Ricco, famoso, pluripremiato, Orlando Figes aveva tutto dalla vita. Figlio della femminista Eva Figes, sposato a un’avvocata conosciuta, il più celebre storico britannico dell’Unione Sovietica poteva dormire sonni tranquilli. E invece, la notte, stava sveglio a scrivere su Amazon.co.uk recensioni velenose contro i libri dei suoi colleghi sovietologi per rovinare la loro reputazione. Autore di best-sellers come Sospetto e silenzio. Vite private nella Russia di Stalin (Mondadori, 2009) e La danza di Natasha. Storia della cultura russa (Einaudi, 2004), Figes era apprezzato sia dal grande pubblico sia dai colleghi specialisti, una reputazione rara, da difendere a caro prezzo, perché normalmente chi è amato dai molti è odiato dai pari. Eppure, per la sete di gloria, ha perduto tutto.
All’ennesima stroncatura online, il suo rivale, Robert Service, professore di storia a Oxford, comincia a insospettirsi. Le recensioni, che definiscono il suo ultimo libro, Comrades, “orrendo” e “curiosamente noioso”, provengono tutte da un recensore anonimo, che si firma historian. Da bravo storico, Service si lancia in una ricostruzione filologica dello stile dei messaggi, e, quando inizia ad accumulare prove, ne parla ad altri colleghi anch’essi colpiti dalle stroncature misteriose, e scrive ad Amazon per domandare l’indirizzo IP del computer da cui provengono i messaggi. Intanto, Rachel Polonsky, che aveva recensito negativamente qualche anno prima un libro di Figes sul Times Literary Supplement, riceve la seguente recensione del suo ultimo lavoro, Molotov’s Magic Lantern, dallo stesso misterioso historian: “E’ uno di quei libri riguardo al quale la prima domanda che viene in mente è perché sia stato scritto”. La Polonsky e Service proseguono insieme l’inchiesta: in effetti, basta un click sul profilo di historian per vedere che è uno pseudonimo legato al conto orlando-birkbeck, un bell’atto mancato per qualcuno che vuole distruggere i suoi nemici. Polonsky salva tutte le recensioni di historian, tra le quali anche un’invettiva contro Kate Summerscale, che nel 2008 aveva soffiato a Figes un premio letterario importante: “A cosa stavano pensando i giurati del Samuel Johnson quando hanno dato deciso di premiare questo libro?” In verità, historian non si limita a stroncare gli avversari: ama anche scrivere recensioni appassionate, solo però dei libri di Figes. Di Sospetto e Silenzio, infatti, scrive: “Meravigliosamente scritto, lascia il lettore stupito, travolto eppure più lucido di prima. Un regalo per tutti noi”.
Accusato, Figes contrattacca, nega tutto, dice agli avvocati di fare causa a Service per diffamazione: in una battaglia reputazionale sempre più shakespeariana, Figes è messo ai ferri corti dalle prove schiaccianti fornite dalla Polonsky. Allora, sempre di notte, cancella gli pseudonimi e accusa la moglie di essere lei l’autrice delle recensioni, perché non poteva accusare nessun altro, dato che l’indirizzo IP del computer corrispondeva a quello di casa sua! Come nel romanzo di Emannuel Carrère, L’avversario, in cui il protagonista preferisce sterminare l’intera famiglia che confessare di avere una falsa reputazione, Figes diffama la povera moglie avvocata, minaccia Service di lasciarlo in mutande per i soldi che dovrà pagare di causa, e infine crolla: confessa tutto, dicendo di non capire lui stesso il perché delle sue azioni, e accusando una grave depressione nervosa.
Una colossale guerra di reputazione in ambienti, come l’accademia e l’editoria e Internet, che si nutrono come vampiri di questo strano elisir del presente, che guida le nostre azioni contro qualsiasi razionalità. La reputazione - l’essere visto negli occhi degli altri – quel riflesso delle nostre azioni nello sguardo altrui, è forse la nostra passione più profonda. Forse, dietro all’Homo Oeconomicus razionale e interessato, esiste un’altra faccia delle nostre motivazioni, la Passione della Gloria, come la chiamava Hobbes, unica a garantirci di essere visti, di non svanire nel rumore collettivo. Ma attenzione: la reputazione consegna allo sguardo altrui il destino della nostra immagine, rendendolo manipolabile, fragile e fa così di noi stessi le prime vittime del nostro bisogno di esistenza sociale.