Draft. Do not quote without permission. Submitted to the GOSH volume, edited by Valentina Chizzola.
Abstract in English: I present four possible positions about the relation between sex and gender: - gender is socially constructed
- sex is socially constructed
- gender is naturally determined
- sex is naturally determined
By discussing Thomas Laqueur's work Making Sex, I reconstruct the history of the "one-body", "two-bodies" theories of sex, and agree with him that sex is a scientific category, thus partly socially constructed, that emerges in modern science. I then argue that some contemporary positions in gender studies could be seen as compatible with some contemporary scientific theories on the relationship between nature and culture. For example, Judith Butler's gender performativity theory could be read in a more naturalistic stance. The dialectic between sex and gender overlaps in so many ways the one between nature and culture and one cannot be understood without exploring the other. Non sono una studiosa di gender studies. Sono una donna, e perciò ho uno spontaneo interesse per un campo d’indagine che cerca di comprendere gli aspetti sociali e culturali della distinzione tra maschile e femminile. Inoltre mi occupo di epistemologia sociale, ossia di quell’ambito dello studio della conoscenza che cerca di comprendere la dimensione socioculturale della costruzione del sapere. Nel mio lavoro intellettuale ho dunque spesso incrociato gli interessi dell’epistemologia femminista, ossia di quelle autrici, come Donna Haraway, Helen Longino, Sandra Harding e Miranda Fricker che ritengono che la conoscenza non sia neutra rispetto ai ruoli sociali: la verità è in qualche modo “sessuata”, così come lo sono l’autorità e il potere e il punto di vista di chi dice cosa: la nostra posizione nel mondo, le relazioni di potere a cui siamo sottomesse/i non possono essere dissociate da ciò che diciamo. Per esempio, la standpoint view theory delle filosofe femministe sostiene che la conoscenza è socialmente situata, e che chi è in una posizione sfavorevole, marginale, nell’organizzazione sociale e politica del sapere, vede cose che chi è centrale a quest’organizzazione non vede. Recentemente, in un’intervista per La Repubblica (3 novembre 2011), la filosofa francese Elisabeth Badinter, una delle massime critiche del femminismo americano contemporaneo, ha sostenuto che l’autorità non ha sesso: il potere non è né maschile, né femminile: bisogna permettere alle donne di accedere alle cariche di potere con le stesse opportunità degli uomini, ma un mondo del potere a maggioranza femminile sarebbe per lei identico al mondo attuale, in cui il potere è ancora sostanzialmente in mano a una maggioranza maschile. Per la teoria sociale femminista e l’epistemologia femminista, la posizione di Badinter è frutto della stessa cieca sottomissione a una dominazione patriarcale che è talmente incarnata nelle nostre strutture di pensiero e d’azione da sembrare naturale all’occhio ingenuo della maggior parte delle persone, ma che in realtà non è che il frutto di una particolare configurazione storico-sociale (la struttura patriarcale) e dipende dal punto di vista di un gruppo dominante in questo periodo storico.
Il dibattito è aperto: questa premessa mi serve solo per “collocare” il mio contributo all’interno di questo libro. Benché non sia una specialista degli studi di genere, condivido con questi studi la postura intellettuale di fondo, ossia, lo sguardo disincantato che mi fa vedere qualsiasi gerarchia sociale e ordine del discorso come frutto di un punto di vista situato in uno spazio storico.
Il mio intervento si concentrerà sulla dialettica della distinzione sesso/genere, com’essa si è articolata nella storia del pensiero e negli attuali gender studies e quali sono i suoi rapporti con il dibattito natura/cultura.
Nel panorama attuale dei gender studies, si possono distinguere almeno quattro posizioni sulla costruzione dei ruoli sessuali:
• La differenza tra i generi è costruita
• La differenza tra i sessi è costruita
• La differenza tra i generi è naturale
• La differenza tra i sessi è naturale
Il punto di partenza di questa discussione risale al libro di Simone de Beauvoir, Le deuxième sexe, pubblicato in Francia nel 1949. In questo saggio, divenuto celebre per la frase: “Non si nasce donna. Lo si diventa”, in realtà la Beauvoir dedica una lunga parte alla differenza biologica tra i sessi e al femminile biologico: maschi e femmine sono due tipi di individui che si distinguono all’interno di una specie per la riproduzione. Dopo un lungo capitolo sulla distinzione biologica maschile/femminile, incentrato principalmente sui ruoli riproduttivi e sulle diverse teorie della riproduzione accumulate nei secoli, la Beauvoir conclude che tutto ciò non è sufficiente a definire la donna come l’Altro per eccellenza in contrapposizione al quale l’identità maschile si è costruita: nessuna realtà biologica può determinare un’identità fino a quando non è assunta a livello cosciente e vissuta nelle proprie azioni. La famosa frase: “On naît pas femme : on le devient” echeggia in tutto il dibattito contemporaneo sulla distinzione tra sesso e genere. Se le differenze sessuali sussistono nella maggior parte delle specie viventi per ragioni riproduttive, ciò è altamente sotto- determinato rispetto all’esistenza dell’identità maschile e femminile. La natura femminile non sarebbe correlata alla cultura femminile: difatti, anche nel mondo animale troviamo tratti “femminili”, ossia destinati alla gestazione, in individui che per comportamento sociale sono definiti “maschi”. Insomma: non c’è una corrispondenza evidente tra essere un individuo portatore di tratti riproduttivi femminili ed essere un individuo culturalmente e socialmente “donna”.
Eppure, le quattro posizioni che ho elencato sopra, mostrano che i rapporti tra natura e cultura sono più complessi di quanto Simone de Beauvoir riconoscesse nel suo libro.
La distinzione tra genere e sesso è moderna. Risale al XVIII secolo e allo sviluppo della scienza medica e dei manuali di anatomia. Il sesso è visto allora come componente anatomica del genere, o biologica, o ancora genetica (questo più avanti, nel XX secolo).
La teoria classica del corpo umano è basata sull’idea di un corpo unico. Galeno, il medico/filosofo più celebre dell’antichità, conosciuto anche per essere uno dei primi a praticare dissezioni su animali come le scimmie e i maiali, data la proibizione a Roma di effettuare qualsiasi indagine anatomica sui cadaveri, scrive: “Le donne hanno esattamente gli stessi organi sessuali degli uomini, solo messi al posto sbagliato”. Data l’ignoranza sul ruolo degli organi genitali nella riproduzione, Galeno vede l’utero femminile come un fallo introiettato e le ovaie come i testicoli. L’esplorazione delle fattezze del corpo parte dal presupposto di un corpo umano unico, legato intimamente alle leggi del macrocosmo e del microcosmo. Le differenze tra corpo femminile e corpo maschile “disturbano” una visione del corpo umano come struttura organizzata centrale nell’equilibrio dell’universo.
In questa tradizione, gli organi genitali femminili sono l’equivalente imperfetto degli organi maschili: degli organi maschili non “sbocciati”. Thomas Laqueur ricorda il parallelo che Galeno fa tra gli organi femminili e gli occhi della talpa: come la talpa ha occhi anatomicamente simili agli occhi di animali simili, ma non li apre e quasi non vede, così la donna ha genitali simili a quelli maschili, ma “chiusi” dentro di sé, non esposti, e quindi meno completi e meno usati.
Aristotele avvalla la stessa teoria: il corpo umano è unico, le differenze anatomiche sono un accidente: l’uomo e la donna hanno sessi differenti perché hanno ruoli sociali differenti. Perciò lo schiavo non ha sesso: non c’è pudore davanti allo schiavo a mostrarsi nell’intimità, che si sia uomini o donne. Perché è il ruolo a determinare la dinamica tra i sessi, la seduzione, le posture, il pudore. Lo schiavo, privo di ruolo sociale, non entra nel gioco complesso dell’articolazione maschile/femminile.
La teoria del corpo unico sarà ripresa lungo tutto il Medioevo, durante il quale la medicina galenica resta l’autorità principale. Nelle immagini anatomiche del Rinascimento, il corpo maschile e quello femminile sono spesso raffigurati vicini e complementari, la vagina rappresentata come un lungo fallo introiettato. Andrea Vesalio (1514-1564), fondatore dell’anatomia moderna, grazie al suo celebre trattato De humani corporis fabrica, nonostante le numerose dissezioni anatomiche su corpi maschili e femminili, rappresenta un corpo umano unico, con sembianze differenti nella donna e nell’uomo che sono il frutto di diversi gradi di espressione degli stessi organi: solo l’utero crea problemi in questa visione, ed effettivamente gli anatomisti si domandano quale possa essere l’equivalente maschile di tale organo. La risposta più comune è che l’utero, più che un organo, sia nient’altro che una sacca di contenimento per il bambino, perché, ovviamente, che fosse la donna a portare la gravidanza, era una realtà ben evidente.
Con la rivoluzione scientifica, assistiamo a una lenta presa di coscienza della differenza tra uomo donna come differenza biologica. Con lo sviluppo della tecnica del microscopio e della microbiologia, la questione della differenza maschile/femminile diventa una questione scientifica di differente funzione degli organi nella riproduzione. Le osservazioni al microscopio di Antonie van Leeuwenhoek (1632-1723) portano alla scoperta degli spermatozoi, un primo passo dunque verso la comprensione del ruolo dei due sessi nella riproduzione. Prima di Leeuwenhoek, l’atto sessuale tra uomo e donna produceva da parte di entrambi del liquido che permetteva lo sviluppo del bambino a partire da una matrice/uovo che conteneva già tutte le caratteristiche del futuro individuo (teoria della preformazione). La scoperta degli spermatozoi, nel 1677, mette in questione la visione classica della preformazione: Leewenhoek si rende conto che nel liquido seminale maschile sono presenti milioni di “piccoli animali”, come li definisce, che hanno testa e coda e una vita propria. Il loro ruolo dev’essere quindi distinto dai liquidi prodotti dalla donna. Leeuwenhoek sviluppa una teoria erronea sugli spermatozoi, conferendo loro un ruolo preodominante nella riproduzione: sarebbe lo spermatozoo il portatore della “matrice”: esso conterebbe una miniatura di individuo già preformato che viene inculcato nell’uovo femminile e germina nell’utero durante la gestazione. La scienza embriologica, sviluppatasi soprattutto nell’Italia del Settecento, permetterà di rivedere le teorie di Leewenhoek: Lazzaro Spallanzani infatti scopre nel 1768 il ruolo complementare dell’uovo e dello spermatozoo nella riproduzione. Ma è solo con il XIX secolo che l’embriologia si sviluppa in modo sistematico, e con il Novecento che la scoperta della differenza genetica tra sessi permette di comprenderne appieno il ruolo nella riproduzione.
Eppure, già le scoperte della microbiologia sei/settecentesca, secondo lo storico Thomas Laqueur, “creano” la distinzione biologica tra i sessi: le differenze anatomiche non sono più meri accidenti di un corpo unico, ma differenze di funzione biologica. Di qui la tesi provocatoria di Laqueur che sia la differenza tra i sessi e non tra i generi ad essere socialmente costruita con l’avanzare della scienza moderna. I corpi sessuati umani dell’era moderna sono anatomicamente e biologicamente distinti. Le funzioni degli organi femminili non corrispondono alle funzioni degli organi maschili. La donna diventa un’altra “specie”, con altre funzioni, non solo sociali, ma anche biologiche. Sempre secondo Laqueur, ciò spiegherebbe il fiorire di una letteratura settecentesca sulle buone maniere femminili, su come si deve comportare una donna, come se anche per questo essere ora sessuato e biologicamente distinto ci fosse bisogno di fornire indicazioni per il suo comportamento sociale.
Dunque, per riprendere lo spazio di posizioni da cui sono partita, mentre la Beauvoir (come la maggior parte delle teoriche dei gender studies contemporanee) vede nella distinzione maschile/femminile il sostrato biologico, naturale di una costruzione sociale di genere, c’è chi sostiene, come Laqueur, che sia la distinzione di genere a essere “naturale” (i ruoli sociali distinti sono dati per scontati in tutte le società umane e in tutte le epoche storiche) e quella di “sesso” ad essere costruita culturalmente.
Ciò dimostra come in quest’ambito di ricerca la sottodeterminazione dei dati sulle teorie permette di sostenere posizioni molto diverse. In effetti, non è per nulla chiaro quale sia la determinazione biologica dei ruoli sociali e culturali, né quale sia il ruolo della biologia nel determinare certi tratti psicologici, che possono stabilizzare pratiche culturali, identità e assunzione di ruoli.
La definizione di cosa sia il “sesso”, anche anagraficamente, è molto ambigua: dal punto di vista medico odierno, il sesso è una nozione complessa, transdisciplinare. Si distingue oggi istituzionalmente tra:
1. sesso genetico o cromosomico
2. sesso ormonale
3. sesso anatomico o apparente
4. sesso psicologico o psicosociale
5. comportamento sessuale.
Per esempio, nel caso del transessualismo, per il cambiamento di sesso anagrafico è richiesta in molti stati una perizia medica che dimostri la persistenza del cambiamento di sesso psicologico e un intervento chirurgico che predisponga il cambiamento di sesso anatomico. Ma nel 1998, una sentenza in Francia dichiarò che il cambiamento di sesso anatomico non era sufficiente per il cambiamento di sesso anagrafico, perché una trasformazione della forma degli organi sessuali non può cambiare la loro funzione biologica e genetica. Benché ci fu un ricorso e un appello alla Comunità Europea che annullò la sentenza, il caso mostra il mélange di concezioni intuitive della sessualità, pressioni normative e sentimenti personali che influenzano ancora oggi la nostra confusa visione di cosa significhi avere un sesso o appartenere a un sesso.
Insomma, la natura non ci aiuta più di tanto a spiegare la nostra appartenenza sessuale, benché gli aspetti naturali, biologici di quest’appartenenza siano innegabilmente rilevanti, tanto da essere richiesti come prove di appartenenza sessuale in decisioni giuridiche.
Il problema è più generale: i rapporti tra natura e cultura sono complessi e difficili da articolare in tutti i campi, non solo in quello che tocca la differenza sessuale. La determinazione biologica delle funzioni psicologiche e culturali dice ben poco dell’enorme esplosione culturale della specie Homo Sapiens Sapiens, la cui differenza di genoma con altre specie di primati, come gli scimpanzé, è inferiore all’1%. Tipicamente, l’eccezione culturale è spiegata con lo sviluppo del linguaggio come “organo sociale e rappresentazionale” per eccellenza della nostra specie, che la distingue da tutte le altre specie viventi. Ma le basi biologiche del linguaggio sono molto poco chiare: dunque ricadiamo nel problema iniziale: come spiegare l’articolazione tra biologia e cultura?
Il femminismo post-moderno condanna la distinzione biologica come irrilevante e sostiene che la distinzione pertinente sia quella socio-culturale, che riflette una struttura di dominazione di un sesso sull’altro. E così ci ritroviamo con la teoria del “sesso unico”, in cui le differenze sessuali non dovrebbero pesare più di quelle tra “un calvo e uno pieno di capelli”, come diceva Platone, e vengono usate politicamente per giustificare una società duale e ineguale, basata su una struttura patriarcale.
Più interessante, o almeno più articolata per rispondere alla questione del rapporto biologia/cultura, è la teoria della performance (gender performativity) proposta da Judith Butler nel suo libro: La disfatta del genere. Secondo la Butler, il genere si determinerebbe in modo così culturalmente marcato attraverso una re-iterazione di atti, più o meno stilizzati da una cultura all’altra, che determinerebbero, tramite appunto la performance, l’accentuazione dei tratti di genere.
In che senso la teoria della performance della Butler può aiutarci a comprendere meglio l’articolazione natura/cultura nel caso del genere? Propongo qui, in conclusione di questo capitolo, un’interpretazione molto eterodossa della teoria della gender performativity, un’interpretazione che sia compatibile con una posizione più “naturalista” sulla distinzione maschile/femminile.
Difatti, la differenza genetica tra maschi e femmine non determina ovviamente in modo univoco lo sviluppo di certi tratti comportamentali. La teoria genetica è ben più complessa di così anche sullo sviluppo dei tratti biologici: i geni controllano la formazione delle proteine che costituiscono l’organismo: l’espressione degli enzimi che permettono la costruzione delle proteine dipende da molti fattori, anche ambientali. Un caso ben studiato negli esseri umani di espressione enzimatica controllata da fattori culturali e ambientali è il caso dell’espressione del lattase, l’enzima necessario a digerire il lattosio: prima della domesticazione dei bovini, circa 9000 anni fa, i bambini svezzati non bevevano più latte, e quindi non sviluppavano il lattase. Con l’introduzione dell’allevamento, gli esseri umani continuarono a sviluppare l’enzima controllato geneticamente, date le condizioni ambientali. Nei popoli dove non esiste allevamento di ovini o bovini, oppure dove non c’è la tradizione di bere il latte di questi animali, troviamo un’intolleranza maggiore al lattosio.
Se l’ambiente influenza l’espressione degli enzimi che controllano lo sviluppo di certi tratti, potremmo pensare che certi tratti tipici del comportamento di genere (per esempio: tratti virili, tratti materni, etc.) siano espressi in organismi biologici differenziati sessualmente a seconda del contesto ambientale. La struttura patriarcale, frutto della dominazione maschile, avrebbe in questo senso reso più probabile un’espressione dei tratti associati con i ruoli sociali che questa struttura destinava a uomini e donne: quindi, un tratto materno più pronunciato negli individui con un ruolo sociale inferiore, investito nel privato e nell’accudimento della famiglia e non nel pubblico esercizio del potere. Alcune pensatrici femministe, che però sono attente al sostrato biologico delle differenze di genere, sostengono posizioni che vanno in questo senso. Per esempio, Sarah Hrdy, nel suo bel libro Mothers and Others, sostiene che la famiglia patriarcale ha inibito l’espressione di tratti comportamentali evoluti nelle società primitive per occuparsi dei bambini, come la solidarietà e la cooperazione: il vantaggio cognitivo infatti del bambino umano rispetto alle altre specie starebbe proprio nell’essere educato da molti “altri”, e non solo la madre: altre donne, altri uomini – a differenza, per esempio, della maggior parte delle scimmie in cui il neonato resta attaccato solo alla madre per almeno i primi sei mesi di vita. La teoria della “performance” allora potrebbe essere anche letta in chiave naturalista/evoluzionista: l’iterazione di certi comportamenti all’interno di una certa gerarchia sociale favorisce (anche evoluzionisticamente) l’espressione di certi tratti sull’espressione di altri.
In conclusione, sono convinta che molte delle confusioni dei gender studies potrebbero essere risolte se si desse più peso all’articolazione tra i rapporti tra biologia e cultura, senza cadere in inutili riduzionismi, né in estremismi costruttivisti. La differenza maschile/femminile è forse la più profonda, la più interessante per comprendere cosa della biologia la nostra cultura ci lascia esprimere e viceversa.