, una religione afro-brasiliana che va per la maggiore tra i neri di Bahia. La chiesa è piccolissima, tutta decorata, le sacerdotesse sono vestite con gli abiti tipici bahiani, grande turbante bianco sulla testa, gonna e crinolina. Le sacerdotesse ballano, si sdraiano per terra, aspettano di ricevere lo spirito. Qualcuno entra in trans, l’atmosfera è leggera e divertita. Tre personaggi si travestono da dèi: un dio fumatore di sigaro, un dio della foresta e un dio gaucho, una specie di cow-boy: il rito si elettrizza, i tre designati abbracciano gli astanti, altre trans, l’atmosfera si trasforma in una festa collettiva. Me ne vado verso le tre della mattina di buon umore, non mi fa nessuna paura attraversare a piedi il quartiere di Ribeira. Il giorno dopo Pietro mi porta alla chiesa di Boa Viagem, un bell’edificio da cui escono i binari di un treno che arrivano fino al mare. Qui la statua di Cristo viene portata una volta all’anno sui binari fino a una barca, e da lì al mare aperto, dove incontrerà la dea del mare per una notte d’amore. In questo paese il sincretismo riesce, o almeno riesce meglio che altrove: non esistono etnie dominanti: i portoghesi, proprietari del Brasile dal Cinquecento, laggiù non ci volevano andare, e così si accumularono una serie di emigrazioni, dalle Azzorre, ai tedeschi, agli italiani, insieme ai neri africani portati come schiavi e agli indios della foresta. La gente si è mescolata, e le facce sono più nuove, più simili a quell’ideale di essere umano globale che inevitabilmente si spanderà sempre di più in tutto il mondo. I Brasiliani di Lula si sono riconosciuti, hanno capito chi sono: ed è questa la loro forza: sanno di essere un paese giovane, pieno di risorse naturali, un paese in cui le religioni dominanti hanno dovuto sempre fare i conti con i politeismi locali: sono americani nello stile e nell’entusiasmo, latini nell’animo, europei nelle tradizioni, africani nei modi, insomma, sono il nuovo mondo. Di ritorno a Porto Alegre, dove ho insegnato all’università per due settimane, visito il museo della storia del Rio Grande do Sul. E mi rendo conto che il Brasile non ha una storia nel senso in cui a scuola in Italia, o in Francia, o in Inghilterra, ci insegnano che cos’è la storia una serie di miti fondatori e di leggende locali per pagare un tributo ai propri morti: i paesi coloniali hanno una storia naturale molto più complessa, fatta di geografie, di spostamenti di popolazioni, di arrivi improvvisi di nuove etnie, come quella delle Azzorre che, a causa di una carestia, chiese all’imperatore del Portogallo di poter emigrare in Brasile. E poi di germogli, di semi nuovi, di piante che cambiarono le abitudini culturali di mezzo mondo. Insomma, la storia non è fatta solo di eserciti e di nazioni, ma di uomini e donne che si spostano da una parte all’altra della Terra per fame, che portano tradizioni, che si mescolano con i locali, che creano così nuove culture.
Il Brasile di Lula ha preso coscienza di sé stesso, del suo potenziale e dei suoi limiti, del suo ruolo nuovo nelle relazioni internazionali: ha accettato di stare ai patti economici internazionali ma vuole in cambio riconoscimento. Riconoscersi è conoscersi e insieme avere finalmente la forza di andare avanti, senza ripiegarsi spaventati sui miti di assurde identità nazionali, su folklori locali ridicoli, o sul risentito snobismo del “Lei non sa chi ero io” che domina la coscienza di sé europea. Solo se l’Europa imparerà a guardarsi senza paura, a capire che è cambiata, ad accettare il suo multiculturalismo, il suo laicismo, la sua nuova identità transnazionale, potrà fare un passo avanti e avere voce, andare al di là dei sacri Graal, degli Asterix e degli Imperi romani. L’Europa è un continente che ha paura in questo momento, così come hanno paura gli Stati Uniti: entrambi hanno paura di perdere quella lettura di sé stessi che si è istituzionalizzata dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma quella guerra è lontana, il prezzo ai morti è stato già pagato ed è ora anche per noi di guardare avanti.