La ricchezza della vita è fatta di ricordi, dimenticati.
Cesare Pavese, Il
mestiere di vivere, 13 febbraio 1944
Il caldo mi perseguitava nelle scarpe. I piedi si gonfiavano, deformando il
motivo traforato che decorava la tomaia bianca delle ballerine sportive con la suola
di gomma che avevo comprato apposta per il viaggio. Faticavo a seguirti, ad
ascoltare le tre damine in gonna corta, calze bianche e mocassini che ci
facevano da guida nel parco di Nara. Era un caldo noto, milanese, un’afa piatta
e costante. Qualcuno aveva inviato quelle tre signorine senza età, vestite da
bambine, per farci visitare la città il giorno dopo il nostro arrivo. Indossavo
pantaloni color ghiaccio e una maglietta verde che mi era sembrata così
elegante quando l’avevo acquistata prima del viaggio e che ora mi stringeva
dappertutto, gonfiata com’ero dal calore estivo giapponese, un caldo avvolgente
che mi ottundeva la mente e m’impediva di ascoltare ciò che dicevi in quel tuo
inglese incomprensibile a quelle signorine altrettanto incomprensibili.
Attraversare il giardino immenso di Nara mi riportava a una fatica
infantile, estenuante e non udibile dagli adulti. I dettagli del mio corpo deformato
dal calore si facevano sentire sempre più acuti, rendendomi insopportabile
camminare, togliendo qualsiasi piacere alla visita. Una volta, da piccola - avrò
avuto otto o nove anni - accettai un invito in gita dai nostri vicini di casa
in campagna. Mi piaceva l’idea di andare sola con loro a visitare i giardini di
Villa Carlotta, sul Lago Maggiore. Avevo chiesto in prestito a mia madre una
sua lunga camicia scozzese cui avevo dato forma di vestito stringendola alla
vita con una cintura di cuoio. Avevo indossato un vecchio paio di scarpe
Superga bianche, senza calze, perché la caviglia nuda che fuoriusciva dal bordo
liso della scarpa mi sembrava slanciasse meglio le mie gambe già lunghe di
ragazzina allampanata. Ma le scarpe erano strette, il caldo nel giardino della
villa mi aveva gonfiato i piedi e la pelle si attaccava alla tela delle
Superga, creando piaghe dolorosissime. Io non dicevo nulla e andavo avanti a
camminare contorcendomi. La vicina e le sue figlie mi guardavano imbarazzate.
Lei mi chiese se dovessi andare in bagno, dato che il mio passo claudicante
sembrava ritmare le contrazioni di un corpo che non ce la faceva più a
trattenere qualcosa. Io dissi di no e gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Avevo voglia di piangere anche a Nara, avrei voluto chiedere alle signorine
di lasciarci soli finalmente, di lasciarci riposare. La vita con te che tanto
avevo voluto ora mi paralizzava, mi terrorizzava. Puntavo i piedi per restare
ferma, dopo averti trascinato in una vita nuova, ero io che esitavo, che non ce
la facevo a guardare lontano. La tua premura nei miei confronti era quella di un
adulto gentile alle prese con una bambina impacciata, affettuoso e incapace di
sentire ciò che lei sente. C’è un proverbio italiano che dice: “Nessuno sa dove
stringe la scarpa tranne quello che la porta al piede”, come se il dolore muto
e infantile del corpo a disagio fosse quello più incomunicabile.
Ricordo i cerbiatti nel parco. Li ricordo bene anche perché i disegni dei
cerbiatti sono stampati in blu sul kimono bianco del Nara Hotel che conservo
ancora. A volte lo indosso di mattina, quando dormo nuda, d’estate. Lo avevamo
comprato all’hotel, prima di partire per Kyoto, un paio di giorni dopo il
nostro arrivo.
Ci eravamo rivisti in primavera, dopo un anno difficile, e decisi di
accompagnarti in Giappone. Eri venuto a prendermi a Milano, dove mi ero
rifugiata dopo che quel nostro amore impossibile ci aveva travolto la vita a
Parigi. Tu sposato, molto più vecchio di me, con una mente feroce e
inarrestabile, una specie di animale selvaggio, fiero e insieme ferito al cuore.
Io giovane, brillante e fanatica, disposta a infatuarmi per qualsiasi idea,
qualsiasi causa, pur di uscire dall’immobilità della mia adolescenza milanese. Avevo
perso mia madre pochi anni prima, ero scappata da Milano per non sentire il
dolore, come i cani che corrono via veloce perché hanno ricevuto un calcio. Ti
avevo eletto mio maestro, mia guida intellettuale e spirituale. Traducevo i
tuoi libri, ma in realtà quel che cercavo in te, quello che mi conquistava, non
erano le tue teorie, ma la tua forza mentale, il tuo spirito, quell’energia
che, quando finalmente andammo a vivere insieme, sentivo circolare nella casa,
la polvere magica che le fate lasciano cadere al loro passaggio: un’energia
chiara, luminosa, quasi tangibile, un calore spirituale che insieme
moltiplicammo in una formula magica.
Mi ricordo le passeggiate incantate a Parigi, mi sembrava che tutto si
dorasse al nostro passaggio, come nelle favole che leggevo da piccola.
L’inverno del nostro amore ci fu uno storico sciopero dei trasporti in Francia.
La città era paralizzata, la gente andava in giro a piedi, con gli sci, le
poche macchine che circolavano si fermavano per caricare i passanti che
facevano l’auto-stop. Come in un racconto di Kleist, la popolazione intera
sembrava sotto un incanto di bontà e di generosità. Una mattina in cui non
avevo chiuso occhio tutta la notte per godermi quel sentimento di beatitudine
che aveva invaso il mio corpo, la mia casa, tutto quello che mi circondava in
quei giorni, uscii di casa all’alba, percorsi la rue de Mazarine fino alla
Senna, e vidi sul Pont des Arts una
lunga tavola da pranzo con una tovaglia rossa imbandita di croissants e
dolciumi vari. Mi avvicinai curiosa, e un gruppo di ragazzi, anch’essi
dall’aria beata, mi propose di unirmi a loro per fare colazione. Mi sedetti con
loro stranita, le nuvole grigio-rosa della mattina passavano veloci sulla testa
e intravvedevo un futuro luminoso, in cui avrei dovuto solo seguire il mio
istinto, un cui la vita sarebbe stata mossa dal vento caldo del nostro amore.
Ci sembrava che quel disordine di tutto e tutti fosse una conseguenza del
meraviglioso disordine interiore che provavamo. Nulla sapeva più stare al suo
posto: le cose, le persone, mosse dalla forza magnetica dei sentimenti
giganteschi che ci attraversavano, cambiavano posto, non stavano più ferme,
come se in cielo cambiassero le costellazioni. Entrammo insieme da Shakespeare and Company, per comperare Middlemarch di George Eliot, che volevi
farmi leggere. Il commesso ci guardò basito, non riuscì a emettere suono e ci
porse il libro in dono con uno sguardo di gratitudine. Lo ringraziammo ridendo
e uscimmo contenti nella luce fredda di quell’inverno indimenticabile.
Poi tutto si ruppe. Avevamo volato forse un po’ troppo alto, e il tonfo fu
allora davvero forte, rimbomba ancora nelle mie orecchie. Tu partisti negli
Stati Uniti, io non riuscii a raggiungerti, la mattina in cui dovevo partire
sentii la mia vita e il senso di quell’amore dissolversi tra le mani. Mi misi a
letto a piangere. Ti dissi che non avrei preso l’aereo. Feci le valigie in malo
modo e lasciai Parigi con l’idea di non tornarci mai più. Rientrai a Milano, a
casa di mia zia, e rimasi a letto intere settimane, con incubi atroci, bestie
feroci che mi divoravano, visioni di dolori immortali ed eterni. La cacciata
dal Paradiso, la caduta agli Inferi che stavo vivendo assomigliava ironicamente
a tutte le letture della mia giovinezza, che d’un tratto prendevano un senso
nuovo, come se mi fosse stato svelato il segreto dell’esperienza profonda della
vita. Allora mi misi a leggere, seduta a letto. Leggevo Il Rosso e il Nero, leggevo Milton, leggevo Auden e La terra desolata di Eliot e per la
prima volta capivo quella desolazione, capivo la crudeltà di Aprile, le parole
non rimandavano a nient’altro che alla descrizione semplice di ciò che avevo
vissuto. Fu proprio in Aprile che tornasti. Io cominciavo a riprendermi: mi
ricordo un bagno al mare, in Liguria, in cui di nuovo mi era sembrato di avere
un corpo vivo, e poi una notte con un amante gentile, che avevo amato
distrattamente solo per terapia. Mi chiamasti e venisti a prendermi a Milano.
Ti avevo detto che a Parigi non sarei più venuta. Dunque si ricominciava da
casa mia. E dal Giappone.
Nara è una cittadina ancora in parte tradizionale. Fu capitale del Giappone
tra il 710 e il 784 e conserva i tratti eleganti e il senso di superiorità che
si respira in tutti i luoghi che furono al centro degli imperi o delle corti.
Ricordo poco della passeggiata in città. Ricordo il blu profondo dei tessuti appesi
all’entrata dei portoni e il marrone caldo delle case di legno; ricordo visite
a templi tutti uguali e una salita interminabile fino a raggiungere una
casupola di legno scuro, con panche semplici, un piccolo ristoro per turisti
dove assaggiammo entrambi per la prima volta il gelato al tè verde con i fagioli
rossi dolci. Il sapore ottuso e dolciastro dei fagioli creava un contrasto
perfetto con il gusto lievemente amaro e astringente del tè verde, e i due
colori, il verde chiaro del gelato e l’amaranto spento dei fagioli, riposavano
lo sguardo abbagliato dal sole.
Prendemmo poi un treno. A Kyoto ci aspettava un elegante ryokan, albergo tradizionale giapponese.
Il sole non entra mai direttamente nelle camere di un ryokan. La luce è riflessa, per evitare fastidiosi scintillii:
l’estetica giapponese è opaca, come il metallo grezzo, non ancora lustrato. Ciò
che brilla è violento, osceno: si dice che le geishe si facessero annerire i
denti per evitare qualsiasi riflesso lucente sul viso. I tessuti sono rugosi,
l’oro dei paraventi sempre patinato, verdastro, l’argento ossidato. Ad
aspettarci, in camera, c’era una brocca d’acqua gelata e due semplici kuzu-zakura, dolcetti fatti con un
impasto zuccherato di fagioli, avvolti elegantemente in una lunga foglia verde
annodata. Sciogliesti il nodo per offrirmi il pasticcino con un gesto accurato.
La camera era fresca, la luce riposante, ci sdraiammo sui futon disposti a
terra, nell’ombra. Facemmo l’amore in silenzio, io ancora lontana, straniera a
me stessa e a te, entrambi sorpresi dalla bellezza di quel rifugio, di quella
tana accogliente. Mi ricordo poco, se non l’atmosfera sorda e ovattata della
camera, e il gusto del pasticcino ancora in bocca. Poi facemmo un bagno, prima
in camera, nella vasca di legno rettangolare, poi nelle grandi vasche comuni
del ryokan, dove si condivide l’acqua
con gli altri ospiti, in un rito di purificazione più che di pulizia.
La cena fu servita in camera da un’inserviente che entrava in ginocchio e
scompariva dietro le quinte tra una portata e l’altra. Ci sedemmo per terra,
sugli stessi tatami sui quali poco
prima erano disposti i due futon. Lo spazio della camera è uno solo, come a
teatro, e la scena cambia in continuazione. Dopo il sonno, o dopo l’amore, il
letto scompare in un armadio. Sui tatami
appaiono allora vassoi, porta vivande e cuscini per sedersi. Dietro le quinte
delle pareti di carta di riso si alternano le ombre discrete degli inservienti,
come se quell’intimità così perfetta, così protetta, fosse troppo esemplare per
non essere osservabile dagli altri. Ceniamo imbarazzati e contenti, sicuri di
risultare goffi nei modi a quegli osservatori sparsi e silenziosi, eppure già
trasformati dalle posture nuove, dal bagno rituale, in creature marziane e
purissime.
A Kyoto, il mondo parallelo giapponese ci stava già conquistando. Visitammo
musei, teatri, templi, facemmo il corso accelerato per turisti per apprendere
la cerimonia del té, ci comprammo cianfrusaglie e chincaglierie di tutti i tipi.
Decidemmo solennemente che il bagno sarebbe stato alla giapponese per sempre:
prima ci si striglia sotto la doccia, insaponandosi così da eliminare qualsiasi
sporcizia, poi si fa colare l’acqua del bagno nel quale si entra già perfettamente
puliti. L’idea di tornare a quei bagni torbidi, pieni di sapone squagliato, di
capelli e di schiuma, ci sembrava semplicemente immonda. In un tempio, tu feci
scrivere il nome in giapponese di tuo figlio su un foglio che sarebbe stato
incollato a una tegola e lì sarebbe rimasto per sempre. Quel figlio poi se ne
andò a stare in Oriente, chissà se un giorno passerà di lì, chissà se, per
caso, viaggiando, si troverà a ripararsi dal caldo sotto il tetto dove c’è
scritto il suo nome.
Il tempio era immerso nel verde. Facemmo una passeggiata nel bosco, il
caldo umido mi batteva di nuovo nella testa e nelle scarpe. Ci sedemmo in un
ristoro in mezzo agli alberi. Isamu, che ci accompagnava, ordinò oudon freddi, che arrivarono in
bellissime scatole rettangolari, accompagnati da eleganti ciotole laccate di
rosso, ricolme di cubetti di ghiaccio. Imbarazzati, aspettammo il gesto di Isamu
per sapere come mangiare quegli strani spaghetti gelati. Isamu prese con le
bacchette gli oudon già freddi per
disporli nella ciotola di ghiaccio. Poi li immerse nella salsa di soja con cui
erano serviti e finalmente avvicinò le bacchette alla bocca. Facemmo lo stesso.
Il ghiaccio intanto cominciava a sciogliersi per il caldo, trasformandosi in
una meravigliosa zuppa gelata in cui la pasta veniva immersa una prima volta,
come in un rito di purificazione, per poi essere immersa nella soja e infine
gustata. Il freddo bagnato degli oudon
sulla lingua e sul palato mi prese tutti i sensi, come un piacere sensuale al
quale non ero preparata. Il silenzio intorno divenne d’un tratto evidente, così
come i colori forti dei piatti in contrasto con il cibo incolore. Il mio corpo
si liberava dalla stretta del caldo, e mi sembrò quasi di essere dentro, per
qualche secondo, a un altro sentire. Ci guardammo complici e contenti.
Kyoto è circondata di colline verdi. I confini urbani restano percepibili,
anche se, a viaggiare in macchina, il paesaggio giapponese sembra quasi padano:
fittissimo di costruzioni, una città ininterrotta circondata da qualche
zuccotto verde di alberi. Una volta, in auto, andando verso Tokyo, Isamu si
fermò sul ciglio di un’autostrada trafficata. Ci fa scendere dalla macchina.
Intorno a noi c’è solo un paesaggio uniforme di sobborghi urbani, un misto di
torri e fabbriche, attraversati da autostrade che s’innescano una dell’altra e si
attorcigliano come serpenti grigi. Isamu mi prende delicatamente il viso tra le
mani, costringendomi a dirigere lo sguardo dove vuole lui. Più lontano, s’intravvede
un monte con la cima innevata, come nei quadri di Hokusai, e proprio da lì, da
quel triste spiazzo dell’autostrada, se fisso il monte, la traiettoria della
mia vista sarà intercettata da alcuni rami di pesco fioriti. E così, nel mezzo
di quel non-luogo tetro e banale, sorge una vista sublime, precisa e
concentrata, una linea diretta con la bellezza di un solo punto nell’orizzonte.
L’estetica giapponese è nel dettaglio delle cose, dell’intensità del mettere a
fuoco un particolare, staccandolo dal resto. Non è l’estetica europea estensiva
del paesaggio a perdita d’occhio, l’Europa verde dei campi e delle vigne. E’
una bellezza delle cose, degli oggetti, come se l’occhio si potenziasse in
quella relazione visiva intensissima con una sola cosa. Mi ricordo di un film, Hana-Bi, dove un killer innamorato porta
la moglie malata di cancro a vedere delle cose belle prima di morire, e così,
tra una sparatoria e l’altra, riesce a trascinarla a vedere un aquilone, un
albero, una nuvola, ma attenzione: non le
nuvole, quella nuvola, solo quella
lei si porterà con sé nell’altro mondo.
Una cosa che mi piaceva di quel viaggio insieme era il tuo modo gentile di
farmi sentire piccola e stupida, trasportata da una parte all’altra del mondo come
una bambina dentro a una valigia, senza capire bene cosa mi stesse succedendo.
A Kyoto mi facevi da guida come se conoscessi la città da sempre. Eri tu
l’invitato d’onore in Giappone, io una semplice, sconosciuta accompagnatrice,
una “insignificant other” come ti
dicevo scherzando, per di più imbarazzata dal mio ruolo di amante legittima. L’imbarazzo
mi ottundeva il cervello. Mi sentivo in uno stato d’intontimento permanente,
come se non sapessi dove mettermi, se non vicino a te. Tutto mi sembrava
enorme, smisurato, la tua sapienza, la tua celebrità, il mondo, tutto quello
che avrei dovuto sapere per vivere in un mondo così grande e inesauribile.
Allora meglio non guardare, non provare a fare nulla, solo nascondersi dietro
di te, rannicchiarsi contro di te, lasciarti decidere, lasciarti parlare, con
quel tuo inglese incomprensibile, io zitta, piccola. Mi dico a volte, solo tu
mi hai fatto stare zitta, solo tu mi hai fatto sentire piccola, io che mi muovo
in questo corpo gigantesco, che non ho mai avuto misura in nulla, che sono
scappata sempre perché dovunque fossi crescevo troppo e, come Alice nel paese
delle meraviglie, cominciavo a distruggere quello che mi stava intorno
ingigantendomi…E invece, proprio a Kyoto, mi stringi di colpo per strada, al
semaforo, con quel tuo fare schietto e la tua immensità discreta e naturale, mi
stritoli tra le tue braccia sudate, la camicia di lino blu che porti è incollata
alla pelle, e io mi incollo al tuo petto, sicura che solo lì, così vicina, non
mi succederà mai nulla di male, perché in quel momento io so che sei abbastanza
grande per contenermi tutta, lo so con una certezza che mi scioglie il cuore.
Lista delle cose da ricordare:
Gli oudon gelati
La montagna tra i rami di pesco
Il dolcetto del ryokan
Il gelato al tè verde con i fagioli rossi
Il bacio per strada, a Kyoto
A Tokyo ci accoglie nella hall dell’hotel Lucas, un linguista inglese che
ha sposato una giapponese e da anni vive in Giappone. Ha l’aria sperduta come
noi nella città gigantesca. Cerchiamo un ristorante. Lui, nella zona, non ne
conosce. Noi ancor meno. E’ come se fosse atterrato sul pianeta sbagliato.
Tokyo è fatta di quartieri tutti uguali al nostro occhio occidentale, che si
ripetono come cloni: una città di satelliti giganteschi e indistiguibili, come
quelle stazioni spaziali dove atterrano gli eroi di Star Wars. Andiamo a caso per le strade, guardando in alto, perché
a volte i ristoranti migliori sono nascosti nei grattacieli, al quinto, sesto,
decimo piano. All’entrata dei palazzi guardiamo le scritte in giapponese e i
disegni di sushi, di oudon e di tempura. Spesso, se il ristorante è in basso,
ai disegni si affiancano modelli di plastica perfetti dei piatti che saranno
serviti, come in un gioco di bambole in cucina. Mi piacciono quei giocattoli
alimentari, mi ricordano l’uovo al tegamino di plastica che tenevo nello
sportello del Dolce Forno, il piccolo
forno giocattolo che condividevo con mia sorella per preparare merende
prelibate alle nostre bambole.
Lucas è perso, si annoia, gli hanno ordinato di accoglierci ma non ne ha
nessuna voglia, vorrebbe essere a casa a bere tè verde con la sua moglie
giapponese, non sa cosa dirci, non gli importa nulla di chi siamo e cosa
facciamo là, forse è per quello che è venuto a vivere così lontano dall’Europa,
per essere lasciato in pace. Sarei capace io? Sarei capace di lasciare tutto e
andare a vivere in un posto davvero lontano, un luogo marziano come questo,
giusto per amore di un dettaglio, che so, per la passione del tè verde? Lucas
ha detto proprio così, che è il tè verde che l’ha fatto restare in Giappone,
non quello che si trova ovunque anche da noi ormai, ma il matcha, quella specie di polvere verde rana, che si scioglie con un
frustino di vimini nell’acqua caldissima ma non bollente, la stessa polvere con
cui si fanno gelati e frappé, con un colore che è più inebriante del sapore. Sa
di tè e di caffè insieme, è un gusto opaco, asciutto e avvolgente, come una
carta preziosa.
Prendo io la decisione, Lucas è troppo impacciato, conosco quel genere di
accademici, rischiamo di camminare a vuoto per tutta la sera. Entro in un
palazzo seguendo un’illustrazione di tempura, prendiamo l’ascensore fino al
ventinovesimo piano. Il tempura bar è di apparenza banale, senza uno stile
particolare. Non c’è odore di fritto, buon segno. Ci servono in fretta, le
verdure sono croccanti, la frittura è solo un involucro, uno scrigno che
contiene in uno stato perfetto le fettine di zucca arancioni, i gamberi rosa,
le zucchine striate di verde. Il conto è carissimo, più di trecento dollari.
Pago io, imbarazzata di aver scelto un posto così caro. Bisogna saper scegliere
i tempura bar se si vuole spendere poco. Non si paga caro il cibo, si paga la
purezza dell’olio. I buoni tempura bar hanno olio buono e pulito, scaldato per
la prima volta. Più si scende di qualità, più l’olio è scaldato e riscaldato.
C’è addirittura un mercato dell’olio impuro: i buoni tempura bar vendono a
quelli meno buoni l’olio di seconda mano, e così via in una catena di impurità
in discesa che ricorda all’inverso la purezza ascendente del rituale del bagno
giapponese: l’acqua sempre più pulita e l’olio sempre più sporco.
Eppure valeva la pena: valeva la pena di pagar cara quella purezza,
quell’assenza, un lusso infinito in questo mondo ormai saturo di troppe cose,
unto e grasso, mal digerito. Mi innamorai di te per la stessa ragione. Perché
eri essenziale, non c’era nulla di troppo, un’austerità esemplare, io piena di
ninnoli e di paramenti inutili, e tu così puro davvero, così vero. Io tutta
costruita nella mia milanesità folkloristica, la signorina per bene, la sciura
borghese che sa apparecchiare la tavola, che sa che le forchette vanno a
sinistra e i coltelli a destra, che ha norme e misure per tutte le cose
inutili, inessenziali, discutibili. Che me ne faccio delle forchette a sinistra
e dei tovaglioli piegati sotto il coltello nel paese delle bacchette e degli
oudon sul ghiaccio? Che me ne faccio delle regole da cui sono scappata e alle
quali mi sono aggrappata come un naufrago alla sua zattera una volta lontana dal
mio mondo? Ma tu mi guardavi così da lontano, guardavi giù giù nella terra
degli umani quella ragazzina che ero, viziata, sbagliata, tutta tesa in un
artificiale tentativo di distinzione, distinguersi dal mondo da dove venivo,
aggiungere un che di esotico alla parte della ragazza milanese, un esotismo che
però avrei potuto spendere solo a casa, come una piuma sul cappello, o un modo
diverso di allacciarsi il cappotto. Quando ci incontrammo a Parigi avevo poco
più di vent’anni, e quel tuo sguardo vero su di me, sincero fino all’osso, mi
aveva fatta rinascere proprio lì, davanti a te. Dopo anni a cercare la postura
giusta, la distanza giusta, eccoti lì davanti, senza posa, a guardarmi dritta
dentro, come guardavo io la montagna giapponese tra i fiori di pesco, giusto la
bellezza dell’essenziale. Sono essenziale? Io? Ho un’essenza? Chi sono io, che
cosa c’è di me che può perdurare uguale a Parigi, o a Milano, o qui in Giappone
tra i rami di pesco in fiore e i grattacieli di Tokyo?
Da allora non ti mollai più un istante. Volevo sentire sempre quello
sguardo su di me. Solo con te ero vera, ero ciò che volevo essere, solo con te
il mondo si sarebbe aperto all’infinito, l’avrei conquistato, tenuto in una
mano, l’avrei guardato anche io da lontano come te, come due marziani purissimi
avremo girato il mondo intero senza atterrare mai più.
Isamu ci porta alle terme, in montagna. Indossiamo entrambi il kimono e degli
impossibili zoccoli, una tavoletta liscia alla quale sono incollati due
pezzetti di legno a mo’ di tacco, uno davanti e uno dietro. Camminiamo come
asini impacciati avanti e indietro per la stazione termale. Credo di aver capito
che una lieve mancanza di destrezza sia una qualità in Giappone. Bisogna
camminare scomodi, con le scarpe strette, non sapere dove mettersi, non essere
mai diretti, sfacciati, allungare timidamente la mano con il proprio biglietto
da visita girando lo sguardo, evitare le strette di mano franche all’americana,
evitare il passo deciso, sicuro, come se solo nell’incertezza ci fosse eleganza.
Forse per questo ai Giapponesi piacciono le donne bambine, con le gonne a
pieghe e i calzettoni corti. Perché anche le bambine sono impacciate, a volte
goffe, e vulnerabili.
A cena da Isamu, sua moglie resta in cucina. Ha preparato tutto: la zuppa
calda, gli antipasti, il pesce affumicato. C’è un musicista tra gli invitati
che racconta la sua vita di concerti e la durissima scuola di pianoforte che
sta facendo subire a sua figlia perché diventi una grande concertista. Così
forse se ne andrà, penso. Così non dovrà restare in cucina mentre il marito
intrattiene gli ospiti in salotto. Così se ne andrà lontana da quel padre
megalomane ed esigente. Durante la cena, il Giappone mi appare piano piano sotto
un’altra luce, come un mondo duro, arcaico, sul quale è calata una mano di
modernità senza che davvero il paese sia diventato moderno. Quelle donne
bambine e silenziose sono il simbolo della sua arcaicità. Forse anche tutta
quella pulizia ossessiva, e l’assenza totale di differenze etniche: in Giappone
tutti sono Giapponesi. Mi ricordo un racconto di Kenzaburo Oé, di un
paracadutista nero americano catturato in un villaggio del centro del Giappone,
e lo stupore dei bambini del villaggio attorno a quello strano essere dalla
pelle scura e i denti luccicanti, troppo bianchi. Alla fine il paracadutista è
fatto a pezzi, massacrato in un rituale di catarsi collettiva dal diverso.
Vorrei viaggiare per sempre con te, vorrei non atterrare più, come quel
paracadutista, sento che la salvezza è solo se resto in volo, se non m’immergo
più in nessun mondo, né quello piccolissimo dal quale provengo e di cui conosco
tutto, né negli altri mondi immensi, sconfinati, lontani, diversi, dove tu mi
porti e ai quali non appartieni mai. Di dove sei tu? Da dove vieni? Chi rompe
l’incantesimo della sua origine, chi non si identifica più nella fitta
boscaglia così familiare del primo luogo, o chi non si è mai identificato, o
ancora chi quel luogo non l’ha mai avuto, forse è condannato a esser massacrato
ovunque, come il paracadutista di Oé. Oppure può salvarsi se resta sempre in
aria, se non scende a terra. Tu sei un luftmensch
Ora ricordo quegli anni con te proprio così, come su un’astronave. Ti
dicevo che casa nostra a Parigi era un’astronave, dove ci fermavamo di tanto in
tanto a riposare, prima di riprendere i nostri viaggi. L’importante era non atterrare
mai. Perché me ne sia andata resta un mistero. Avevo bisogno di tornare giù? Di
ritrovare la boscaglia fitta? Mistero. Anche perché non la ritrovai mai più.
Isamu ha un segreto. Un ristorante non lontano dall’università dove si
mangiano le anguille. Ne avevamo mangiate anche a Comacchio, sull’Adriatico,
quella strana città spettrale, con i canali veneziani sui quali galleggiavano
anatre di legno. E’ la specialità della città. Ma l’anguilla giapponese è molto
più prelibata. E’ un pesce grasso l’anguilla. Contrasta con la cucina
giapponese così epurata, essenziale. Con un sorriso sornione, Isamu ci conduce
al ristorante, dopo la tua ultima conferenza all’università. E’ un buongustaio
e un uomo che sa vivere. E’ sorridente e di buona conversazione, si vede, anche
se parliamo poco. Il ristorante è in ombra, le finestre piccole danno su un
bellissimo giardino di aceri. E’ un luogo fresco, una specie di tana, dove ci
sentiamo comodi e al sicuro. Parliamo male, lui nel suo inglese
incomprensibile, tu nel tuo inglese incomprensibile, io silenziosa, come una
moglie giapponese in cucina, non so cosa dire, sto a guardare. Eppure è una
buona conversazione. Condividiamo qualcosa. Il fresco, forse, la tua lezione
che abbiamo appena ascoltato. E l’attesa delle anguille. Beviamo saké freddo, e
finalmente dalla cucina escono tre scatole nere di lacca, con incisi motivi
marini in color oro. Luccicano appena nella penombra e ci vengono posate
davanti chiuse, come i regali dei Re Magi. Isamu sorride, il suo viso si
illumina, ci guarda con intesa e lentamente alza il coperchio della scatola. Si
intravvede un colore bruno, di caramello. Le anguille sono là, uniformi, come
soldatini, sotto un manto caramellato che fa venire l’acquolina in bocca. Con
le bacchette faccio un buco in quel manto, e sento che affondo in una carne
bianca e tenera. Portiamo tutti e tre le bacchette alla bocca nello stesso
momento e ci guardiamo: la scatola delle meraviglie è sotto i nostri occhi,
scura, discreta, e il sapore denso di quel pesce serpente si insinua nei corpi
di tutti e tre, nelle facce, nei sorrisi. Piano, piano gustiamo l’anguilla, è
un piacere segreto e fortissimo, bisogna stare in silenzio. Quante parole
inutili a volte. Quando tutto ciò che c’è di bello al mondo può stare dentro a
una scatola. Ti guardo, in silenzio. E’ vero. Sei l’unico uomo che è riuscito a
farmi stare zitta.
Lista delle cose da ricordare
Il tè verde
L’acqua calda delle terme in montagna
Un ristorante popolare a Ginza, al tramonto, dove mi raccontavi dell’Africa
e di te
Una risata per strada dopo il tempura bar
Una scatola di anguille