Pubblicato sull'inserto domenicale de Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2012. Tutti i diritti riservati.
Se n’è andata a 78 anni Elinor Ostrom, premio Nobel per l’Economia (con Oliver E. Williamson) nel 2009, un anno dopo la tragedia finanziaria del 2008, con il crollo delle borse internazionali e il collasso a catena di banche e stati. Premiata per il suo lavoro sull’economia dei beni comuni e le strategie d’azione collettiva, la Ostrom è la prima donna ad avere mai ricevuto il Nobel in questa disciplina. Con un ragionamento semplice: non esiste nessuna tragedia inesorabile iscritta necessariamente nei geni del nostro comportamento economico. Possiamo imparare a collaborare, a cambiare le regole del gioco e a gestire le risorse che condividiamo in modo più ragionevole.
Outsider nel mondo eminentemente maschile degli economisti “duri”, la notizia del suo Nobel lasciò la comunità sorpresa e impreparata. La maggior parte degli economisti non la conosceva nemmeno, e molti di loro la consideravano più un’esperta di scienze politiche che una vera economista. Studiosa interdisciplinare, la Ostrom non aveva esitato a combinare ricerca empirica, osservazione antropologica e studio delle norme sociali per comprendere come la gente si organizza spontaneamente nella gestione dei beni collettivi come l’aria, le foreste, l’acqua, i pascoli, le spiagge, la conoscenza (si veda la raccolta diretta con Charlotte Hess: La conoscenza come bene comune, Bruno Mondadori), senza bisogno di leggi imposte dall’alto. Nel suo libro Governare i beni collettivi. Istituzioni pubbliche e iniziative di comunità(Marsilio, 2007), Elinor Ostrom attacca la visione canonica della cooperazione che impera in economia e, più in generale, nella Weltanschauung del presente.
Per gli economisti ancora convinti, beati loro, della razionalità dell’homo oeconomicus, la cooperazione è un dilemma irrisolvibile, studiato e ristudiato sotto il nome di Dilemma del Prigioniero. Il nome stesso del dilemma la dice lunga sulla visione dell’umanità che vi sta dietro. Il dilemma del prigioniero è un dilemma sociale perché l’azione razionale individuale porta a una situazione d’irrazionalità collettiva. La situazione è la seguente. Dobbiamo decidere se cooperare o meno con qualcuno. Il meglio sarebbe per entrambi di cooperare, perché ci permetterebbe di ottenere il risultato migliore. Ma il rischio che l’altro decida di fregarci una volta che noi abbiamo fatto la prima mossa è troppo alto (io pago in anticipo per ottenere la sua merce e quello invece di spedirmela, scappa con i soldi). Dunque, ci accontentiamo del risultato mediocre di non cooperare per evitare le perdite troppo importanti nel caso di defezione dell’altro.
La tragedia della cooperazione era stata l’oggetto di un famosissimo articolo pubblicato su Science nel 1968, The Tragedy of the Commons, in cui lo studioso di ecologia Garrett Hardin sosteneva che l’azione collettiva fosse impossibile perché genera paradossi come il dilemma del prigioniero e, in ultima analisi, il collasso delle risorse condivise. Se un gruppo di individui si trova a condividere un bene comune, diciamo un pascolo, e ognuno massimizza il suo interesse, allora il pascolo verrà prima o poi completamente distrutto. La logica inesorabile del destino del pascolo diventò un leitmotiv degli economisti, che in maggioranza decisero che bisogna imporre regole dall’alto di gestione della proprietà sui beni collettivi per evitarne la completa distruzione.
Il lavoro empirico e teorico della Ostrom mostra semplicemente che questa forza del destino dell’uomo razionale massimizzatore del suo utile non c’è. Se si analizzano gli esempi, come lei fa spaziando dai sistemi di irrigazione in Nepal, ai pascoli africani, dalla gestione delle acque in California, alle foreste e ai diritti sulla pesca, ci si rende presto conto che la gente non è vittima del dilemma del prigioniero. La gente coopera, trova soluzioni, cerca di mettersi d’accordo con quelli che sembrano più disponibili a partecipare, crea sistemi di sanzioni per i free-riders, insomma, nessuno resta intrappolato in relazioni paradossali che portano inevitabilmente alla rovina. Tranne forse gli economisti e i mercati che incarnano le loro visioni del mondo.
Come scrive giustamente nel suo libro, il dilemma del prigioniero incarna una metafora fondamentale del presente: l’uomo in trappola, che non può che scegliere per sé stesso e subire invece il suo destino sociale. Ecco perché il suo destino è tragico. Whitehead sosteneva che l’essenza drammatica della tragedia non è la sventura, ma la solennità del processo inesorabile e ineluttabile degli avvenimenti. Le ricerche della Olstrom mostrano che l’ineluttabilità non esiste, se non nell’astrazione dei modelli formali delle transazioni finanziarie. E invece di stupirsi che un premio Nobel in economia sia stato dato a una ricercatrice interdisciplinare, esperta di sociologia, antropologia, economia politica, governance, istituzioni pubbliche, etc. bisognerebbe chiedersi piuttosto come fa a esistere ancora oggi un premio Nobel di economia e basta invece che di scienze sociali in generale. Non sono bastati i premi Nobel in economia dati a psicologi, a filosofi, a esperti di etica, a scienziati politici per far capire agli economisti che ci sono più cose tra cielo e terra che nei loro modelli.