DI GLORIA ORIGGI E DAN SPERBER
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E’ morto Jack Goody, nel giorno del suo novantaseiesimo compleanno. Umanista, storico, antropologo, sociologo, Jack Goody è stato soprattutto un intellettuale a tutto tondo, mosso dalla curiosità intellettuale non meno che dalle esigenze scientifiche, capace di scavalcare con eleganza le barriere disciplinari per riuscire a capire come si formano e si stabilizzano strutture sociali e tradizioni culturali così diverse da una società all’altra.
Goody entra nel 1938 al St. John College di Cambridge dove studia letteratura inglese e storia e incontra pensatori come Eric Hobsbawm, con il quale condivide le idee marxiste. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si arruola e combatte in Nord Africa, in Germania e in Italia, dove è fatto prigioniero dai tedeschi negli Abruzzi. Ed è proprio la sua permanenza negli Abruzzi, senza libri, nel mezzo di una società arcaica e rurale, a farlo convertire all’antropologia. Tornato a Cambridge nel 1946, comincia una tesi di antropologia, con l’obiettivo di “gettare un ponte tra l’antropologia e gli studi storici e comparativi”. L’antropologia sociale britannica, grazie a pensatori come Radcliffe-Brown, Evans-Pritchard, Meyer Fortes attraversava in quel periodo una stagione d’oro, un’era di produttività, di esigenza intellettuale e di eccellenza che ne faceva un modello disciplinare. Goody sceglie come terreno etnografico l’Africa occidentale e parte nel 1950 per il Ghana, che viene chiamato ancora con il suo nome coloniale: Costa D’Oro.
Dopo un primo libro di etnografia abbastanza classica sull’organizzazione sociale dei LoWilii, Goody pubblica nel 1962 un secondo libro, sempre basato sul suo terreno ghanese, ma nel quale già emerge la sua prospettiva comparativa: Death, Property and the Ancestors, mostrando come la funzione dei rituali funebri sia quella di gestire i conflitti tra generazioni, ossia le tensioni legate ai diritti sessuali e all’autorità familiare da un lato, e alla gestione e trasmissione dei beni dall’altro. Un’analisi dei riti funebri ispirata non dogmaticamente da Marx e Freud che ne mette in luce gli aspetti psicologici e al tempo stesso economici. L’antropologia e stata animata dall’inizio da un progetto compartivo. Pochi però sono gli antropologi che hanno veramente sviluppato un’ opera comparativa. Goody l’ha fatto in grande scala con più di 15 libri su diversi temi, alcuni su temi classici delle scienze sociali come la famiglia o il ruolo della scrittura, altri più originali come la cultura dei fiori.
Nel suo lavoro sulle strutture della famiglia in Asia, Africa e Europa, emerge chiaro un tema chiave del pensiero di Goody, ossia i rapporti tra struttura familiare e sviluppo economico, che fa dell’antropologo britannico un pensatore fondamentale nelle scienze sociali del Novecento, al pari di Durkheim e di Max Weber. La struttura familiare influenza ed è influenzata dai modi di produzione economica, questa è una verità di base delle scienze sociali. Ma come? Una classica opposizione distingue tra società tradizionali, strutturate in clan e in tribù in cui le donne sono un bene di consumo che circola al pari degli altri beni, e società cosiddette più “evolute” e complesse, fondate su una famiglia ristretta e monogamica e in cui le donne possono beneficiare di strategie di successione destinate a preservare l’integrità del patrimonio. Insomma, a farla breve, da un lato noi europei civilizzati, dall’altro tutto il mondo “primitivo”, Asia e Africa insieme. Il vantaggio europeo sul resto del mondo sarebbe dunque il risultato di un’astuziosa organizzazione familiare che permette l’accumulazione di capitale. Contro questa visione, Goody mostra che la dicotomia non tiene e che i sistemi familiari extraeuropei sono molto più differenziati. Un confronto tra sistemi africani e asiatici permette a Goody di mostrare come in Asia i sistemi di riproduzione permettano comunque la formazione di élites e la gestione del patrimonio. E un’esplorazione storica della famiglia in Occidente nel suo libro del 1983 La famiglia nella storia Europea, gli permise di mostrare il ruolo cruciale della Chiesa nell’eliminazione di pratiche familiari come l’adozione o il matrimonio tra parenti, nell’intento di massimizzare le donazioni patrimoniali in suo favore.
In lavori successivi, Goody mostra che le differenze di struttura matrimoniale tra Oriente e Occidente sono in realtà meno importanti di quello che la tradizione sociologica eurocentrica ci dice, fino ad argomentare, in un libro recente, Eurasia, storia di un miracolo, che la grande rivoluzione che fa delle società europee, mediorientali e asiatiche un miracolo è stata l’introduzione di tecniche culturali come la scrittura invece dell’accumulazione di capitale. La scrittura non è una tecnica di accumulazione, ma di gestione del surplus economico, alla quale per esempio gran parte dell’Africa non ha avuto accesso per lungo tempo.
Proprio sulla differenza tra oralità e scrittura Goody si confronta con la questione dell’impatto cognitivo delle rivoluzioni culturali, andando al di là del marxismo e comprendendo il ruolo della mente nell’evoluzione dei rapporti sociali, un tema che aveva già affrontato nella sua critica alla nozione di “pensiero selvaggio” di Levi-Strauss nel suo libro L’addomesticamento del pensiero selvaggio.
Il contributo maggiore dell’opera di Goody è di aver arricchito la riflessione sui grandi temi delle scienze sociali con una conoscenza profonda e dettagliata delle pratiche culturali. Così, temi apparentemente secondari, come le abitudini culinarie, diventano un modo di ripensare le gerarchie sociali in Cibo e Amore, o la cultura dei fiori diventa uno spunto per ripercorrere le trasformazioni sociali legate all’avvento dell’agricoltura e, sorprendentemente, della scrittura nel bel libro La cultura dei fiori.
Pensatore indomabile, Goody ha dedicato gli ultimi vent’anni delle sue ricerche a una critica feroce dell’etnocentrismo europeo, in particolare nel saggio: Il furto della storia, in cui mostra l’inadeguatezza della dicotomia Oriente/Occidente e la falsa narrativa della supremazia occidentale nell’invenzione della modernità. Una lezione di metodo e di tolleranza indispensabile per ripensare le scienze sociali all’era del mondo globale.