Qui pubblico un estratto dell'intervista pubblicata su Micromega con Edmund White, scrittore, militante gay, erudito autore di biografie letterarie e squisito collega ed amico a Columbia University.
Si sa che a New York può succedere di tutto, anche di
avere come collega e “compagno di banco” all’Italian Academy della Columbia
University uno dei più grandi scrittori viventi, Edmund White, mostro sacro
della letteratura americana, vincitore in settembre del premio Francia-America,
per il suo nuovo romanzo Jack Holmes and his Friend (Bloomsbury, 2013). Celeberrimo
per il suo racconto autobiografico, Un giovane americano, uscito negli Anni Ottanta, White fu il
primo scrittore americano a fare un vero “coming out” sulla sua esperienza
omosessuale. Ma White è molto più di un’icona della letteratura gay: lettore
instancabile, ha dedicato gran parte del suo lavoro ai grandi maestri della
letteratura del Novecento, scrivendo un’imponente biografia di Jean Genet e
altri libri biografici su Proust e Rimbaud. Nato nel Middle West, White ha
vissuto a New York, Parigi, Roma, facendo il giornalista, l’editore, ogni tanto
l’accademico, un uomo con un’inesauribile curiosità intellettuale che ha l’aria
di qualcuno che non si ferma mai. E’ anche il grande scrittore dell’
“auto-fiction” americana, un genere letterario più tipicamente francese che
White ha declinato con estrema ironia, alternando racconti autobiografici a
vere e proprie “confessioni” di vita, giocando sul doppio filo della vita
romanzata e del romanzo della vita. Le sue confessioni irriverenti spesso
travolgono amici e conoscenti, che si ritrovano nel grande teatro letterario di
White messi a nudo con vizi e debolezze. Il libro in uscita in febbraio sui
suoi anni parigini, Inside a Pearl (Bloomsbury,
2014) si annuncia piccante e scomodo:
non farà piacere a tutti di ritrovarsi tra le pagine candide e pungenti di
quest’uomo di settantatre anni, sieropositivo e reduce da due infarti, con un
passato da libertino e uno sguardo ingenuo sul futuro da bravo ragazzo del Middle
West…
Ci incontriamo all’Italian Academy, un’istituzione
italiana, forse l’unica al mondo, che prende sul serio gli studiosi del nostro
paese. Si sa che il problema principale degli italiani è che sono i primi a non
prendersi sul serio. Eppure qui, grazie al tocco magico di un direttore
italofilo, cosmopolita e poliglotto – lo storico dell’arte David Freedberg – un
gruppo di “scholars” di casa nostra o di altre nazionalità con una ricerca
specifica sull’Italia, viene selezionato da un comitato accademico
internazionale per confrontarsi per qualche mese con i mostri sacri
dell’accademia e della cultura americana. E pure noi siamo costretti qui a prenderci
sul serio. White è uno dei fellows di quest’anno, perché lavora a un libro su
Lorenzo Da Ponte, librettista di Mozart, ma non solo, ebreo di nascita e poi
prete cattolico spretato, libertino e amico di Casanova e infine primo
professore di italiano proprio a Columbia University. Un altro spirito
instancabile che, come White, attraversa epoche e continenti con entusiasmo di
vivere, serietà e un’irresistibile bravura nel non prendersi troppo sul serio
che solo la libertà di pensiero può dare.
Gloria Origgi: Sono una tua
ammiratrice da tempo, un po’ perché amo l’autobiografia come genere letterario
e tu hai scritto molti libri autobiografici, e poi perché tu scrivi del mondo
letterario, dei mostri sacri della cultura e dell’industria culturale mondiale,
hai uno sguardo insieme ammirato e cinico nei confronti della grande
letteratura del cosiddetto “canone”. C’è una frase che mi ha colpito nel tuo
libro A City Boy. A un certo punto dici che un giorno capisti che la
grande letteratura in fondo non è altro che un ennesimo prodotto di marketing.
Cosa ne pensi oggi, quando ormai è chiaro che tu sei uno dei “grandi”? Esiste
ancora la grande letteratura?
Edmund White: Beh, non penso la grande letteratura sia semplicemente
una costruzione culturale, però sono convinto che c’è un’interessante
sociologia da fare sul fenomeno della cultura alta, e su come si crea
una reputazione, un tema che ti interessa particolarmente! Avendo vissuto
vicino a persone molto famose, come Susan Sontag, ho imparato a osservare le
loro strategie. Susan faceva sempre la mossa giusta per accumulare ancora più
celebrità di quella che aveva. Era davvero una stratega della reputazione. Per
esempio, mi ricordo un episodio del 1981. Premetto che gli intellettuali di
sinistra americani furono tra gli ultimi a riconoscere la crudeltà del regime
sovietico. La mia spiegazione è che la sinistra non aveva nessun potere negli
Stati Uniti e dunque poteva mantenere posizione astratte e radicali perché non
si confrontava mai con la realtà. Comunque, nel 1981 la Sontag fece un famoso
discorso a New York, nel Town Hall dicendo che il comunismo era fascismo dal
volto umano. Era l’anno in cui Reagan fu eletto presidente, l’aria dei tempi
stava per cambiare radicalmente, e lei se ne rese conto, e cambiò rotta. Il
pubblico le lanciò addosso i pomodori, il discorso fu oggetto di infinite
controversie nei salotti intellettuali newyorkesi, che ancora pullulavano di leftists convinti. Sembrava che avesse deciso di appoggiare
Reagan. Eppure lei aveva capito che, per salvare la sua reputazione, era tempo
di cambiare. E’ vero anche che in quegli anni lei subiva il fascino di Joseph
Brodsky, che aveva incontrato nel 1976 e al quale si era legata
sentimentalmente per un periodo. Brodsky ebbe un grande impatto sugli
intellettuali americani. I suoi processi, la persecuzione intellettuale,
avevano aperto gli occhi a molti sulla spietatezza dell’URSS. In ogni caso,
Susan si era subito allineata con la traiettoria internazionale del comunismo.
Un’altra volta fu al New York Institute for the
Humanities, dove volle parlare del
“viaggio”, ossia della peregrinazione degli intellettuali occidentali in Russia alla scoperta del
comunismo. Venivano portati a vedere fabbriche, a visitare fattorie, cose che
non avevano mai visto nei loro paesi, e poi a conoscere gli intellettuali
locali, che in realtà non erano altro che funzionari di partito. Quel che disse
a quella conferenza è che quel viaggio era sempre lo stesso, in Russia come a
Cuba o in Cina. Segue certe formule codificate. Era molto interessata agli
intellettuali che non si fecero sedurre dal viaggio, come per esempio André
Gide. La ragione per cui lo ammirava tanto è che lui aveva un interprete
francese in Russia, un comunista che era andato a vivere là perché credeva profondamente
nel sistema e che fu disilluso. Era l’informatore di Gide e gli aprì gli occhi
in modo che non fosse semplicemente sbalordito dal viaggio, come accadde a
molti. In ogni caso, Susan era bravissima a curare la sua immagine e farla
evolvere con i tempi.
G.O. La tua relazione
con Susan fu complicata, mi sembra di capire. Avevate un rapporto di amicizia e
stima reciproca, eppure tu decidesti di ritrarla in un personaggio del tuo
romanzo Caracole. Cosa
che le dispiacque molto…
Si arrabbiò
moltissimo. Chiese addirittura al mio editore di togliere le sue due righe di
presentazione del mio romanzo Un giovane americano dalla quarta di copertina in ogni lingua. Non so
perché. Non trovo quello che avevo scritto così aggressivo, e poi, è vero che
pensavo a lei, ma l’ambientazione è così diversa, così lontana, un mondo di
aristocratici e palazzi in una Venezia immaginaria del Settecento. Certo,
parlavo di una donna brillante e appassionata, molto spesso le due cose vanno
insieme, non trovi? Ho partecipato a un dibattito qualche sera fa con Catherine
Millet, la scrittrice francese del libro erotico La vita sessuale diCatherine M., anche lei è
brillante e appassionata, che male c’è?
In ogni caso, Susan
si arrabbiò moltissimo e rompemmo la nostra amicizia. La colpa fu in parte di
un’amica newyorkese negli anni in cui abitavo a Parigi, una grande alcolizzata,
alla quale il mio partner dell’epoca aveva detto che ero molto solo in Francia.
Allora venne a trovarmi, cominciammo a parlare e mi chiese di leggerle le cose
che stavo scrivendo. Così feci, e lei, senza rispettare il silenzio, dato che
si trattava di un manoscritto non ancora pubblicato, corse subito a raccontare
a Susan che stavo scrivendo su di lei, creando così il malinteso. Se non glielo
avesse detto, non se ne sarebbe neanche accorta. Comunque, una relazione
complicata.
G.O. Parlando di Susan
Sontag, dicevi della la visione ingenua della sinistra americana nei confronti
del comunismo, un argomento su cui ritorni spesso nelle tue descrizioni degli
Anni Settanta in America. Come fu la transizione politica dagli Anni Settanta
agli Anni Ottanta? Tu stesso dici che negli Anni Ottanta non ti consideravi più
un socialista, ma un anarchico, e che per “anarchico” intendevi in fondo un
individualista.
E.W. Come ho detto,
la sinistra americana degli Anni Settanta si permetteva di essere così radicale
perché quel che pensava non aveva conseguenze politiche né negli Stati Uniti né
altrove. Allora si poteva dire a cena “Viva Marx o Viva Mao”, tanto il
comunismo era lontano, non si sarebbe mai avvicinato agli Stati Uniti e non ne
avremmo mai pagato le conseguenze. Negli anni che passai a San Francisco,
incontrai Simon Karlinsky, un intellettuale russo straordinario, direttore del
dipartimento di slavistica a Berkeley. Aveva letto qualche articolo di giornale
su di me in cui dicevo che ero un socialista e mi disse, “Oh, Edmund, ma di
cosa stai parlando? Tu non sai di cosa stai parlando!”. E io pensavo fosse
giusto un russo bianco che aveva le sue ragioni dinastiche per essere un
anti-socialista. Poi cominciai a capire. All’inizio prendevo con lui le
posizioni tipiche degli americani di sinistra, e gli rispondevo: “Ok, ma almeno
Lenin va bene!”. Ovviamente Lenin non andava bene per niente, era un mostro
come tutti gli altri. Allora cercavo un periodo anteriore in cui l’URSS fosse
difendibile, in cui l’utopia socialista ancora prevaleva sulle lotte di potere,
ma era in realtà impossibile. Emma Goldman aveva già denunciato le derive dei
bolscevichi nel 1919, quando ci fu la repressione della rivolta di Kronstadt,
guidata da marinai e pescatori contro la politica economica di Lenin. Non si
poteva chiudere gli occhi in quel modo. Non c’è mai stato un “buon periodo” del
bolscevismo, è inutile sognare. E Simon, che era un mio grande amico, era
arrivato in America con la famiglia a sedici anni scappando dalla Manciuria,
allora sotto il regime sovietico. Era uno studioso di Nabokov, e io pensavo
fosse di destra come Nabokov, il quale aveva preso posizioni per me all’epoca
insostenibili, come il suo appoggio alla guerra del Vietnam. E invece proveniva
da una famiglia semplice, che aveva sofferto le peggiori umiliazioni a causa
dei bolscevichi.
G.O. Dimmi di più
della tua relazione con Nabokov, che giocò un ruolo importante nella tua
carriera di scrittore.
E.W. Per prima cosa, io
adoravo Nabokov. Addirittura lo sognavo, sognavo i suoi libri.
G.O. Perché lo
ammiravi così tanto? Non mi fraintendere, anch’io lo amo moltissimo,
soprattutto perché è uno dei pochi scrittori, insieme a Canetti o a Sebald, che
ha un rapporto complesso con la lingua che usa per scrivere. La sua
autobiografia Parla, ricordo, mi ha profondamente influenzata. Non mi stupisce
dunque la tua ammirazione, ma vorrei capirne le ragioni.
E.W. Una delle cose che mi attrae di più del suo lavoro è
il suo stile complesso e barocco per raccontare storie forti, intrighi invece
molto chiari, quasi melodrammatici direi. La cosa funziona meglio nei romanzi
che nei racconti. Prendi Disperazione:un
uomo che pensa di uccidere il suo doppio e alla fine non fa che architettare
l’omicidio perfetto di sé stesso. L’idea è molto intelligente. Lo stile barocco
si mescola a una trama poliziesca. Hermann, il protagonista, è chiaramente un
pazzo. Nabokov amava scrivere di pazzi. Non amava scrivere né di geni né di
gente speciale, ma della varietà aberrante degli esseri umani. Trovo questo affascinante.
Fu così che venni
in contatto con lui. La sua reputazione stava lentamente declinando negli Stati
Uniti alla fine della sua vita. Molti dei suoi ultimi romanzi non ebbero un
gran successo. All’epoca lavoravo per una rivista letteraria e, dato che
ammiravo Nabokov moltissimo, decisi di creare molto rumore intorno all’uscita
di uno dei suoi ultimi libri e di preparare un servizio speciale. Ingaggiai un
fotografo, Lord Snowden, per andare a fargli delle foto e chiesi a una serie di
scrittori importanti di scrivere dei saggi su di lui. Anche io ne scrissi uno.
A lui l’idea piacque molto e scrisse anche lui un saggio sull’ispirazione, che
illustrai nella rivista con l’immagine di un bellissimo quadro di Jean-Léon
Gérome, un pittore francese accademico della fine dell’Ottocento, che anche lui
conosceva. Ebbi anche il problema di dover “editare” il suo pezzo, che non era
cosa facile per un ammiratore come me. Ma lui disse che la mia versione andava
benissimo. In realtà non ci siamo mai incontrati di persona. Ci siamo parlati
per telefono. Qualche tempo dopo, Nabokov fu intervistato da Gerald Clarke, il
biografo di Truman Capote, per la rivista Esquire. Durante
l’intervista, Clarke gli chiese quali erano i suoi scrittori americani
preferiti. E Nabokov fece il mio nome. Questo accadeva nel 1976, e il mio primo
libro Forgetting Elena, era apparso tre anni prima, e già scomparso. Ma
ovviamente, il suo giudizio positivo ebbe un impatto enorme sulla mia
reputazione. Dopo la sua morte, andai a Montreux con un amico che stava
pubblicando L’incantatore in francese, un racconto scritto in russo e mai
pubblicato in vita, che il figlio Dimitri tradusse in inglese nel 1986. Lì
incontrai la moglie di Nabokov, con cui passai un paio d’ore.
G.O. E quando decidesti
di scrivere una biografia di Jean Genet?
E.W. Nel 1986. Abitavo a
Parigi all’epoca, e il mio editor preferito
mi chiamò da New York per sapere se conoscessi qualcuno che aveva voglia di
scrivere un libro su Genet e subito gli dissi: “Lo voglio scrivere io!”. Così
mi affidò il compito di scrivere la biografia di Genet, ma di lì a poco si
ammalò di AIDS e morì. Lo stesso anno, scoprii di essere sieropositivo. Pensavo
anche io che sarei morto. Andai avanti comunque con il progetto, ma
faticosamente, con molti problemi. A quei tempi un editor di una buona casa editrice americana non aveva più di
quattro libri all’anno di cui occuparsi. E dunque l’editor che prese il posto
del mio amico ebbe il tempo di lavorare sul mio manoscritto tanto da riempire
ogni pagina di correzioni. Quando vidi ritornarmi il manoscritto tutto segnato,
mi dissi che non avevo nessuna voglia di riprendere daccapo il progetto. Lo ripresi
comunque e il manoscritto rimase in attesa più di un anno, dovetti far
intervenire il mio agente per farlo riprendere in mano. E infine vinse il National Book
Critics Circle Award, un premio molto
importante qui.
G.O. E’
interessante però che non si trattasse di una tua idea ma di una commessa. Però
la redazione ti prese molto tempo. Ti “innamorasti” a un certo punto del
personaggio o no?
E.W. Non mi è mai piaciuto Genet e io non sarei piaciuto a
lui. Ha una visione dell’omosessualità sinistra, colpevole, si compiace nel
considerarla nei suoi aspetti sordidi, quasi fosse un tratto criminale. Poi,
odiava gli americani, i bianchi, i borghesi e gli altri omosessuali. Mi avrebbe
sicuramente odiato.
Lo stimo come
scrittore, ma trovo detestabile il personaggio. In ogni caso, credo che in
generale, più si passa tempo in compagnia di un personaggio di cui si conoscono
sempre meglio i dettagli della vita, più lo si disprezza. All’inizio pensavo il
contrario. Pensavo che tutti funzionassimo nella lettura con un sistema di
“rinforzo”: più lo leggi e più lo ami. Comunque a dire il vero quel che
successe con Genet è che dopo sette anni passati a scrivere la sua biografia
avevo la stessa opinione di lui che avevo all’inizio, ossia che si trattasse di
un uomo estremamente complicato, difficile. Gli americani hanno la fama di
essere “gentili per routine”. Ecco, Genet è assolutamente l’opposto, qualcuno
di spiacevole per routine.
G.O. Tutti gli autori
francesi di cui ti sei occupato erano omosessuali?
E.W. Beh, sì, se vogliamo considerare anche Rimbaud un
omosessuale…Era più che altro un enfant terrible,
che amò uomini e donne. La relazione con Verlaine non fu sufficiente a farlo
considerare dalla critica come uno scrittore gay. Nella breve biografia che ho scritto di lui, invece,
approfondisco proprio il tema della sua omosessualità: in fondo, Rimbaud e
Verlaine furono la prima coppia omosessuale di artisti pubblicamente
riconosciuta.
Gli altri autori di
cui mi sono occupato erano tutti omosessuali. Anche il mio libro su Proust non
fu immediatamente accettato dalla critica, soprattutto in Francia. Sostenevano
che la mia lettura del ruolo dell’omosessualità nella vita di Proust fosse
troppo pronunciata. Come se avessi “forzato” una lettura gay di Proust che
toglieva qualcosa alla sua grandezza.
G.O. Questo è molto
interessante, perché il concetto stesso di “grande letteratura” è basato su una
certa idea dell’universalità della natura umana, o del suo genio creativo. Come
se specificando certe caratteristiche di un autore, il suo genere, la sua
omosessualità, la sua appartenenza a un’etnia particolare, si perdesse in
universalità e se ne riducesse così la grandezza.
E.W. Questo vale particolarmente per la Francia. Anche
quando la mia biografia di Genet andò in lettura a Gallimard, gli editori erano
contenti che il mio libro non fosse troppo “omosessuale” Con il libro su Proust
è diverso, perché in quel caso insistei proprio sulla sua omosessualità.
Esistevano già miriadi di libri su Proust, dunque, quando decisi di scrivere un
libro su di lui, avevo bisogno di trattarlo da una prospettiva particolare. Mi
chiesi cosa potevo fare di un po’ differente. E pensai che tutti quanti dicono
di Proust di quanto sia bravo a trasformare figure maschili in personaggi
femminili, come Alfred Agostinelli trasformato in Albertine. Ma è una lettura
davvero banale, direi ridicola dei personaggi proustiani. Proust era
sicuramente un maestro nell’inversione di genere, ma in modo molto più
complesso. Il suo autista, Alfred, non è che uno degli ispiratori della figura
di Albertine, che viene creata dai tratti di diverse persone incontrate. I
tratti maschili non sono invertiti meccanicamente in tratti femminili! Una
studiosa americana, Elisabeth Ladenson, ha scritto un libro sull’omosessualità
femminile in Proust (Proust’s lesbianism, 1999) mostrando che
l’interesse di Proust per le relazioni omosessuali andava ben al di là
dell’omosessualità maschile e del semplice trasporre maschi in femmine.
L’omosessualità saffica, pensa ad esempio alla figlia di Vinteuil nella Ricerca,attraversa tutta l’opera di Proust ed è, secondo la
Ladenson, l’unica forma di amore che trova pienezza e condivisione invece di
frustrazione. Insomma, la sua visione dell’omosessualità è estremamente
elaborata ed è questo che cerco di mostrare nel mio libro: quali persone e per
quali ragioni cambiano sesso nel romanzo di Proust, non la semplice ovvietà che
Proust era omosessuale.
G.O. E qual è la
tua visione del rapporto tra letteratura e genere? Il genere influenza la
letteratura?Esiste una voce omosessuale o eterosessuale in letteratura?
E.W. Proust aveva molte appartenenze diverse: era ebreo da
parte di madre, sicuramente omosessuale (non sembra ebbe mai relazioni con
donne) ed era un borghese con un complicato rapporto con l’aristocrazia. In
suoi scritti mondani sull’alta società all’inizio giocarono contro la sua
carriera letteraria, perché era giudicato un “mondano” che si trascinava da un
salotto all’altro. Penso che tutte queste appartenenze ambigue, non dichiarate,
vissute in modo complesso e tormentato, abbiano partecipato a farlo sentire un outsider. C’è un libro recente, molto interessante, di Claude
Arnaud, Proust contre
Cocteau, che racconta la relazione di amicizia e di rivalità
tra i due scrittori. Cocteau aveva un incredibile successo mondano. Era un
grande amico della contessa di Chevigné, che
servì da modello a Proust per la sua duchessa di Guermantes, e mentre Cocteau
trionfava nei suoi salotti, Proust le scriveva lunghe lettere che lei leggeva
distrattamente dicendo : “Che barba!”.
Eppure per i posteri, Cocteau resta un autore leggero, che perdeva troppo tempo
a correre dietro ai ragazzi e ad andare alle feste, mentre Proust prese la
giusta decisione di sottrarsi alla mondanità, trasformando sangue in
inchiostro. Fu un vero martire della sua arte. La sua scommessa era l’immortalità,
e l’ha vinta: oggi Proust è probabilmente l’autore del XX secolo più conosciuto
al mondo, più di James Joyce. Credo sia questo tipo di scommessa che determini
il rapporto con la grande letteratura, e che il genere, in questa scommessa,
non abbia nulla a che fare.
( il seguito su Micromega)