All rights reserved. Published on the cultural supplement of Il Sole 24 Ore on Sunday, September 23rd
"Ciò che sappiamo sugli altri e ciò che gli altri sanno su di noi si fonda essenzialmente su apparenze". Non esiste un accesso diretto all'anima altrui, a un io profondo, che non passi per le apparenze che socialmente si manifestano nell'interazione con i nostri simili. L'incipit del saggio di Barbara Carnevali, Le apparenze sociali (Il Mulino, in libreria il 6 settembre) non lascia scampo: basta con i piagnistei romantici dell'io autentico corrotto da una coscienza sociale alienata, basta con il contrasto tra essere e apparire: siamo quello che sembriamo perché la nostra identità più profonda si struttura proprio in quei meccanismi di presentazione del sé, di costruzione dell'identità sociale che tanta filosofia condanna come il sintomo di una patologia prettamente moderna. Con grande erudizione unita a una rara originalità, in questo saggio Barbara Carnevali affronta la questione delle apparenze sociali proponendo un vero e proprio programma di ricerca filosofico: un'estetica sociale che prenda sul serio il ricco sistema di segnali che offriamo alla percezione altrui e che struttura le nostre relazioni sociali. La società è lo spazio di scambio di questi segnali, un immenso sensorium che include tutte le percezioni socialmente significative: i gesti, le espressioni, gli accessori, gli ornamenti, i segnali di status. La dimensione estetica della sfera pubblica è per la Carnevali necessaria. E questo è l'aspetto più originale della sua ricerca: le apparenze sociali non solo trasmettono contenuti sociali, ma li plasmano, li costituiscono. Beh, nell'era di Facebook, in cui milioni di persone passano ore al giorno a plasmare e ritoccare la propria immagine sociale condivisa pubblicamente, ci voleva finalmente un'intellettuale che avesse il coraggio di dare consistenza teorica all'inspiegabile perdita di tempo collettiva di farsi belli agli occhi degli altri!
"Ciò che sappiamo sugli altri e ciò che gli altri sanno su di noi si fonda essenzialmente su apparenze". Non esiste un accesso diretto all'anima altrui, a un io profondo, che non passi per le apparenze che socialmente si manifestano nell'interazione con i nostri simili. L'incipit del saggio di Barbara Carnevali, Le apparenze sociali (Il Mulino, in libreria il 6 settembre) non lascia scampo: basta con i piagnistei romantici dell'io autentico corrotto da una coscienza sociale alienata, basta con il contrasto tra essere e apparire: siamo quello che sembriamo perché la nostra identità più profonda si struttura proprio in quei meccanismi di presentazione del sé, di costruzione dell'identità sociale che tanta filosofia condanna come il sintomo di una patologia prettamente moderna. Con grande erudizione unita a una rara originalità, in questo saggio Barbara Carnevali affronta la questione delle apparenze sociali proponendo un vero e proprio programma di ricerca filosofico: un'estetica sociale che prenda sul serio il ricco sistema di segnali che offriamo alla percezione altrui e che struttura le nostre relazioni sociali. La società è lo spazio di scambio di questi segnali, un immenso sensorium che include tutte le percezioni socialmente significative: i gesti, le espressioni, gli accessori, gli ornamenti, i segnali di status. La dimensione estetica della sfera pubblica è per la Carnevali necessaria. E questo è l'aspetto più originale della sua ricerca: le apparenze sociali non solo trasmettono contenuti sociali, ma li plasmano, li costituiscono. Beh, nell'era di Facebook, in cui milioni di persone passano ore al giorno a plasmare e ritoccare la propria immagine sociale condivisa pubblicamente, ci voleva finalmente un'intellettuale che avesse il coraggio di dare consistenza teorica all'inspiegabile perdita di tempo collettiva di farsi belli agli occhi degli altri!
La dimensione estetica non è quindi riducibile a quella
sociologica, come per esempio scriveva il sociologo francese Pierre Bourdieu
nel suo libro, La distinzione: critica
sociale del gusto (Il Mulino, 2000). Secondo Bourdieu, i nostri gusti
estetici sono l'espressione della nostra posizione sociale; più che segnalare
agli altri lo status attraverso i gusti, come nella teoria del consumo
ostentativo del sociologo americano Thorstein Veblen, per Bourdieu i gusti
"incorporano" l'appartenenza sociale, in un habitus che assorbiamo piano piano nel modo di essere e di sentire
sin da piccoli. L'estetica sociale proposta dalla Carnevali, benché chiaramente
nella tradizione di ricerca di Veblen e Bourdieu, rompe con il riduzionismo
sociologico: apparenza estetica e appartenenza sociale sono in una relazione
osmotica molto più complessa. Non si può ridurre una all'altra. E, per tornare
all'esempio dei network sociali, ma non solo, mi sembra che l'analisi della
Carnevali sia un passo avanti per comprendere fenomeni sociali contemporanei che
vanno ben al di là della pura distinzione di classe.
Spaziando da Rousseau e il suo discorso sull'origine e i
fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, alla società-spettacolo di Guy
Débord, dalle provocazioni estetiche di Andy Warhol all'iconografia del
prestigio nella storia dell'arte, dalla sociologia della vita quotidiana di
Goffman, allo snobismo proustiano, la Carnevali articola una teoria dei
fenomeni estetici come fatti sociali
totali, per usare l'espressione di Marcel Mauss, ossia quei fatti che
informano e organizzano pratiche
economiche, sociali, legali apparentemente molto distanti tra loro.
Rilassiamoci: il nostro io sociale non è una costruzione
da cui ci possiamo liberare: l'ambivalenza tra quel che mostriamo di noi e
quello che siamo riassume la condizione umana stessa. Ci voleva forse una
filosofa donna e milanese per ricordarci che, in fondo, tra forma e sostanza
non c'è poi tutta questa differenza.