Wednesday, November 02, 2011

Diario Brasiliano: 1. Viagem




Sorvolo Rio. E' la settima volta che vengo in Brasile e non sono mai stata a Rio. A vederla così, dall'alto, è una baia frastagliata, ricca di insenature, circondata da colline a zuccotto, colorate da una miriade di casette sparpagliate, le tristissime favelas che a vederle da lontano sembrano allegri paesucoli dai mille colori. Perché il Brasile mi piace così tanto? Auto-analisi. L'anno scorso ero qui per le elezioni. Entusiasta, avevo fatto un reportage dalla terra del domani, cantando le lodi dei candidati tutti a sinistra, l'ottimismo di un paese che non parla che di sviluppo sostenibile e di politiche sociali: educaçao, saude, integraçao, che rispetta le differenze etniche, che sorride al futuro. Ma soprattutto che sorride a me. La grammatica delle emozioni è molto semplice. Un luogo diventa un bel ricordo, un posto d'elezione, perché qualcosa di bello, di emotivamente bello, vi è successo. Qui succede che l'essere italiano non è vergognoso, anzi: nel Rio Grande do Sul, lo Stato dove mi reco più sovente, per insegnare all'università di Porto Alegre, essere italiano è ottimo : è un'identità di cui andare fieri. Abituata da vent'anni a fare l'emigrante in un paese più ricco e culturalmente più autorevole, la Francia, in cui essere un "rital" è una via di mezzo tra qualcosa di ridicolo ed estremamente pittoresco, stento a credere che l'Italia possa ricevere una simile accoglienza. In macchina tra Florianopolis e Porto Alegre, io e Sandra ci fermiamo stremate in una lancheonete sull'autostrada. Un self-service essenziale, carne e fagioli, riso e qualche verdura. Il proprietario ci sente parlare in italiano. Dalla cucina cominciano ad arrivare vassoi di carne appena cucinata, e servita come nei migliori churrascos della città. Il padrone che ci serve con tale attenzione ha un'aria derelitta, la pelle ingiallita dal fumo forse, o dalla polvere della strada. Ha le mani callose, le unghie lunghe e sporche, i capelli sbiaditi come paglia sotto un berretto sgualcito. Gli occhi sono di un azzurro intenso, mi fissa con uno sguardo umido, commosso: "Mio padre era di Bergamo". Per lui Bergamo è una parola leggendaria, il nome della sua origine. Non sa altro. Gli dico che da piccola avevo una casa di campagna proprio vicino a Bergamo, che Bergamo è una bellissima città con una parte antica in alto. Provo a dargli delle immagini, le colline, il campanile della chiesa nella piazza principale, quella con lo scalone sotto il portico, dove io fumai la mia prima sigaretta con Guido e Tommaso nel lontano 1981. Sorride. Continua a guardarmi come un reperto archeologico, un pezzo di autentico mondo antico, quel mondo che esisteva solo nei racconti, forse in qualche oggetto o in qualche ricetta della nonna e che ora diventa vero.
L'Italia qui è un mito originario. Un mito positivo. E' un'Italia del Nord, che arrivò giusto dopo un'ondata di emigrazione tedesca intorno alla metà dell'800. Soprattutto veneti. Qui si beve il sauvignon. I gauchos, come sono chiamati gli abitanti del Rio Grande do Sul, sono alti, biondi. Qui vicino a Porto Alegre c'è una città che si chiama Teutonia. Il gaucho è lievemente razzista, almeno certamente più del brasiliano del Nord. Qui il colore fa la differenza, e se l'italiano emigrato a New York è piccolo e scuro, e perciò visto con superiorità dagli WASP, qui l'italiano biondo è superiore, è luminoso, ha l'aura del conquistatore. Studiare in Italia è prestigioso, persino un dottorato italiano vale qualcosa in questo paese. I Brasiliani hanno una strana, incomprensibile, umiltà. Una modestia verso l'Europa completamente ingiustificata. Non c'è il risentimento delle ex-colonie, come se non ci fosse presa di coscienza di essere una ex-colonia. Come se il legame con l'Europa fosse qualcosa di cui andare fieri ancora adesso. Almeno tra i bianchi. Per i neri, portati come schiavi dall'Africa, e per gli indios è tutta un'altra storia.

In aereo mi annoio, decido di guardare un film, ma quando viaggio verso il Brasile non ho voglia di vedere film americani, mi sembrano, come dire, "fuori posto", come se non avessero nulla a che fare con qui. C'è una pregevole assenza di Stati Uniti qui, nessuno parla in inglese, la musica è brasiliana, le bevande locali. Allora decido di guardare un film sulla vita del presidente Lula: Lula, O Filho do Brasil


con la meravigliosa Gloria Pires, che faceva sognare noi sorelle a 15 anni quando arrivarono, sugli ancora laconici schermi italiani, le prime telenovelas brasiliane. Le telenovelas furono una specie di proto-televerità, un genere ingiustamente trascurato dall'occhio severo della critica europea. Il plot consisteva essenzialmente nella cronaca quotidiana, non più lunga di 40 minuti a puntata, della vita di un nucleo familiare, un gruppo di personaggi senza niente di particolarmente interessante, ma capaci di creare quel sentimento di trasposizione, di proiezione dello spettatore che si sente inghiottito nelle vite e nel sentire degli altri. A differenza dello statunitense Dallas, che proponeva un idealtipo , il ricco spietato, anima nera dello yuppismo degli Anni Ottanta, un gruppo umano in cui ben pochi potevano identificarsi, ma potevano al massimo aspirare a una trasfigurazione in una figura superiore della vita grazie alla magia dell'arte, la telenovela non offriva trasfigurazioni, semplicemente cronache di realtà immaginarie, di mondi possibili così vicini ai nostri da creare un sentimento di familiarità unico. Quando fu ucciso Miguel da un misterioso colpo di pistola nella telenovela Agua Viva, io e mia sorella uscimmo correndo dalla camera di Roberta, dove avevano luogo le trasmissioni delle puntate, e, quasi piangendo, comunicammo a nostra madre attonita: "E' morto Miguel" come se fosse morto un parente, come se fosse evidente che anche lei dovesse essere al corrente dell'evento.
Nel film dedicato a Lula, Gloria Pires è la madre coraggiosa e analfabeta del futuro presidente. Nati e cresciuti in una miserabile baracca in mezzo al sertao, l'arida campagna del Nord-Est, la zona più povera del Brasile, gli otto figli di questa coraggiosa signora, vedono il padre andarsene a cercar fortuna in città, per scoprire presto che in realtà sta fuggendo con un'altra donna, incinta di un figlio. La madre di Lula combatte, resiste, ma i figli sono tanti, la miseria assoluta. Allora va dallo scribacchino del paese e gli fa scrivere una lettera per il marito lontano, nelle favelas di San Paolo, con la sua nuova donna, il bambino appena nato e il suo figlio maggiore che intanto l'ha raggiunto. Il marito fa rispondere dal figlio, che sa scrivere, che non è il caso di venire perché anche a San Paolo c'è solo miseria. Ma il figlio cambia le parole e scrive alla madre di vendere terra e casa e di partire. E così, la madre obbedisce, carica i suoi sette figli su un camion, paga il viaggio con i pochi soldi racimolati con la vendita della casa e delle terre e parte per San Paolo. Tredici giorni e tredici notti di viaggio allucinante, nella polvere e nella miseria. Le tappe della carovana sono marcate dai funerali improvvisati dei viaggiatori morti. La famiglia arriva intatta a San Paolo.
In una baracca vicino a un fiume vive il marito con la nuova famiglia. Non c'è tempo per le scenate, tutti i figli in silenzio entrano nella baracca e si installano come possono. Vivono di lavori miserabili, vendere arance raccolte sugli alberi della strada, lucidare scarpe. Il padre beve. La madre, in segreto, riesce a mandare a scuola due dei figli, tra cui Luiz Inàcio. Quando il padre, Aristide, lo scopre, picchia i figli, insulta la moglie. Ma lei resiste, insiste, e di lì a poco la maestra di scuola di Inàcio bussa alla sua porta per dirle dei risultati eccezionali del bambino e per chiederle di adottarlo. La mamma è fiera, commossa e insieme orgogliosa: "No, grazie, i miei figli me li cresco io!". Se ne va definitamente dal marito, trova un'altra baracca, incoraggia i figli a scuola. Sono anni miserrimi ma felici, si gioca nel barrio, la città è infinita e piena di possibilità. Inàcio cresce: sempre incoraggiato dalla madre, passa il concorso per iscriversi a una scuola professionale per meccanici, riesce a diplomarsi, l'emozione della madre per quel diploma dev'essere stata più forte di vederlo eleggere presidente della repubblica, o così almeno mi fa credere il sorriso commuovente di Gloria Pires davanti a quel figlio prodigio, che comincia a lavorare in fabbrica da operaio specializzato, oramai è salvo, non sarà un peones senza tetto né legge tutta la vita. In fabbrica si avvicina al sindacato incoraggiato dal fratello. Si innamora di una ragazza, sua vicina di casa, sorella di un amico di infanzia. Si amano, si sposano, aspettano un bambino. La sera delle doglie Inàcio l'accompagna in ospedale, aspetta fremente nel corridoio dell'ospedale. Nessuna notizia. C'è stato un problema. Aspetta tutta la notte. La mattina i medici gli comunicano che il bambino è nato morto e che la moglie è morta dandolo alla luce.
Inàcio è disperato, si rifugia nel lavoro, ma un incidente gli toglie pure quello: perde un dito durante un turno straordinario. Tutto daccapo: lavori umili, vendere frutta al mercato e infine una seconda chance.
Entra nel sindacato di questa nuova fabbrica, fa carriera nel sindacato, il Brasile si scalda politicamente, siamo negli anni della contestazione alla dittatura, 1975. Nel 1978 diventa presidente dell'unione sindacale dei lavoratori del metallo. I suoi discorsi infervorano le folle. Viene arrestato e detenuto per un mese. Alla fine della dittatura, crea, con altri il Partito dei Lavoratori. Intanto si risposa con una ragazza, anche lei vedova, ma con un figlio che ha la stessa età di quella che avrebbe avuto il figlio di Lula. Avranno altri tre figli insieme.

Partecipa all'assemblea costituente, nel 1986 diventa parlamentare al Congresso. Poi si candida alle presidenziali contro Cardoso e perde. Infine, eletto nel 2002, diventa l'uomo politico più celebre e amato della sua generazione.

Ora Lula ha un cancro alla laringe. Sembra che la maggior parte dei politici e dei magistrati che hanno avuto a che fare con la dittatura, hanno avuto un cancro. Anche Dilma, la nuova presidente. Proprio alla laringe, lui, il più grande oratore di tutti i tempi.
Qui nel Rio Grande do Sul, l'entusiasmo per il miracolo brasiliano di Lula è più mitigato. Non gli si perdona troppa demagogia, molta corruzione e molte battaglie perse, come quella per la riforma agraria.
Però, vista da lontano, o al cinema, questa è una storia perfetta per sognare. E' la sua traiettoria che ha portato questo paese alle vette del mondo. E' una storia di un ottimismo straordinario, quelle storie che ci raccontava l'America buona degli Anni Cinquanta, davvero una chance per tutti, basta darsi da fare: non gli Stati Uniti di oggi, romani, imperiali, grassi e impigriti sotto un cumulo di cartacce da avvocati e funzionari.
Forse l'uomo o la donna esemplari, come nelle Vite Parallele di Plutarco, sono l'unica politica possibile rimasta. Ma non quelli che "bucano lo schermo": quelli esemplari davvero, perché anche io, che non c'entro niente, sono fiera di Inàcio Lula.