(Ho deciso di pubblicare una serie di racconti di viaggi che feci anni fa con il mio compagno di allora, un geniale antropologo, viaggi in un certo senso per me d'iniziazione, che mi insegnarono a pensare e mi portarono dal mondo chiuso della mia adolescenza asfittica milanese all'universo infinito dell'immaginazione poderosa di Dan. Li pubblico sul questo blog perché trovo l'iter editoriale e gli spiacevolissimi incontri con gli editori un rito collettivo di umiliazione degli intellettuali al quale mi sottopongo solo per strette ragioni di lavoro (saggi, articoli scientifici, insomma, roba che mi fa mangiare a fine mese). Ma per le cose più personali non ho più voglia alla mia età di trovarmi davanti ragazzette con improbabili frangette, occhiali e aria da saputelle che mi dicono che il mio linguaggio non corrisponde ai gusti dei trenta quarantenni o altre fesserie del genere, o ancora peggio, finti agenti editoriali, dai modi manageriali, che giocano ai newyorkesi nella bassa padana e ti fanno rispondere dalla segretaria perché troppo presi a leggere l'ultimo manoscritto. In ogni caso ormai la pubblicazione è un esercizio di vanagloria, che non dovrebbe riguardare che sé stessi e il piccolo pubblico con cui negli anni si è entrati in sintonia.)
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In viaggio con Dan 1: Il Nino Fidencio
L’aereo si posa a Monterrey alle sei del pomeriggio. Il
deserto è rosso, carico di sole del tramonto. La città sorge da qualche parte
nel Nord del Messico, circondata da un paesaggio piatto e continuo, un deserto
di cactus, come quelli nei disegni di Topolino
che leggevo da piccola. Il confine con il Texas non è lontano. C’è una
Monterrey anche in Texas, al di à della frontiera, non deve essere molto
diversa.
Adamo è venuto a prenderci all’aereoporto. E’ un signore
distinto, parla in continuazione, non capisco se è per impressionarci o perché
è intimidito dai professori che invita nella sua Business School per ricchi messicani. Parliamo in italiano, Adamo è
di origine italiana. Lo stile di conversazione e il modo di vestire, camicia Oxford e abito su misura, ricordano mio
padre: le sue tirate eloquenti su tutto, come se ogni discorso fosse davanti a
un pubblico pagante, anche quando eravamo semplicemente tra di noi.
Adamo parla di politica, di filosofia, di business, di nuove tendenze nella
pedagogia, di creatività, di leadership,
di élites, ci stordisce di parole e
ha quel modo di parlare di papà che non lascia repliche. Tu sei l’opposto. Sai
molte cose che non dici. Sei timido nella conversazione, ma non per modestia: è
perché sai bene che non sempre le persone vogliono sapere la verità. Preferiscono
parlare per altre ragioni, per mettersi in mostra, per farsi vedere. Se tu
parli, invece, dici solo la verità. Mai una parola di troppo, di seduzione, mai
nulla per impressionare gli altri. Le tue parole sono cariche di verità come
una pila è carica di elettricità, non puoi farci nulla, anche quando vorresti essere
leggero e confonderti nella conversazione degli altri.
A volte, la tua serietà mi esaspera. Mentre pranziamo con
Adamo, aggrotto lo sguardo, cerco di captare la tua attenzione, storco la bocca
per farti capire che devi essere più condiscendente, cercare di entrare nel suo
modo di parlare, fargli insomma da contrappunto. Tu mangi e non dici nulla. Io
insisto con le mie smorfie e cerco di compensare il tuo silenzio con qualche
replica qua e là, qualche ammiccamento. Cerco di fare eco al suo discorso,
arricchendolo, rilanciandolo, ma mai obbiettando, perché lui ti paga bene e poi
è come papà.
Ho capito tardi che eri timido. Quando ti ho incontrato,
mi sembravi aggressivo ed eccessivamente sicuro di te. Ti osservavo a distanza.
Non capivo perché tutti ti prendessero così terribilmente sul serio. A volte
non riuscivo a capire nemmeno quello che dicevi. Ti mangiavi le parole, in
francese come in inglese. Credo di averti insegnato l’italiano per capire
finalmente quello che dicevi. Eppure in quell’aggressività vedevo una grandezza
buona, come se ci fosse qualcosa di sovradimensionato nel tuo essere che non
riusciva a stare dentro le parole, ma che traspariva da quel grammelot accademico. C’era una forza
buona in te che ti faceva parlare in maniera decisa e incomprensibile. E che
aveva un impatto immediato su tutti, soprattutto su noi giovani studenti che
pendevamo dalle tue labbra. Stavamo a sentirti come un gruppo di fanatici.
Ascoltarti ci provocava la sensazione di sicurezza meravigliosa dei bambini che
appoggiano la testa sul petto dei genitori per ascoltarne la voce, poco importa
di cosa stiano parlando perché il suono profondo che risuona nella cassa
toracica fa bene, è un suono caldo e ovattato che cura come un balsamo magico
tutte le paure. Ti ascoltavamo senza capire nulla perché ci rassicuravano le
tue parole e il tuo vocione forte. Perché s’intuiva che dentro di te c’era
qualcosa di materno e sensato, un nascondiglio segreto di senso a cui avremmo
potuto attingere per sempre.
Adamo ci porta nel ristorante chic della club house del golf di Monterrey, cucina
pessima, internazionale, mi ricorda la club
house del golf club Milano a Monza dove papà ci portava tutte le domeniche.
Domeniche interminabili tra amici di famiglia noiosi a parlare di par, di pat in green, di quel drive spettacolare
del Mario alla buca otto. Non c’è nulla di peggio dei discorsi dei golfisti. Le
tirate di mio padre su tutto e tutti erano l’antidoto collettivo alla noia.
La moglie di Adamo è colombiana, le figlie due belle
ragazze adolescenti che studiano in scuole di lusso in giro per il mondo. Dei deracinés, come direbbe papà, che per
lui se uno esce dal centro di Milano vuole dire che ha perso la bussola.
In quindici giorni devi insegnare cos’è l’antropologia
alla futura classe dirigente messicana. Abbiamo accettato entusiasti di venire
perché sei strapagato, e non abbiamo un soldo a Parigi, almeno, così dico io. Io
ti ossessiono con i soldi, mi lamento sempre di non avere abbastanza soldi. Il mio
retaggio borghese italiano è decadente, la rovina economica si nasconde sempre
da qualche parte. Una delle immagini della mia infanzia che mi faceva più paura
era quella della “miseria che bussa alle porte con le sue dita adunche”,
un’espressione di mia madre, come se non si fosse mai al sicuro dalla caduta
sociale. Mi dicevi a volte che sembravo uscita da un libro di Moravia. E così hai
accettato questo lavoro per farmi contenta. A te dei soldi non importa nulla, lo
fai solo perché ti lasci in pace con la storia della miseria.
Agli allievi di una Business
School non si può insegnare nulla. Saranno degli executives da grandi, gente che esegue e che pensa poco, convinta
che riflettere sia una perdita di tempo, un lusso per signore. Non vale la pena
dunque di fare aprire loro i libri di Lévi-Strauss. Decidi di portarli
direttamente sul terreno, di far vivere loro l’esperienza dell’antropologo. Sono
contentissima, perché quell’esperienza la farò anch’io per la prima volta. Finita
l’università a Milano, decisi di venire a Parigi con un tuo libro in tasca.
L’avevo letto per un esame di sociologia, e avevo deciso che prima o poi ti
avrei incontrato. Volevo diventare anch’io antropologa. Così dissi a mio padre,
appena dopo la laurea: “Voglio andare a
Parigi e diventare antropologa”. Mi guardava come se fossi matta.
Eppure a Parigi ci andai. E riuscii a incontrarti. Ma tu
dicesti secco che fare l’antropologa era una cattiva idea. Non mi avevi presa sul
serio. Vedevi bene che quella ragazzina milanese viziata, che arrivava
pretenziosa e ben vestita, non si sarebbe ritrovata facilmente in mezzo a una
tribù di Yanomami o negli altipiani
etiopi dove abitano i Dorze. C’era
una canzone della mia giovinezza che aveva scritto un’amica milanese per
prendere in giro le velleità esotiche di certe ragazze per bene del centro. S’intitolava:
“Rimini come Ouagadougou”. Ecco, ti
avrò dato l’immagine di una viaggiatrice velleitaria, che sogna i tristi
tropici, ma preferisce il fritto misto sotto l’ombrellone. Mi dicesti, sorridendo, che nelle montagne etiopi la sera fa freddo e le capanne bisogna
costruirsele da soli. Avevi ragione tu. E negli altipiani etiopi dove avevi
abitato per tanti anni non mi portasti mai. Questa volta, invece, parto anch’io
all’avventura. Un’avventura a misura di business
school va bene anche per me.
Partiamo in autobus, che eccitazione! Sembra una gita
scolastica: colazione al sacco, zainetti e macchine fotografiche. Destinazione:
Espinazo, un villaggio a novanta chilometri dalla cittadina di Mina, nello
stato del Nuevo Léon. Il territorio è desertico, ci fermiamo a Mina, città
fondata nel Seicento da coloni spagnoli. Le case sono basse e color sabbia, con
strisce rosse sopra le porte, e gli usci dipinti di bianco. C’è un bel palazzo
al centro del paese che è oggi il museo della regione. Non c’è un granché da
mostrare, se non i resti di un mammut scoperti negli Anni Cinquanta. Ma due
sale del museo sono dedicate al Niño Fidencio e alla storia del Fidenzismo, un’eresia cattolica che
negli Anni Venti del secolo scorso portò Mina e i suoi dintorni alla ribalta.
In una vetrina, una foto d’epoca in bianco e nero mostra
il bel viso dai caratteri decisi di José Fidencio Costantino Sìntora, nato il
17 ottobre 1898 nel Rancho de las Cuevas,
nel comune di Iramuco, non lontano da Espinazo. Nella foto è un ragazzo dalla
pelle chiara e i capelli scuri. Sulla didascalia c’è scritto che era alto un
metro e ottanta e che aveva gli occhi verdi. Poco più in là, in un’altra
vetrina, c’è una foto molto più sorprendente: José Fidencio è vestito da
Madonna, con un abito rosso lungo fino ai piedi e un manto blu. E’ già
diventato il Niño Fidencio, curador
mistico conosciuto e venerato in tutta la regione.
La storia mi appassiona. A dire il vero, la religione
cattolica pullula di “Santos Folk”, sciamani locali, guaritori carismatici come
il Niño, adorati in una regione ma non riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa.
Eppure la sua storia ha qualcosa di speciale. O speciale pare a me, perché è la
prima volta che indago su un personaggio storico così da vicino.
Il Niño scopre i suoi poteri di guaritore da bambino.
Alla scuola elementare religiosa, incontra il nipote di uno dei suoi
insegnanti, Padre Segura, Enrique Lopez de la Fuente. I due ragazzini si legano
in un’amicizia che durerà tutta la vita. Padre Segura insegna loro l’uso delle
erbe per curare i malati, e il Niño rivela il suo carisma da guaritore, tanto
che Enrique Lopez ne è completamente conquistato. Più tardi Lopez partirà per
unirsi alla Rivoluzione e i due resteranno separati per nove anni. Secondo le
testimonianze dell’epoca, il Niño non si sviluppa, resta un bambino asessuato:
benché cresca in altezza, i suoi attributi maschili sono atrofici e la voce è
infantile. Si potrebbe pensare a un caso di sindrome
di Klinefelter, una variazione cromosomica abbastanza comune che colpisce
un uomo su mille: invece di un cromosoma sessuale X e un Y, chi ha la sindrome
di Klinefelter di cromosomi sessuali ne ha tre: due X e un Y. La maggior parte
di coloro che hanno XXY non se ne accorgono nemmeno, e vivono una vita sana e
normale. Ma alcuni possono sviluppare gravi sintomi, come infertilità, atrofia
degli organi sessuali, altezza sproporzionata, petto pronunciato, pochi peli e
un generale disequilibrio ormonale. Comunque sia, diventato adulto, il Niño non
ebbe nessuna vita sessuale, cosa che rese ancora più celebre la sua fama di santo.
Tornato dal fronte, Lopez si stabilisce ad Espinazo per
lavorare nelle miniere e fa diversi figli. Rintraccia il suo amico d’infanzia e
gli chiede di venire ad aiutarlo perché uno dei suoi figli è malato. Il Niño
arriva e compie il miracolo, il bambino è salvato nell’ammirazione generale.
Lopez e il Niño non si lasceranno più e resteranno a Espinazo, che diventa la
patria del Fidenzismo.
Il Niño comincia le sue
guarigioni spettacolari mescolando misticismo, concentrazione, carisma e
decotti di erbe. La sua fama si diffonde in fretta e da tutta la regione arriva
una corte dei miracoli di malati in cerca di guarigione. Lo ricordano come un
uomo infantile e felice, che prescriveva ai poveri disgraziati musica e buona
cucina. Una volta curò un muto facendolo così arrabbiare che quello si mise a urlare,
un’altra una paralitica spargendo caramelle per terra fuori dalla portata della
donna che, senza neanche accorgersi si alzò e cominciò a camminare per raccoglierle.
Cos’è il carisma? Cos’è l’aura che emana questo ragazzo alto e bruno, quali
poteri sovrannaturali gli sono stati concessi, quale balsamo passa dalle sue
mani ai corpi storpiati di quei poveretti?
Al culmine della tensione sciamanica, quando i suoi
poteri si moltiplicano e la guarigione si compie, il Nino diventa donna. Anzi,
la Madonna. La sua voce si fa acuta e spesso indossa un abito rosso lungo con
il manto azzurro. Sono le donne della borghesia locale di Mina che glielo hanno
procurato. La sua incarnazione femminile seduce e dà potere alle donne. Il Niño
porta in sé il carisma femminile, il potere segreto della donna che cura,
perdona e lenisce tutti i mali, la Madonna della Misericordia, il refugium peccatorum sotto il cui manto
i disgraziati vengono a consolarsi e a chiedere perdono. E’ un potere
selvaggio, buono e violento: il Niño fa a modo suo, non accetta consigli, si
spazientisce e grida se viene interrotto nella sua trance quando è invasato e ha ricevuto lo spirito. Si veste da Madonna,
diventa donna mentre lo spirito che riceve è quello di un bambino, di Gesù,
come se il suo stato sciamanico fosse un’epifania del mistero cristiano per
eccellenza, di quella donna vergine con suo figlio, quel binomio rappresentato
ovunque nei quadri, nelle chiese, nelle statuette, negli affreschi, la strana
relazione della ragazza madre e del figlio divino, come se la sapienza divina
non potesse che emanare da un corpo femminile e vergine.
Una volta lessi che esistono certi pesci il cui sesso è
reversibile, come Orlando, il
protagonista - o la protagonista - del
romanzo di Virginia Woolf. Il Labroides
Dimidiatus Meyeri, un piccolo pesce comune dei fondali rocciosi, che vive
in simbiosi con pesci più grossi nutrendosi dei loro parassiti, ha un singolare
comportamento di gruppo. C’è un maschio dominante che veglia sul suo harem, ma se s’indebolisce o muore,
allora la femmina dominante dell’harem comincia a mostrare un comportamento
aggressivo e dopo tre o quattro giorni si trasforma in maschio. La cosa mi
aveva molto colpita, perché avevo sempre creduto che essere maschio o femmina
fosse un destino immutabile.
Il Niño è
l’opposto del pesciolino dei fondali rocciosi: lui, quando si fa potente e
aggressivo, diventa donna. E’ il suo poderoso istinto di madre,
quell’intuizione cosmica di aver generato tutto con il proprio corpo, il senso
che tutto gli appartiene e che solo lui ne è il responsabile che gli dà potere.
L’empatia totale del Niño è il suo carisma di donna.
Ci aggiriamo per Espinazo in cerca di storie sul Niño.
Alcuni degli abitanti più anziani l’hanno conosciuto: è morto a 40 anni nel
1938. Tu incoraggi gli studenti a trovare un “informatore”, come si fa nei veri
terreni antropologici, qualcuno cui dare fiducia e che li accompagni durante la
loro esplorazione, facendo loro incontrare persone rilevanti e mostrando loro case,
paesaggi, oggetti che permettano di rendere più vivida la storia del Niño.
Al centro del paese c’è una piazza dove ci sono due
grandi fontane con vasche basse. Qui i curadores,
eredi dei poteri del Niño, entrano
in trance per accogliere lo spirito.
Li guardiamo stupefatti, ma loro sono abituati alle visite: recitano la loro
parte senza scomporsi, anzi, felici di avere un pubblico numeroso.
Non avevo mai visto qualcuno entrare in trance. E’ uno stato quasi contagioso,
fatto di lamenti, movimenti a scatti, tremori, cambiamenti di voce. La maggior
parte dei candidati a ricevere lo spirito del Niño, i sacerdoti del fidenzismo, sono donne. Donne maschili,
robuste, con i capelli tagliati corti, assomigliano a dei ragazzini. Tutta
l’eresia cattolica del fidenzismo
sembra basata su una continua inversione di sesso. Il Niño è un ermafrodita che
si veste da donna per curare i malati, le sue protettrici sono le donne di
potere della borghesia locale, e le sue sacerdotesse sono donne vestite da uomo
che all’apice della trance assumono
la voce del Niño ragazzino, una voce bianca, pre-puberale.
Guardando le sacerdotesse in trance, mi viene da pensare
che fu grazie a te che diventai una donna. Prima di incontrarti ero un
androgino ben vestito, dai modi femminili e dal cervello maschile e aggressivo.
Non mi piegavo mai, ero fatta di vetro: fragile e tagliente. Studiavo cose
difficili, parlavo di cose difficili, volevo sempre averla vinta. Mi ricordo
che fu tale lo sforzo di scrivere la mia incomprensibile tesi di dottorato che
non ebbi più le mestruazioni per sei mesi. Chissà che ormoni avevano scatenato
i miei neurotrasmettitori impegnati nella definizione del concetto di informazione…
Andai dal medico pregandolo di rendermi le mestruazioni, e lui mi guardò
giudicante, mi chiese cosa facessi nella vita, e quando gli dissi che passavo
le mie giornate a leggere Rudolf Carnap e la logica filosofica, mi disse che il
miglior modo di riavere le mie mestruazioni sarebbe stato quello di leggere
romanzi rosa e pensare al matrimonio. Me ne andai sbattendo la porta e dandogli
del vecchio barone sessista. Eppure, di lì a poco, mia sorella rimase incinta
del suo secondo figlio. Quella notte sognai una Madonna insanguinata, il manto
e le mani erano coperte di un sangue denso e colloso e lo sguardo era beato. Mi
svegliai tristissima, rimpiangendo le mie mestruazioni involatesi in chissà
quale dei mondi possibili aridi e astratti che abitavo in quegli anni. Sognavo
di tornare a terra, a casa, alla carne e al sangue che mi stavo negando da
anni, ai parti e ai vagiti di bambini, ai seni carichi di latte…
Proprio in quegli anni cominciai a frequentarti
assiduamente, per tradurre i tuoi libri e chiederti consigli sui miei studi.
Venivo a trovarti a casa tua, mi sedevo sul divano e ti lasciavo parlare. Ogni
tanto mi prestavi dei libri, che riportavo a casa come sacre reliquie. Ero
terribilmente intimidita da quegli incontri. Un giorno ti chiesi se potevo
fumare una sigaretta per accompagnare il caffè che mi avevi preparato. Mi
risposi secco che non avevi nulla in contrario, ma che vedere una donna che
fuma ti faceva lo stesso effetto di vedere “une personne qui se met une saleté dans la bouche”…la frase mi paralizzò.
Ovviamente quella sigaretta non l’accesi, e non ebbi mai più il coraggio di
fumare davanti a te. Avevi l’autorità che mi era mancata da ragazza, e mi
facevi sentire una bambina stupida. Davanti a te il mio corpo androgino si
scioglieva, diventava semplicemente il corpo vulnerabile di una donna ai tuoi
occhi giovanissima. Ogni volta che uscivo da casa tua, avevo l’impressione che
la mia voce fosse andata in “falsetto”, si fosse fatta stridula e troppo acuta.
Una volta entrate in trance,
le sacerdotesse del fidenzismo sono possedute da diversi spiriti prima di
ricevere quello del Niño. Con gli occhi chiusi e la testa a penzoloni, si
lasciano invadere da spiriti di passaggio, come quello di Pancho Villa, eroe della rivoluzione messicana, detto anche El Centauro del Norte comandante della Division del Norte, e poi governatore
della città di Chihuaha, popolarissimo nel Nord del Messico. Allora scherzano,
fanno la voce forte, chiamano ad adunata tutti gli astanti e cantano inni
rivoluzionari. Poi la voce d’un tratto muta, un altro spirito passa, si sente
cantare:
Vamos todos alabando
Del mundo no hagamos caso
Porque ya vamos llegando
A la estaciòn de Espinazo
I
pellegrini osservano incantati, le sacerdotesse si scatenano, il rito è
alimentato dalla fiducia collettiva che permea le possessioni: dobbiamo
crederci tutti, dobbiamo essere dentro il rito, non c’è posto per gli
osservatori. Spesso, amici antropologi mi avevano raccontato di fenomeni di
contagio successi anche a loro: le crisi epilettiche, per esempio, sono comuni
tra coloro che osservano una cerimonia di possessione. Anche io sento il mio
corpo fremere, attraversato da chissà quali spiriti. Finalmente, la
sacerdotessa che è davanti a me si calma, il suo corpo non trema più, la voce
si fa sottile, sempre più acuta, come quella di un bambino: il Niño è dentro di
lei. Ora può benedire i malati e cominciare a curare.
Mi
allontano con la mia informatrice, una bella ragazza di vent’anni che parla un
po’ di inglese, ma con la quale ci capiamo mescolando spagnolo e italiano. Ho
la testa che gira, lei dice che è normale se è la prima volta che assisto a una
possessione, sono spiriti molto potenti, mi dice, e quando passano travolgono
tutto e tutti. Mi porta a visitare la chiesa di Espinazo. E’ un giorno
speciale, c’è una cerimonia in onore del Niño e del bambino Gesù. Un girotondo
di bambine mi accoglie nella chiesa, ho la nausea e ho paura che l’odore di
incenso mi faccia svenire. Cantano una nenia sempre uguale, ripetendo qualcosa
sul Niño, il bel Niño, il bel bambino, e passandosi un bambolotto addobbato di
paramenti, sembra vestito come un vescovo, con un abitino di raso viola, lo
stesso viola dei mantelli che indossano le sacerdotesse fidenziste durante le
cerimonie e le cure.
Sono
trascinata nel cerchio, mi dondolo anch’io su un piede poi sull’altro ripetendo
la nenia che cantano tutte. Il bambolotto fa il giro delle braccia, ognuna di
noi se lo tiene in braccio e lo culla
per qualche minuto, poi lo passa alla vicina. Comincio a sentirmi meglio, a
provare piacere in quella strana danza, mi calma dall’agitazione delle
possessioni, è una dimensione collettiva, ma non alienante come quella della trance. Sono io e non sono io, qualcosa
sta succedendo dentro di me che va al di là dei limiti del mio corpo, ripeto in
modo automatico i gesti che fanno gli altri e mi annullo in quel rituale
mistico.
Di lì a
poco è ora di ripartire. Ci siamo dati appuntamento davanti al pullman
all’entrata della città alle cinque del pomeriggio. La mia informatrice mi ha
regalato un amuleto, un bastone di corda intrecciata da cui pendono due teste
d’aglio, una boccetta di acqua santa e una foto in banco e nero del Niño. Mi
dice di conservarlo con molta cura, che è un regalo importante. Sorrido imbarazzata
e insieme convinta, le dico che lo riporterò a casa e che lo conserverò nel
cassetto della mia scrivania, dove accumulo da anni preziose cianfrusaglie,
come lettere, ricordi di viaggi e vecchi portafogli.
Durante
il viaggio di ritorno, ti sorrido felice. Sto pensando al futuro, al libro che
scriverò sul Niño Fidenzio, ai miei viaggi, ai nostri viaggi, a una vita piena
di avventure. Di colpo, la zavorra del mio passato, quel consigliere cattivo
che mi ripete da sempre che i miei sogni ad occhi aperti non si realizzeranno,
che non andrò lontano, che la mia immaginazione ha le gambe corte, si è messo a
tacere, e il mondo mi sembra a portata di mano, accessibile, infinito. Tu, come
al solito, mi incoraggi. Ti fa così piacere vedermi sognare, vedermi uscire
dalla mia crisalide di tristezza milanese, sempre dubbiosa di me, che mi dici,
certo, torna quando vuoi, hai visto com’è facile? Se te ne stai un paio di mesi
qui, puoi scrivere un libro bellissimo sul Niño.
Anche
gli studenti della business school
sembrano soddisfatti. Sono meno sognatori di me, hanno guardato il tutto con
condiscendenza, ma anche con un po’ di vergogna, perché forse non si
aspettavano che a pochi chilometri dalle loro case di ricchi di Monterrey ci
fossero tali “riti selvaggi”. Anzi, alcuni di loro cercano quasi di scusarsi
dell’arretratezza del loro paese. Comunque è successo qualcosa a tutti quanti,
un’esperienza, insomma. L’umore è ottimo durante il viaggio di ritorno, e la
sera ci portano a mangiare in un ristorante circondato da montagne, dove la
luce della luna si riflette in modo tale da illuminare a giorno i tavoli. Il
chitarrista che anima la serata canta Paolo Conte con voce triste.
Passo il
resto delle giornate a Monterrey a leggere di antropologia, di ermafroditismo,
di animali che cambiano sesso. Metto insieme alla rinfusa un progetto di libro
che non scriverò mai, ma che anima quelle giornate di entusiasmo.
Torniamo
verso metà gennaio. Il 6 febbraio partiamo per Londra, come al solito per una
tua conferenza. Festeggiamo il mio compleanno a China Town. Poi, qualche giorno
dopo, prendo un volo Low Cost, il
primo della mia vita, per andare da Londra a Milano a festeggiare i
settant’anni di mio padre. La compagnia aerea si chiama Buzz, l’aereo è ridicolmente viola e giallo. Quell’aereo colorato e
infantile mi mette di buon umore. Chissà perché anche quello è un segnale di un
mondo migliore davanti a me, dove si volerà quasi gratis in giro per il mondo.
Dopo la festa di compleanno per papà, prendo un treno e vado in Maremma a trovare
la mia più vecchia amica. Appena scendo dal treno, lei mi guarda e mi dice che
ho qualcosa di strano negli occhi, una luce nuova. La mattina prendiamo la sua
piccola auto elettrica e andiamo in farmacia a comprare un test di gravidanza.
E oplà: sono incinta!
Anni
dopo, quando casa nostra era già invasa di disegni infantili di Leo e dei suoi
giocattoli, vennero a trovarci a Parigi una coppia di amici americani. Lei più
giovane di lui, ma al limitare degli anni fertili, troppo agitata, piena di ansie,
mi faceva pensare a me stessa di dieci anni prima. Stava facendo cure di tutti
i tipi per riuscire ad avere un bambino. L’ascoltai paziente, mentre tu
chiacchieravi di cose accademiche con suo marito. D’un tratto, le dissi di
aspettare un momento, andai nel mio studio, aprii il cassetto delle cianfrusaglie
e con molta cura estrassi l’amuleto del Niño. Lei, filosofa, quando glielo
porsi mi guardò come fossi matta. Si mise a ridere, e anche noi ridemmo. “Tanto
non vi costa nulla”, dissi io, per sdrammatizzare.
Tre
settimane dopo ricevemmo una busta DHL da New York. L’amuleto era dentro con un
biglietto: “The Niño strikes again”.
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