C’è un vento
nuovo nelle scienze sociali. Parole come visibilità,
reputazione, riconoscimento, prestigio, invadono il vocabolario dei libri
più interessanti che stanno uscendo negli ultimi anni, come se in tanti
stessero girando attorno a un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti, ma al
quale per troppo tempo si è stentato a dare peso scientifico, o a comprenderne
l’unità teorica.
Eppure, ripeto, è sotto gli occhi di tutti: ça crève les yeux, come recita l’incipit del nuovo libro della sociologa
francese Nathalie Heinich, De la
visibilité (Gallimard, 2012) quasi seicento pagine di analisi del perché,
in società che si definiscono democratiche, il paesaggio sociale sembra sempre
più strutturato intorno a immensi scarti di visibilità, ossia, alle capacità di
alcuni individui, idee e oggetti di essere infinitamente più visti degli altri. Come ci vediamo
visti, la parte del sé che affidiamo allo specchio degli altri, è un motore
profondo del nostro agire, una passione sfrenata di esistere nello sguardo
altrui che spesso supera le motivazioni dell’homo oeconomicus, interessato ossessivamente a ottimizzare il suo
utile, ma forse una maschera troppo “autistica” di noi stessi per spiegare la
socialità ipertrofica dell’io contemporaneo.
Notti intere su Facebook a confezionarsi un’immagine di
sé per amici immaginari, a selezionare quel che di noi è spendibile
socialmente: foto in cui siamo più belli, interessi musicali singolari,
posizione in un network sociale che
ci faccia guadagnare un po’ di status.
Perché? Nessuno è diventato ricco con Facebook,
tranne il suo fondatore, eppure quasi un miliardo di esseri umani in giro per
il mondo perde tempo a curare la sua immagine virtuale come se da essa
dipendesse la sua vita. Casi spettacolari di ossessioni reputazionali, come la
storia recente di Orlando Figes, celeberrimo storico inglese dell’Unione
Sovietica, il quale, dalle stelle alle stalle, è stato beccato a scrivere sotto
pseudonimo recensioni velenose dei libri dei suoi colleghi su Amazon. Non è vero solo che la società
ci manipola in modo univoco: siamo noi che manipoliamo in continuazione la
nostra esistenza sociale curandola, travestendola, emendandola, nel tentativo
di darle singolarità, di renderci unici agli occhi degli altri.
Il fenomeno non è
interamente nuovo: già Hobbes definiva la passione
della gloria come l’ambizione tanto fondamentale quanto vana di essere
riconosciuto superiore dagli altri, di lasciare una traccia unica nel nostro breve
passaggio su questa Terra. Quel che è nuovo è che il fenomeno assume oggi le
dimensioni di un fatto sociale totale,
come definiva l’antropologo Marcel Mauss quei fatti che si svelano da soli e
per dare senso ai quali abbiamo bisogno di un nuovo paradigma che tocchi tutte
le dimensioni delle scienze sociali: economia, antropologia, filosofia, storia,
estetica.
Così, sempre in
Francia, tra i due saggi più influenti di questi anni, due attacchi alla teoria
economica dominante, uno alla teoria neo-classica del mercato, L’économie des singularités del
sociologo Lucien Karpik (Gallimard 2007), e l’altro alla teoria del valore, L’empire de la valeur, dell’economista
André Orléans (Seuil 2011). Entrambe le critiche si focalizzano sullo stesso
punto: il valore si crea nello scarto qualitativo, non quantitativo:
l’economia, che riduce tutto a merce/quantità, deve integrare la singolarità. Il
progetto di Orléans è rifondare la teoria del valore di mercato senza cercare di
ridurre il valore a una grandezza che gli pre-esisterebbe, come l’utilità, il
lavoro o la rarità. Il valore è un prodotto autonomo dello scambio, ed è fine a
se stesso. Come due specchi rivolti uno verso l’altro, il valore si genera
nella relazione tra le cose: non è
nelle cose stesse. Contro un’economia delle quantità o delle grandezze, Orléan propone un’ economia delle relazioni.
Così Karpik, con la sua economia delle singolarità, ossia di quei prodotti che
hanno valore solo se giudicati bene o male dagli altri, propone uno studio
sistematico dei dispositivi di giudizio
che creano le differenze di mercato. Insomma, come diceva Karl Mannheim,
fondatore della sociologia della cultura, l’essere umano pensa ed esperisce il
mondo gerarchicamente, non coglie la
realtà se non attraverso l’insieme di valutazioni che derivano una dall’altra.
Le nuove
tecnologie sociali della rete sembrano la realizzazione stessa di questa
visione del mondo: all’era dell’informazione si sta sostituendo un’era della
reputazione nella quale tags,
giudizi, rankings, voti, numero di
citazioni - ossia tracce di ciò che gli altri hanno detto di qualcosa – diventano
l’unico accesso possibile alla cosa stessa. L’analisi di Nicoletta Cavazza nel
suo libro recente Pettegolezzi e reputazione
(Il Mulino) mostra, tra l’altro, i meccanismi reputazionali che tengono insieme
l’intera economia dell’informazione in rete, da Wikipedia a eBay.
Siamo davanti
insomma a un cambiamento di paradigma: la nascita di una “scienza della relazione” che prende come un’unità di analisi non
l’individuo, né la società nel suo insieme, ma l’io sociale, ossia l’individuo
cosciente di essere guardato dagli altri. Come dicevo, le implicazioni sono in
tutti i rami del sapere, come mostra il bellissimo saggio filosofico di Barbara
Carnevali in uscita sempre da Il Mulino, Le
apparenze sociali: per una filosofia del prestigio, che spazia
dall’estetica, alla teoria letteraria, alla fenomenologia sociologica per
fondare filosoficamente una teoria della parte sociale del sé, troppo spesso
considerata come immateriale, superficiale, insomma, causalmente irrilevante
per spiegare i veri rapporti di forza soggiacenti alla costruzione della
società. Per riassumere la sua tesi con la bella citazione di Oscar Wilde a
epigrafe del libro: “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze.
Il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile”.
Essere visibile è
una relazione. Della realtà che abbiamo da studiare sotto gli occhi non rimane
altro che questo. Una rete di relazioni in cui diventa sempre più impossibile
distinguere i fatti dai valori.