Tuesday, April 10, 2012
L’Ottimista | Gloria Origgi | Il Fatto Quotidiano
Thursday, March 29, 2012
La rivoluzione è nuda | Gloria Origgi | Il Fatto Quotidiano
Aliaa Magda Elmahdy è una studentessa egiziana. Per protestare contro l’oppressione del nuovo regime egiziano sui corpi e sulla voce delle donne, ha messo su Twitter una foto che la ritrae nuda (#NudePhotoRevolutionary), senza nessuna oscenità, ostentando un corpo che c’è, esiste, e non può essere negato da nessun regime e da nessuna religione. La spiegazione della sua azione è limpida. Aliaa descrive la sua azione come un “grido contro una società violenta, razzista, sessista e ipocrita” protesta contro un regime oppressivo, in cui la polizia della morale religiosa abusa del suo potere in continuazione. Vale la pena di riportare la dichiarazione che accompagnava la sua prima foto nuda sul Web: “Processate i modelli che posavano nudi nelle scuole d’arte, nascondete i libri d’arte, distruggete le statue di nudi antichi, poi spogliatevi e guardatevi allo specchio: bruciate il vostro corpo, il corpo che disprezzate, per liberarvi per sempre della vostra appartenenza a un sesso per infine dirigere la vostra umiliazione e il vostro sciovinismo contro di me e osare negarmi la libertà di esprimermi”.
Aliaa è stata processata e rischia ottanta frustate. Ma il suo atto non è rimasto inascoltato, e la militante per i diritti umani, Maryam Namazie ha creato un calendario di nudi rivoluzionari: Nude Photo Revolutionary Calendar che si può acquistare o direttamente scaricare dal Web, dove ha invitato scrittrici, intellettuali, politiche e militanti a sostenere l’atto di Aliaa posando nude per il calendario. Artiste, pubblicitarie, intellettuali di paesi diversi come la Polonia, la Danimarca, gli Stati Uniti, hanno posato nude in sostegno ad Aliaa. La foto della stessa Maryam Namazie, che accompagna il mese di novembre, porta la scritta: “Il mio corpo non è osceno. Osceno è velarlo!”
Come scrivevo in un altro post dedicato alla rivoluzione egiziana, le rivoluzioni si fanno prima di tutto con il corpo: i regimi si spezzano con il corpo, invadendo le strade, trasgredendo i costumi e le etichette che regolano l’uso del corpo. Dai monaci tibetani (o gli impiegati italiani) che si danno fuoco in segno di protesta, ai nudi egiziani, non dimentichiamo che alla fine il potere, quale che sia e dovunque sia, si legittima tramite il controllo dei nostri corpi: cosa mangiamo, come ci vestiamo, come e quando possiamo nascere e morire, dove e come ci possiamo spostare…
L’atto di Aliaa mostra come il corpo femminile, così bistrattato, desiderato e insieme odiato, deformato in caricatura indecente nell’Italia berlusconiana, negato e desessualizzato nelle società religiose, ma anche nell’America neo-vittoriana del capitalismo integralista, è ancora al centro di censure e trasgressioni, come se solo da lì, dalla liberazione da quella relazione di potere fondamentale che esiste tra uomo e donna, possa nascere una società veramente nuova.
Saturday, March 10, 2012
Predictions Conference - Paris 16 and 17 March
The conference will take place at CERI-Sciences Po (on the 16th, 56, rue Jacob) and at ENS (on the 17th, 46, rue d'Ulm).
The conference is organized sponsored by CERI Sciences Po in cooperation with Ecole Normale Supérieure – Institut Jean Nicod. It benefits from the financial support of Institut Jean Nicod, the French Ministry of Defense, the Alliance Program (Columbia-Sciences Po), the CERI (Sciences Po).
Monday, January 30, 2012
Intervista a Tony Kushner

Tony Kushner ha ricevuto qualche giorno fa il Premio PUFFIN/NATION For Creative Citizenship che premia un artista il cui lavoro abbia una dimensione militante e di impatto sulla società e sulla politica. Chi meglio di Kushner, che da 30 anni è l'anima dei suoi tempi, lo sguardo critico della società americana e della modernità tout court? L'ho intervistato a New York dopo aver visto il suo ultimo, bellissimo lavoro teatrale, The Intelligent Homosexual Guide to Capitalism, Socialism with a Key to the Scriptures.
Che l’aria dei tempi risvegli spettri socialisti anche nel cuore dell’impero capitalista, gli Stati Uniti? C’è da chiederselo, da quando le ripetute crisi finanziarie sconvolgono la vita dei normali cittadini di Grecia, Islanda, Irlanda, Stati Uniti, Italia … nel nome del mercato, dei tassi d’interesse, del debito pubblico e delle agenzie di rating: il generale De Gaulle, non certo un uomo di sinistra, aveva visto sbagliato quando aveva detto seccato: “La politique de la France ne se fait pas à la corbeille”, ossia, la politica della Francia non si fa alla Borsa: la politica oggi si fa alla Borsa, o alle Banche Centrali: gli Stati si piegano a politiche di tutti i tipi, promettono riforme e cure di austerità per rassicurare i fantomatici “mercati” che travolgono i loro titoli in operazioni di speculazione che non hanno più niente a che fare con l’economia reale. Chi ha scelto questo mondo? Chi ha scelto questa economia? Nessuno ha votato il sistema dell’indebitamento pubblico, che è passato in 30 anni negli Stati Uniti e in Europa da una media del 25% del PIL nazionale a più del 70%. Perché dobbiamo riconoscerci in un mondo economico che non capiamo più, per cui non abbiamo votato e che non ci rispetta più? La sinistra liberal si limita a corregere i conti della destra e non si sogna di mettere in questione il fondamento del sistema economico contemporaneo. Ma c’è un’eredità del marxismo storico che i politici non vedono più, ossia: la coscienza: oggi forse non si parla più di coscienza di classe. Ma la coscienza di chi si è, il riconoscere il proprio ruolo nella società è essenziale perche la nostra vita sociale abbia senso. Non ci riconosciamo più nel mondo governato da meccanismi che non capiamo, non sappiamo più qual è il nostro posto.
Più o meno così mi dice Tony Kushner al telefono da New York. Kushner non è solo un intellettuale e un drammaturgo raffinato. E’ un interprete dei suoi tempi. La sua opera teatrale è lo specchio delle ansie, dei drammi collettivi delle ultime decadi. Nel 1993 vinse il premio Pulitzer per Angels in America: A Gay Fantasia on National Themes, sul flagello dell’AIDS nell’America reaganiana. Ebreo newyorkese, Kushner ha criticato spesso la politica di Israele nei confronti della Palestina, tanto da vedersi rifiutato all’ultimo minuto il dottorato honoris causa offertogli dall’università di CUNY a New York sotto la pressione della comunità ebraica. La cosa creò talmente scandalo questa primavera, che infine Cuny gli diede il titolo. Intervistato dopo la cerimonia, Kushner disse che mai un titolo di studio era stato così difficile da ottenere!
Oggi è in scena a New York la sua nuova creazione teatrale, The Intelligent Homosexual Guide to Capitalism and Socialism, with a key to the Scriptures. Il titolo è una doppia citazione del celebre pamphlet di George Bernard Shaw: The Intelligent Woman’s Guide to Socialism and Capitalism, scritto nel 1927, e di un libro meno conosciuto, ma che fu alla sua epoca uno dei più grandi best-sellers mai pubblicati, ossia il libro misticizzante di Mary Baker Eddy, Science and Health with a Key to the Scriptures, pubblicato nel 1875, una specie di manuale di self-help dell’epoca, con uno stile New Age ante litteram.
E’ la storia di un vecchio anarchico di origine italiana, Gus Marcantonio, iscritto al CPUSA, il partito comunista americano, che convoca i suoi tre figli nella sua casa di Brooklyn perché ha deciso di suicidarsi. Marcantonio non si riconosce più in questo mondo, si sente inutile, superato. Dopo una vita da operaio militante, tutto ciò che gli resta sono i suoi tre figli e la casa che, nel delirio del mercato immobiliare newyorkese degli ultimi anni, ha decuplicato di valore. Dato che conosce i problemi economici di ciascuno dei figli, la sua scelta è un modo di rendersi utile, lasciando in eredità la casa. La scena si svolge principalmente nella sala da pranzo della casa di famiglia, con Marcantonio, i tre figli, i compagni e gli ex-compagni dei figli, la zia suora laica…Tra politica, omosessualità ed eutanasia, la conversazione pian piano si colora, trasformandosi in un affresco dei tempi: dalla crisi finanziaria all’individualismo insano che ha rimosso qualsiasi senso di comunità dalla società americana. Ho chiesto a Tony Kushner di parlarmi di quest’aria dei tempi:
G.O. I tuoi lavori sono spesso il riflesso dell’era in cui viviamo. Mi chiedevo se avessi cominciato a lavorare a “The Intelligent Homosexual Guide” prima o dopo la crisi economica del 2008.
T.K. Ho dei periodi di gestazione molto lunga dei miei lavori teatrali. Ci ho messo più di dieci anni a scrivere Angels in America. The Intelligent Homosexual Guide l’avevo cominciato nel 2006, pensando a un romanzo più che a un’opera teatrale. Poi, nel 2007, mi sono reso conto che i dialoghi erano così lunghi che si adattava meglio al teatro. E’ stata concepita dunque prima della crisi, ma è andata in scena dopo, e ho dovuto adattare alcune parti dopo il collasso dell’economia. Certamente, i sintomi della crisi erano già tutti là: le fantasie sfrenate della magia del libero mercato: il concetto stesso di mercato “libero” è un nonsenso: l’economia è ciclica, la gente fa ben poche scelte, è trascinata in basso o in alto da forze che non controlla. Le teorie di economia politica dominanti negli States negli ultimi due decenni, sono state puro delirio, un ultraliberalismo che ha ridotto ai minimi termini uno Stato già inesistente, senza pensare che lo Stato non è solo un erogatore di servizi, ma un bene comune, una comunità di pari. Invece le differenze economiche e sociali non si sono mai così accentuate. Siamo vissuti in una sacralizzazione psicotica del concetto di individuo contro quello di collettivo. Ma se non hai una comunità, una classe che ti riconosce, sei semplicemente rimosso dalla storia.
G.O. E’ una considerazione molto marxista. Ti consideri un socialista?
Non lo so esattamente. Mi sono sempre considerato un liberal di sinistra. Da giovane ho militato in movimenti contro la guerra del Vietnam e contro la politica americana in Israele. Il socialismo e il comunismo non sono opzioni possibili negli Stati Uniti, come lo sono state in Europa e in altre regioni del mondo. Se chiedi a qualcuno per strada cosa vuol dire “Comunismo”, ti risponde che vuol dire “Dittatura”. Eppure, la reazione del governo americano durante la crisi del 2008, è stata una reazione socialista: lo stato ha pagato miliardi per salvare le banche. In America abbiamo oggi il peggio del socialismo (l’intervento pubblico in difesa di un’economia falsa e malata) e il peggio del capitalismo (un pensiero selvaggio di auto-preservazione egoista contro qualsiasi logica sociale e collettiva).
Sono convinto però che oggi abbiamo bisogno di alcuni concetti marxisti. Per esempio, l’idea di egemonia culturale del vostro Antonio Gramsci non è mai stata così attuale, perché si applica alle nostre democrazie. Gramsci parla di egemonia culturale quando una classe sociale riesce a dominare una società culturalmente differenziata e imporre un paradigma unico di pensiero, di valori e di cultura che diventa pian piano una norma sociale o una lente indispensabile per leggere il mondo, ossia, un’ideologia dominante che non ci permette più di guardare il mondo con occhi diversi. Mai più di ora, con la fine delle grandi opposizioni ideologiche tra Est e Ovest, ci sentiamo prigionieri di un pensiero dominante dal quale non si può più uscire, come se fosse una necessità naturale: il libero mercato. Gramsci è attuale, perché il risveglio passerà per la presa di coscienza che il mondo descritto dal libero mercato, con quegli individui egoisti, affaristi e perennemente interessati, non è l’unico mondo possibile: in quell’umanità schiava della propria logica di accumulazione, noi non ci riconosciamo più. Gli intellettuali oggi devono dare voce a quell’assenza di riconoscimento: come diceva Gramsci, devono essere “organici”, saper parlare delle ansie collettive, delle rabbie, delle insofferenze che la cultura dominante nasconde. E’ quello che cerco di fare nel mio lavoro.
G.O. Gramsci è italiano. Anche il protagonista di The Intelligent Homosexual Guide è di origine italiana…
Infatti. L’italia ha avuto una storia di pensiero politico molto più interessante di quel che si conosce normalmente negli Stati Uniti. L’emigrazione italiana della fine del XIX secolo non ha generato solo Mafia e padrini, come Hollywood ci ha insegnato a credere. Parte degli emigranti italiani erano anarchici, e portarono in America idee nuove e progressiste. Il fascino dell’anarchia rispetto al comunismo è che difende l’autonomia dei soggetti. Quel che cerchiamo oggi è un mondo di individui autonomi e responsabili, che siano padroni delle proprie scelte e non schiacciati dalle forze della storia, dell’economia e delle egemonie culturali. Il padre di Gus Marcantonio nella mia opera, è un anarchico italiano del gruppo di Paterson, in New Jersey. Gli italiani a Paterson erano quasi tutti lavoratori del tessile, data la florida industria della seta nella cittadina del New Jersey. Anarchici convinti, portarono in America le idee di Errico Malatesta, di Kropotkin e di Bakunin. Fondarono una rivista importante, La questione sociale, di cui Gaetano Bresci, l’uccisore di Umberto I, anch’egli anarchico emigrato a Paterson dalla Toscana, fu uno dei principali animatori. Nella storia, mi immagino alla fine che tra le eredità che lascia Gus Marcantonio, c’è una valigia, nascosta nel muro della casa: la valigia, dimenticata per gran parte della scena, sulla tavola, tra discussioni infinite della famiglia, contiene lo stemma del Partito Comunista Americano, bandierine, copie dei primi del Novecento della rivista La Questione Sociale, e la pistola, usata da Gaetano Bresci per uccidere il re d’Italia. Anche se non andò proprio così, è vero che Bresci fu mandato a compiere il regicidio dal gruppo di anarchici di Paterson, che gli pagarono il viaggio ed erano d’accordo con l’operazione. Mi sono immaginato quella valigia come un’eredità di ideali del padre, ormai chiusi in un muro il cui unico valore è il suo costo al metro quadrato.
G.O. Perché il riferimento a George Bernard Shaw nel titolo?
Beh, dopo questa conversazione dovrebbe essere ovvio: Shaw è stato uno dei grandi critici del capitalismo, il suo The Intelligent Women’s Guide to Socialism è un pamphlet di un “socialista anti-sociale”, come si definiva lui, in cui la condanna al capitalismo come fonte massima di ingiustizia sociale e di intolleranza tra i popoli è espressa in modo più evidente. Noi ci siamo bevuti troppo a lungo l’ideologia secondo la quale il libero mercato creava libertà globale, nuove opportunità do scambio e di incontro. Il libero mercato ha creato differenze socio-economiche enormi tra i cittadini di uno stesso paese e tra paesi, e una guerra strisciante e permanente tra potenze economiche. Shaw denunciava tutto ciò nel 1928, e denunciava anche i rischi di correzione del sistema capitalistico in chiave autoritaria. In questo fu profetico.
A proposito di profeti, due dei personaggi del tuo dramma sono religiosi…I compagni omosessuali di due dei figli, sono entrambi predicatori cristiani Perché il riferimento alla religione, alle Scritture, al libro di Mary Baker Eddy?
Perché è una storia di spettri del passato, di suicidio come ultima dimensione che dia senso alla vita, di bisogno insomma di immaterialità in una società crassa, ubriaca e sommersa dal materialismo. La valigia di Marcantonio nel muro, con i parafernalia del Partito Comunista, è uno spettro, così come la valigia che entra in scena alla fine del dramma, piena dei medicinali che Marcantonio forse userà (ma la storia non lo dice) per la sua eutanasia: lo spettro della morte, di una morte assunta come scelta. Mary Baker parlava di dialettica tra materiale e immateriale nel suo libro. Anche Hegel parlava di dialettica tra materia ed essenza. Ho cercato di evocare questo disperato bisogno di immateriale che la religione non esaurisce assolutamente, ma di cui la religiosità forsennata di questi anni è un’espressione. C’è immaterialità nella cultura, nelle idee, nelle tradizioni, nell’empatia, nell’amore. C’è immaterialità anche nella morte, e nella scelta di morire, come ultimo gesto di libertà, di sospensione dalla macchina materiale che ci assoggetta.
Saturday, January 28, 2012
La mort du lecteur/La morte del lettore

Nel 1968, in un celebre saggio, Roland Barthes – (che il raro pubblico che mi legge dandomi della snob intellettuale non sa nemmeno chi sia, ma non importa, in fondo è il punto di tutto il saggio di oggi, e poi, dài, c’è Wikipedia…) - dichiarava la morte dell’autore (uso i grassetti perché sembra che il nostro lettore vittorioso non legga nient’altro) ormai sorpassato dall’onnipotenza del lettore. Povero autore, scacciato dal suo regno, detronizzato dalla potenza dei linguaggi multipli, delle scritture multiple, dei dialoghi, le chat, le infinite conversazioni che gli toglievano qualsiasi autorità sul discorso, si ritrovava da re della parola a piccola comparsa in un groviglio di conversazioni a tutti i livelli che non avrebbe mai più controllato.
Eppure. Aveva davvero visto giusto Barthes? E’ l’autore che è morto?
Viviamo in un’era di possibilità infinite per il lettore: lo schermo serale dei nostri laptop pullula di blog, di forum, di giornali online in cui il lettore ha lo stesso, ripeto, sottolineato, lo STESSO diritto di parola dell’autore. Basta gerarchie, basta filtri di autorità, il lettore può leggere un articolo e rispondere dicendo che non è d’accordo, che ne sa di più, che contraddice la riga numero quattro con cui l’autore si faceva bello, grazie a un fondamentale volumetto che ha scritto sull’argomento…
Ma al lettore la parità non piace. L’autore è un nemico. Un nemico lontano e invincibile che mantiene il suo statuto di nemico solo grazie alla sua lontananza, alla sua totale superiorità gerarchica rispetto al lettore.
Il lettore non è purtroppo diventato re. E’ diventato schiavo della sua libertà. Il lettore legge, ama l’autore, e insieme, nella sua ambivalenza eterna, lo insulta, lo abbassa, lo bistratta, ma non parla con lui.
Mi capita di avere un blog su un quotidiano italiano, IL FATTO. Essendo abituata alla dialettica dal mio mestiere di accademica, quando il lettore commenta, anche aggressivamente, qualcuno dei miei articoli, la mia prima reazione è di rispondergli. Ma il lettore selvaggio, come l’ha ben definito il buon vecchio Umberto Eco, non vuole risposte. Non vuole dialettica. Vuole solo odiarti e insieme ammirarti nella tua infinita, incolmabile, distanza di autore. Un autore che gli risponde, che lo considera un interlocutore, non è più un autore: è uno sfigato in carne ed ossa come lui. Meglio azzerarlo, ammazzarlo, dargli del coglione che accettarlo nel proprio circolo di interlocutori. Perché se diventiamo tutti uguali, allora chi leggo? Mia nonna? Mio cognato che la sera parla di politica? No! Vogliamo autorità, vogliamo pareri che vengono dall’alto, dall’iperuranio, da un mondo delle idee a cui il lettore non avrà mai accesso perché NON VUOLE avere accesso.
Non esiste letteratura più ricca di quella dedicata alla vera identità dell’autore. Shakespeare era forse quattro donne, oppure era Marlowe, oppure il mandante dell’omicidio di Marlowe, ma, soprattutto, per favore, non fateci sapere chi fosse, perché se fosse umano, invece che sovra o sotto-umano, potremmo parlargli, magari dialogare con lui. E questo il lettore lo rifiuta.
Se prendete qualche minuto per leggere i commenti ai miei articoli online sul blog de IL FATTO, ci sono chicche meravigliose come: “L’autrice ha colto, non intenzionalmente ovviamente, il cuore del problema”, oppure “Bisognerebbe chiedersi a chi l’ha data via Gloria Origgi per poter scrivere tali cazzate su questo giornale”, o ancora “L’autrice dell’articolo dev’essere un’esperta di Copia/Incolla per aver messo insieme queste informazioni”.
A volte reagisco, contro il saggio consiglio del mio direttore, che pensa che al lettore selvaggio non valga la pena di dare una replica. Ma sto piano piano capendo che ha ragione lui. Non è l’autore che è morto, pace il buon Barthes. E’ il lettore. Triste, livoroso, incazzato, non cerca nessun dialogo. Ti odia e basta. Affogato in troppa informazione, il lettore galleggia, come un cadavere, senza sapere più come esercitare il suo potere di veto. Allora, come un kamikaze, spara su tutti, non accetta repliche, e si consola pensando che l’autore in fondo non esiste, è una costruzione culturale, e se qualcuno salta fuori in carne ed ossa e gli dice “Guarda, son qui! Sono l’autore! Ti tendo una mano: parliamo!” dev’essere un mandante di un partito realista pericoloso che vuole combattere le comode derive del post-moderno.
Caro lettore, tu n’es plus mon semblable, mon frère, sei una figura patetica, peggio delle vittime della pubblicità, che mi abbatte in pubblico e corre a comperare i miei libri. Ma ho ancora bisogno di te!
Il lettore è morto. Viva il lettore!!
Tuesday, January 24, 2012
Tuesday, January 03, 2012
Reputazione, sirena del presente

Ricco, famoso, pluripremiato, Orlando Figes aveva tutto dalla vita. Figlio della femminista Eva Figes, sposato a un’avvocata conosciuta, il più celebre storico britannico dell’Unione Sovietica poteva dormire sonni tranquilli. E invece, la notte, stava sveglio a scrivere su Amazon.co.uk recensioni velenose contro i libri dei suoi colleghi sovietologi per rovinare la loro reputazione. Autore di best-sellers come Sospetto e silenzio. Vite private nella Russia di Stalin (Mondadori, 2009) e La danza di Natasha. Storia della cultura russa (Einaudi, 2004), Figes era apprezzato sia dal grande pubblico sia dai colleghi specialisti, una reputazione rara, da difendere a caro prezzo, perché normalmente chi è amato dai molti è odiato dai pari. Eppure, per la sete di gloria, ha perduto tutto.
All’ennesima stroncatura online, il suo rivale, Robert Service, professore di storia a Oxford, comincia a insospettirsi. Le recensioni, che definiscono il suo ultimo libro, Comrades, “orrendo” e “curiosamente noioso”, provengono tutte da un recensore anonimo, che si firma historian. Da bravo storico, Service si lancia in una ricostruzione filologica dello stile dei messaggi, e, quando inizia ad accumulare prove, ne parla ad altri colleghi anch’essi colpiti dalle stroncature misteriose, e scrive ad Amazon per domandare l’indirizzo IP del computer da cui provengono i messaggi. Intanto, Rachel Polonsky, che aveva recensito negativamente qualche anno prima un libro di Figes sul Times Literary Supplement, riceve la seguente recensione del suo ultimo lavoro, Molotov’s Magic Lantern, dallo stesso misterioso historian: “E’ uno di quei libri riguardo al quale la prima domanda che viene in mente è perché sia stato scritto”. La Polonsky e Service proseguono insieme l’inchiesta: in effetti, basta un click sul profilo di historian per vedere che è uno pseudonimo legato al conto orlando-birkbeck, un bell’atto mancato per qualcuno che vuole distruggere i suoi nemici. Polonsky salva tutte le recensioni di historian, tra le quali anche un’invettiva contro Kate Summerscale, che nel 2008 aveva soffiato a Figes un premio letterario importante: “A cosa stavano pensando i giurati del Samuel Johnson quando hanno dato deciso di premiare questo libro?” In verità, historian non si limita a stroncare gli avversari: ama anche scrivere recensioni appassionate, solo però dei libri di Figes. Di Sospetto e Silenzio, infatti, scrive: “Meravigliosamente scritto, lascia il lettore stupito, travolto eppure più lucido di prima. Un regalo per tutti noi”.
Accusato, Figes contrattacca, nega tutto, dice agli avvocati di fare causa a Service per diffamazione: in una battaglia reputazionale sempre più shakespeariana, Figes è messo ai ferri corti dalle prove schiaccianti fornite dalla Polonsky. Allora, sempre di notte, cancella gli pseudonimi e accusa la moglie di essere lei l’autrice delle recensioni, perché non poteva accusare nessun altro, dato che l’indirizzo IP del computer corrispondeva a quello di casa sua! Come nel romanzo di Emannuel Carrère, L’avversario, in cui il protagonista preferisce sterminare l’intera famiglia che confessare di avere una falsa reputazione, Figes diffama la povera moglie avvocata, minaccia Service di lasciarlo in mutande per i soldi che dovrà pagare di causa, e infine crolla: confessa tutto, dicendo di non capire lui stesso il perché delle sue azioni, e accusando una grave depressione nervosa.
Una colossale guerra di reputazione in ambienti, come l’accademia e l’editoria e Internet, che si nutrono come vampiri di questo strano elisir del presente, che guida le nostre azioni contro qualsiasi razionalità. La reputazione - l’essere visto negli occhi degli altri – quel riflesso delle nostre azioni nello sguardo altrui, è forse la nostra passione più profonda. Forse, dietro all’Homo Oeconomicus razionale e interessato, esiste un’altra faccia delle nostre motivazioni, la Passione della Gloria, come la chiamava Hobbes, unica a garantirci di essere visti, di non svanire nel rumore collettivo. Ma attenzione: la reputazione consegna allo sguardo altrui il destino della nostra immagine, rendendolo manipolabile, fragile e fa così di noi stessi le prime vittime del nostro bisogno di esistenza sociale.
Sunday, December 04, 2011
It's not about the money

Do not quote without permission. Published on IL FATTO, November 23rd, 2011.
Abstract in English: In this article, I claim that the financial crisis is more a reputational crisis than an economic one. People are not greedy about the money, but about a subtler commodity, that is, the game of reputation, that makes them stay or perish in the market of information. As Gordon Gekko says in Wall Street II, the first thing to understand, if you want to undersand the financial world is that "It is not about the money. It's about the game. The game between people"
“It’s not about the money”
di Gloria Origgi
Vi siete chiesti perché in Wall Street 2, Gordon Gekko guardi con così grande interesse un disegno di bulbi di tulipani ? Ebbene, perché la prima grande bolla speculativa della storia fu proprio sui tulipani, introdotti in Olanda dalla Turchia alla fine del Cinquecento, e divenuti un’insania collettiva: prezzi da capogiro, fortune spazzate via per comperare un solo bulbo, che al picco della speculazione poteva raggiungere il prezzo corrispondente a dieci volte il guadagno annuo di un benestante olandese dell’epoca, e infine il crash: nel 1637 la bolla esplode e i protagonisti si trovano in mano nient’altro che delle grosse patate da piantare sul balcone. Perché? Com’è possibile che l’umanità rischi il suicidio economico collettivo per dei bulbi di tulipani? La risposta ce la dà ancora il buon vecchio Gekko, in una delle battute chiave del film: “It’s not about the money. It’s about the game. The game between people”.
Non è una questione di soldi. L’Homo oeconomicus razionale e interessato non si venderebbe le mutande, non metterebbe in ginocchio intere economie, non si giocherebbe il futuro dei suoi figli per ottimizzare il rapporto costi/benefici. It’s not about the money. E’ una questione di reputazione: di gioco delle parti tra animali sociali che devono stringere alleanze, imporre gerarchie, trionfare uno sull’altro e infine esserci, essere visibili, imporre il proprio nome prima di svanire nel rumore collettivo. La reputazione, questo strano elisir del presente, che guida le nostre azioni contro qualsiasi razionalità è una guerra che gli esseri umani giocano da sempre: una guerra di credibilità. Sono credibile se compro i tulipani, e se li compro io, i tulipani diventano un buon investimento anche per chi mi guarda, allora più la gente li compra, più io divento credibile, più i tulipani diventano un buon investimento. E così via. E così che si entra nelle bolle reputazionali che stanno facendo saltare in aria la realtà sotto i nostri occhi. La reputazione, ossia come ci vediamo visti, influenza il comportamento degli altri e il nostro, rendendo la nostra immagine sociale la vera protagonista delle nostre azioni, più di noi stessi.
Prendiamo il caso dei titoli di stato di Italia e Grecia. C’è da scrivere un Wall Street 3 su uno dei protagonisti di questa storia, il finanziere Jon Corzine, che aveva orchestrato il suo grande rientro a Wall Street con MF Global, dopo dieci anni dedicati alla politica e un passato da direttore di Goldman Sachs. Sconfitto nel 2010 nelle elezioni a governatore del New Jersey, Corzine decide di tornare alla grande agli affari: lancia MF Global, compra aggressivamente titoli di stato europei in caduta libera, sicuro che Bruxelles non lascerà mai cadere i suoi stati membri. Ma i titoli continuano a precipitare, il mercato non gli dà fiducia. I “regolatori” del mercato, come la Security and Exchange Commission iniziano a preoccuparsi, e chiedono a MF Global di proteggere i suoi clienti con un’ulteriore iniezione di capitale. Corzine non trova i soldi, è diventato troppo caro prestarglieli, le agenzie di notazione lo hanno bocciato. MF Global fallisce i primi di novembre. Qualche giorno dopo la tempesta finanziaria fa cadere le teste dei governanti di Grecia e Italia. Il gioco della reputazione è ormai interconnesso, anche perché chi dà voti e stellette a banche, imprese, università, stati, regioni, etc. sono sempre le stesse tre società, vecchie signore del mercato della credibilità, le americane Moody e Standard & Poor’s e la francese Fitch. Cosa sono le agenzie di rating? Sono delle agenzie che esprimono opinioni sulla credibilità di diverse entità - imprese, banche, stati - che vogliono partecipare al mercato del debito, ossia che vogliono prendere a prestito denaro. I ratings esprimono un’opinione, una stima della probabilità che questi enti hanno di rimborsare i loro debiti, opinione ovviamente di estremo interesse per i creditori. Il tutto cominciò all’inizio del ventesimo secolo, quando John Moody decise di vendere il suo parere sulla credibilità di varie compagnie ferroviarie americane che avevano preso a prestito ingenti somme di denaro dalle banche per costruire la rete ferroviaria del paese. Le informazioni si rivelarono preziose per gli investitori, e, dopo la crisi degli Anni Trenta, nessuno osò più prestare soldi senza prima chiedere l’opinione di Moody. Data la reputazione dei pareri di Moody, le stesse imprese cominciarono a pagare caro per farsi dare un voto. E così gli stati. Chi non è valutato, chi non è giudicato dall’occhio delle agenzie di rating semplicemente non esiste per il mercato. Così tutti accorriamo a farci dare voti, per esistere negli occhi degli altri, per far parte del gioco di credibilità che rende lo specchio delle nostre azioni più reale delle azioni stesse. La spirale della reputazione in cui il mondo sociale ci risucchia è un fenomeno ancora da capire a fondo. Ma una cosa è certa. It’s not about the money.
Wednesday, November 30, 2011
Gender Studies between Nature and Culture

Draft. Do not quote without permission. Submitted to the GOSH volume, edited by Valentina Chizzola.
Abstract in English: I present four possible positions about the relation between sex and gender:
- gender is socially constructed
- sex is socially constructed
- gender is naturally determined
- sex is naturally determined
By discussing Thomas Laqueur's work Making Sex, I reconstruct the history of the "one-body", "two-bodies" theories of sex, and agree with him that sex is a scientific category, thus partly socially constructed, that emerges in modern science. I then argue that some contemporary positions in gender studies could be seen as compatible with some contemporary scientific theories on the relationship between nature and culture. For example, Judith Butler's gender performativity theory could be read in a more naturalistic stance. The dialectic between sex and gender overlaps in so many ways the one between nature and culture and one cannot be understood without exploring the other.
Non sono una studiosa di gender studies. Sono una donna, e perciò ho uno spontaneo interesse per un campo d’indagine che cerca di comprendere gli aspetti sociali e culturali della distinzione tra maschile e femminile. Inoltre mi occupo di epistemologia sociale, ossia di quell’ambito dello studio della conoscenza che cerca di comprendere la dimensione socioculturale della costruzione del sapere. Nel mio lavoro intellettuale ho dunque spesso incrociato gli interessi dell’epistemologia femminista, ossia di quelle autrici, come Donna Haraway, Helen Longino, Sandra Harding e Miranda Fricker[1] che ritengono che la conoscenza non sia neutra rispetto ai ruoli sociali: la verità è in qualche modo “sessuata”, così come lo sono l’autorità e il potere e il punto di vista di chi dice cosa: la nostra posizione nel mondo, le relazioni di potere a cui siamo sottomesse/i non possono essere dissociate da ciò che diciamo. Per esempio, la standpoint view theory delle filosofe femministe sostiene che la conoscenza è socialmente situata, e che chi è in una posizione sfavorevole, marginale, nell’organizzazione sociale e politica del sapere, vede cose che chi è centrale a quest’organizzazione non vede. Recentemente, in un’intervista per La Repubblica (3 novembre 2011), la filosofa francese Elisabeth Badinter, una delle massime critiche del femminismo americano contemporaneo, ha sostenuto che l’autorità non ha sesso: il potere non è né maschile, né femminile: bisogna permettere alle donne di accedere alle cariche di potere con le stesse opportunità degli uomini, ma un mondo del potere a maggioranza femminile sarebbe per lei identico al mondo attuale, in cui il potere è ancora sostanzialmente in mano a una maggioranza maschile. Per la teoria sociale femminista e l’epistemologia femminista, la posizione di Badinter è frutto della stessa cieca sottomissione a una dominazione patriarcale che è talmente incarnata nelle nostre strutture di pensiero e d’azione da sembrare naturale all’occhio ingenuo della maggior parte delle persone, ma che in realtà non è che il frutto di una particolare configurazione storico-sociale (la struttura patriarcale) e dipende dal punto di vista di un gruppo dominante in questo periodo storico.
Il dibattito è aperto: questa premessa mi serve solo per “collocare” il mio contributo all’interno di questo libro. Benché non sia una specialista degli studi di genere, condivido con questi studi la postura intellettuale di fondo, ossia, lo sguardo disincantato che mi fa vedere qualsiasi gerarchia sociale e ordine del discorso come frutto di un punto di vista situato in uno spazio storico.
Il mio intervento si concentrerà sulla dialettica della distinzione sesso/genere, com’essa si è articolata nella storia del pensiero e negli attuali gender studies e quali sono i suoi rapporti con il dibattito natura/cultura.
Nel panorama attuale dei gender studies, si possono distinguere almeno quattro posizioni sulla costruzione dei ruoli sessuali:
• La differenza tra i generi è costruita
• La differenza tra i sessi è costruita
• La differenza tra i generi è naturale
• La differenza tra i sessi è naturale
Il punto di partenza di questa discussione risale al libro di Simone de Beauvoir, Le deuxième sexe, pubblicato in Francia nel 1949. In questo saggio, divenuto celebre per la frase: “Non si nasce donna. Lo si diventa”, in realtà la Beauvoir dedica una lunga parte alla differenza biologica tra i sessi e al femminile biologico: maschi e femmine sono due tipi di individui che si distinguono all’interno di una specie per la riproduzione. Dopo un lungo capitolo sulla distinzione biologica maschile/femminile, incentrato principalmente sui ruoli riproduttivi e sulle diverse teorie della riproduzione accumulate nei secoli, la Beauvoir conclude che tutto ciò non è sufficiente a definire la donna come l’Altro per eccellenza in contrapposizione al quale l’identità maschile si è costruita: nessuna realtà biologica può determinare un’identità fino a quando non è assunta a livello cosciente e vissuta nelle proprie azioni. La famosa frase: “On naît pas femme : on le devient” echeggia in tutto il dibattito contemporaneo sulla distinzione tra sesso e genere. Se le differenze sessuali sussistono nella maggior parte delle specie viventi per ragioni riproduttive, ciò è altamente sotto- determinato rispetto all’esistenza dell’identità maschile e femminile. La natura femminile non sarebbe correlata alla cultura femminile: difatti, anche nel mondo animale troviamo tratti “femminili”, ossia destinati alla gestazione, in individui che per comportamento sociale sono definiti “maschi”. Insomma: non c’è una corrispondenza evidente tra essere un individuo portatore di tratti riproduttivi femminili ed essere un individuo culturalmente e socialmente “donna”.
Eppure, le quattro posizioni che ho elencato sopra, mostrano che i rapporti tra natura e cultura sono più complessi di quanto Simone de Beauvoir riconoscesse nel suo libro.
La distinzione tra genere e sesso è moderna. Risale al XVIII secolo e allo sviluppo della scienza medica e dei manuali di anatomia. Il sesso è visto allora come componente anatomica del genere, o biologica, o ancora genetica (questo più avanti, nel XX secolo).
La teoria classica del corpo umano è basata sull’idea di un corpo unico. Galeno, il medico/filosofo più celebre dell’antichità, conosciuto anche per essere uno dei primi a praticare dissezioni su animali come le scimmie e i maiali, data la proibizione a Roma di effettuare qualsiasi indagine anatomica sui cadaveri, scrive: “Le donne hanno esattamente gli stessi organi sessuali degli uomini, solo messi al posto sbagliato”. Data l’ignoranza sul ruolo degli organi genitali nella riproduzione, Galeno vede l’utero femminile come un fallo introiettato e le ovaie come i testicoli. L’esplorazione delle fattezze del corpo parte dal presupposto di un corpo umano unico, legato intimamente alle leggi del macrocosmo e del microcosmo. Le differenze tra corpo femminile e corpo maschile “disturbano” una visione del corpo umano come struttura organizzata centrale nell’equilibrio dell’universo.
In questa tradizione, gli organi genitali femminili sono l’equivalente imperfetto degli organi maschili: degli organi maschili non “sbocciati”. Thomas Laqueur[2] ricorda il parallelo che Galeno fa tra gli organi femminili e gli occhi della talpa: come la talpa ha occhi anatomicamente simili agli occhi di animali simili, ma non li apre e quasi non vede, così la donna ha genitali simili a quelli maschili, ma “chiusi” dentro di sé, non esposti, e quindi meno completi e meno usati.
Aristotele avvalla la stessa teoria: il corpo umano è unico, le differenze anatomiche sono un accidente: l’uomo e la donna hanno sessi differenti perché hanno ruoli sociali differenti. Perciò lo schiavo non ha sesso: non c’è pudore davanti allo schiavo a mostrarsi nell’intimità, che si sia uomini o donne. Perché è il ruolo a determinare la dinamica tra i sessi, la seduzione, le posture, il pudore. Lo schiavo, privo di ruolo sociale, non entra nel gioco complesso dell’articolazione maschile/femminile.
La teoria del corpo unico sarà ripresa lungo tutto il Medioevo, durante il quale la medicina galenica resta l’autorità principale. Nelle immagini anatomiche del Rinascimento, il corpo maschile e quello femminile sono spesso raffigurati vicini e complementari, la vagina rappresentata come un lungo fallo introiettato. Andrea Vesalio (1514-1564), fondatore dell’anatomia moderna, grazie al suo celebre trattato De humani corporis fabrica, nonostante le numerose dissezioni anatomiche su corpi maschili e femminili, rappresenta un corpo umano unico, con sembianze differenti nella donna e nell’uomo che sono il frutto di diversi gradi di espressione degli stessi organi: solo l’utero crea problemi in questa visione, ed effettivamente gli anatomisti si domandano quale possa essere l’equivalente maschile di tale organo. La risposta più comune è che l’utero, più che un organo, sia nient’altro che una sacca di contenimento per il bambino, perché, ovviamente, che fosse la donna a portare la gravidanza, era una realtà ben evidente.
Con la rivoluzione scientifica, assistiamo a una lenta presa di coscienza della differenza tra uomo donna come differenza biologica. Con lo sviluppo della tecnica del microscopio e della microbiologia, la questione della differenza maschile/femminile diventa una questione scientifica di differente funzione degli organi nella riproduzione. Le osservazioni al microscopio di Antonie van Leeuwenhoek (1632-1723) portano alla scoperta degli spermatozoi, un primo passo dunque verso la comprensione del ruolo dei due sessi nella riproduzione. Prima di Leeuwenhoek, l’atto sessuale tra uomo e donna produceva da parte di entrambi del liquido che permetteva lo sviluppo del bambino a partire da una matrice/uovo che conteneva già tutte le caratteristiche del futuro individuo (teoria della preformazione). La scoperta degli spermatozoi, nel 1677, mette in questione la visione classica della preformazione: Leewenhoek si rende conto che nel liquido seminale maschile sono presenti milioni di “piccoli animali”, come li definisce, che hanno testa e coda e una vita propria. Il loro ruolo dev’essere quindi distinto dai liquidi prodotti dalla donna. Leeuwenhoek sviluppa una teoria erronea sugli spermatozoi, conferendo loro un ruolo preodominante nella riproduzione: sarebbe lo spermatozoo il portatore della “matrice”: esso conterebbe una miniatura di individuo già preformato che viene inculcato nell’uovo femminile e germina nell’utero durante la gestazione. La scienza embriologica, sviluppatasi soprattutto nell’Italia del Settecento, permetterà di rivedere le teorie di Leewenhoek: Lazzaro Spallanzani infatti scopre nel 1768 il ruolo complementare dell’uovo e dello spermatozoo nella riproduzione. Ma è solo con il XIX secolo che l’embriologia si sviluppa in modo sistematico, e con il Novecento che la scoperta della differenza genetica tra sessi permette di comprenderne appieno il ruolo nella riproduzione.
Eppure, già le scoperte della microbiologia sei/settecentesca, secondo lo storico Thomas Laqueur, “creano” la distinzione biologica tra i sessi: le differenze anatomiche non sono più meri accidenti di un corpo unico, ma differenze di funzione biologica. Di qui la tesi provocatoria di Laqueur che sia la differenza tra i sessi e non tra i generi ad essere socialmente costruita con l’avanzare della scienza moderna. I corpi sessuati umani dell’era moderna sono anatomicamente e biologicamente distinti. Le funzioni degli organi femminili non corrispondono alle funzioni degli organi maschili. La donna diventa un’altra “specie”, con altre funzioni, non solo sociali, ma anche biologiche. Sempre secondo Laqueur, ciò spiegherebbe il fiorire di una letteratura settecentesca sulle buone maniere femminili, su come si deve comportare una donna, come se anche per questo essere ora sessuato e biologicamente distinto ci fosse bisogno di fornire indicazioni per il suo comportamento sociale.
Dunque, per riprendere lo spazio di posizioni da cui sono partita, mentre la Beauvoir (come la maggior parte delle teoriche dei gender studies contemporanee) vede nella distinzione maschile/femminile il sostrato biologico, naturale di una costruzione sociale di genere, c’è chi sostiene, come Laqueur, che sia la distinzione di genere a essere “naturale” (i ruoli sociali distinti sono dati per scontati in tutte le società umane e in tutte le epoche storiche) e quella di “sesso” ad essere costruita culturalmente.
Ciò dimostra come in quest’ambito di ricerca la sottodeterminazione dei dati sulle teorie permette di sostenere posizioni molto diverse. In effetti, non è per nulla chiaro quale sia la determinazione biologica dei ruoli sociali e culturali, né quale sia il ruolo della biologia nel determinare certi tratti psicologici, che possono stabilizzare pratiche culturali, identità e assunzione di ruoli.
La definizione di cosa sia il “sesso”, anche anagraficamente, è molto ambigua: dal punto di vista medico odierno, il sesso è una nozione complessa, transdisciplinare. Si distingue oggi istituzionalmente tra:
1. sesso genetico o cromosomico
2. sesso ormonale
3. sesso anatomico o apparente
4. sesso psicologico o psicosociale
5. comportamento sessuale[3].
Per esempio, nel caso del transessualismo, per il cambiamento di sesso anagrafico è richiesta in molti stati una perizia medica che dimostri la persistenza del cambiamento di sesso psicologico e un intervento chirurgico che predisponga il cambiamento di sesso anatomico. Ma nel 1998, una sentenza in Francia[4] dichiarò che il cambiamento di sesso anatomico non era sufficiente per il cambiamento di sesso anagrafico, perché una trasformazione della forma degli organi sessuali non può cambiare la loro funzione biologica e genetica. Benché ci fu un ricorso e un appello alla Comunità Europea che annullò la sentenza, il caso mostra il mélange di concezioni intuitive della sessualità, pressioni normative e sentimenti personali che influenzano ancora oggi la nostra confusa visione di cosa significhi avere un sesso o appartenere a un sesso.
Insomma, la natura non ci aiuta più di tanto a spiegare la nostra appartenenza sessuale, benché gli aspetti naturali, biologici di quest’appartenenza siano innegabilmente rilevanti, tanto da essere richiesti come prove di appartenenza sessuale in decisioni giuridiche.
Il problema è più generale: i rapporti tra natura e cultura sono complessi e difficili da articolare in tutti i campi, non solo in quello che tocca la differenza sessuale. La determinazione biologica delle funzioni psicologiche e culturali dice ben poco dell’enorme esplosione culturale della specie Homo Sapiens Sapiens, la cui differenza di genoma con altre specie di primati, come gli scimpanzé, è inferiore all’1%.[5] Tipicamente, l’eccezione culturale è spiegata con lo sviluppo del linguaggio come “organo sociale e rappresentazionale” per eccellenza della nostra specie, che la distingue da tutte le altre specie viventi. Ma le basi biologiche del linguaggio sono molto poco chiare: dunque ricadiamo nel problema iniziale: come spiegare l’articolazione tra biologia e cultura?
Il femminismo post-moderno condanna la distinzione biologica come irrilevante e sostiene che la distinzione pertinente sia quella socio-culturale, che riflette una struttura di dominazione di un sesso sull’altro[6]. E così ci ritroviamo con la teoria del “sesso unico”, in cui le differenze sessuali non dovrebbero pesare più di quelle tra “un calvo e uno pieno di capelli”, come diceva Platone, e vengono usate politicamente per giustificare una società duale e ineguale, basata su una struttura patriarcale.
Più interessante, o almeno più articolata per rispondere alla questione del rapporto biologia/cultura, è la teoria della performance (gender performativity) proposta da Judith Butler nel suo libro: La disfatta del genere[7]. Secondo la Butler, il genere si determinerebbe in modo così culturalmente marcato attraverso una re-iterazione di atti, più o meno stilizzati da una cultura all’altra, che determinerebbero, tramite appunto la performance, l’accentuazione dei tratti di genere.
In che senso la teoria della performance della Butler può aiutarci a comprendere meglio l’articolazione natura/cultura nel caso del genere? Propongo qui, in conclusione di questo capitolo, un’interpretazione molto eterodossa della teoria della gender performativity, un’interpretazione che sia compatibile con una posizione più “naturalista” sulla distinzione maschile/femminile.
Difatti, la differenza genetica tra maschi e femmine non determina ovviamente in modo univoco lo sviluppo di certi tratti comportamentali. La teoria genetica è ben più complessa di così anche sullo sviluppo dei tratti biologici: i geni controllano la formazione delle proteine che costituiscono l’organismo: l’espressione degli enzimi che permettono la costruzione delle proteine dipende da molti fattori, anche ambientali. Un caso ben studiato negli esseri umani di espressione enzimatica controllata da fattori culturali e ambientali è il caso dell’espressione del lattase, l’enzima necessario a digerire il lattosio: prima della domesticazione dei bovini, circa 9000 anni fa, i bambini svezzati non bevevano più latte, e quindi non sviluppavano il lattase. Con l’introduzione dell’allevamento, gli esseri umani continuarono a sviluppare l’enzima controllato geneticamente, date le condizioni ambientali. Nei popoli dove non esiste allevamento di ovini o bovini, oppure dove non c’è la tradizione di bere il latte di questi animali, troviamo un’intolleranza maggiore al lattosio.
Se l’ambiente influenza l’espressione degli enzimi che controllano lo sviluppo di certi tratti, potremmo pensare che certi tratti tipici del comportamento di genere (per esempio: tratti virili, tratti materni, etc.) siano espressi in organismi biologici differenziati sessualmente a seconda del contesto ambientale. La struttura patriarcale, frutto della dominazione maschile, avrebbe in questo senso reso più probabile un’espressione dei tratti associati con i ruoli sociali che questa struttura destinava a uomini e donne: quindi, un tratto materno più pronunciato negli individui con un ruolo sociale inferiore, investito nel privato e nell’accudimento della famiglia e non nel pubblico esercizio del potere. Alcune pensatrici femministe, che però sono attente al sostrato biologico delle differenze di genere, sostengono posizioni che vanno in questo senso. Per esempio, Sarah Hrdy, nel suo bel libro Mothers and Others[8], sostiene che la famiglia patriarcale ha inibito l’espressione di tratti comportamentali evoluti nelle società primitive per occuparsi dei bambini, come la solidarietà e la cooperazione: il vantaggio cognitivo infatti del bambino umano rispetto alle altre specie starebbe proprio nell’essere educato da molti “altri”, e non solo la madre: altre donne, altri uomini – a differenza, per esempio, della maggior parte delle scimmie in cui il neonato resta attaccato solo alla madre per almeno i primi sei mesi di vita. La teoria della “performance” allora potrebbe essere anche letta in chiave naturalista/evoluzionista: l’iterazione di certi comportamenti all’interno di una certa gerarchia sociale favorisce (anche evoluzionisticamente) l’espressione di certi tratti sull’espressione di altri.
In conclusione, sono convinta che molte delle confusioni dei gender studies potrebbero essere risolte se si desse più peso all’articolazione tra i rapporti tra biologia e cultura, senza cadere in inutili riduzionismi, né in estremismi costruttivisti. La differenza maschile/femminile è forse la più profonda, la più interessante per comprendere cosa della biologia la nostra cultura ci lascia esprimere e viceversa.
[1] Cf . H. Longino, 1994, “In Search of Feminist Epistemology”, Monist, 77: 472-485 ; D. Harraway, 1991, “Situated Knowledges”, In Simians, Cyborgs, and Women, New York: Routledge ; S. Harding, 1993, “Rethinking Standpoint Epistemology: ‘What is Strong Objectivity?’”, in Alcoff and Potter 1993, Alcoff, Linda, and Elizabeth Potter, (eds.) 1993, Feminist Epistemologies, New York: Routledge ; M. Fricker (2007) Epistemic Injustice, Oxford University Press.
[2] Cf. T. Laqueur (1994) Making Sex : Body and Gender from the Greeks to Freud, Harvard University Press, Cambridge, Mass.
[3] Cf. Rapporto del Conseil de l’Europe, sul transessualismo : Le transsexualisme en Europe, on line: www.trans-europe.org/europe.pdf
[4] Cf. l’Affaire Bottella vs. France, 1998 che vedrà la Francia condannata dalla Commissione Europea per discriminazione. Cf. anche P. H. Castel (2003) La métamorphose impensable. Essais sur le transsexualisme, Paris, Gallimard.
[5] Cf. M.C. King, A.C. Wilson (1975) « Evolution and two Levels in Humans and Chimpanzees » Science, 1975, 188, pp. 107-116. Cf. G. Origgi (2007) « Gènes et culture » in M. Marzano (ed.) Dictionnaire du Corps, Puf, Paris, pp. 402-406.
[6] Cf. F. Collin (2007) « Différence des sexes » in Marzano (ed.) cit., pp. 302-307.
[7] Cf. J. Butler (2006) La disfatta del genere, Meltemi Editore. Tr. it. dall’originale inglese (1990) Gender Trouble, Routledge, New York, che fu all’epoca un best-seller.
[8] Cf. S.B. Hrdy (2009) Mothers and Others, Harvard University Press.
Tuesday, November 22, 2011
Reputation

Draft. Do not quote without permission. Submitted to the SAGE Encyclopedia of Philosophy of Social Science.
Reputation, from the verb puto in latin, meaning “counting, considering” plus the suffix re- that indicates the repetition, is the consideration of the value of an agent by other agents based on his or her past actions and creating expectations on the future conduct of that agent. Reputation is a special kind of social information: it is social information about the value of people, systems and processes that release information. Reputation is the informational trace of our past actions: it is the credibility that an agent or an item earns through repeated interactions. If interactions are repeated, reputation may conventionalize in “seals of approval” or disapproval or social stigmas.
The notion of reputation in social sciences has been mainly treated in economics. In Adam Smith’s liberal social theory, reputation is seen as a way of coordinating activities in a decentralized social space of transactions. According to Smith, in a free society, markets coordinate diffused knowledge in an asymmetrical way: people have a partial view of what other people know and how they will act. Also, given that most transactions occur over a lapse of time, parties have to trust each other that they will satisfy their reciprocal interest. These informational and temporal asymmetries call for efficient means of storing and retrieving information about possible partners in interactions. Reputation is more than pure information: it is evaluated information, that is, a shortcut of the many judgements and interpretations that people have cumulated about an actor. That is why people are interested in keeping a “good” reputation by signaling to potential business partners their trustworthiness.
In the rational choice tradition, reputation is modelled as a repeated game. These games raise the question on how you can signal your reputation before any interaction. That is, how you can signal your credibility in absence of information about your past behaviour. This question is studied within a rich body of work that goes under the name of Signaling Theory (Gambetta, 2009). Signaling Theory aims at solving a fundamental communication problem: Given an interaction in which interests diverge between the two parties, how can a party be certain of the qualities of the other party? Honest signallers will try to signal their good qualities (trustworthiness, accountability, strength), but dishonest signallers will try to do the same, by mimicking high-quality signals. Signaling theory may be traced back to the work of the American sociologist Thorstein Veblen. In his Theory of the Leisure Class, published in 1899, Veblen explains the display of wealth of the leisure class (luxury, expensive clothes, time-consuming unproductive activities such as sports) as a way of signaling its social position. Important developments of Signaling Theory go from the study of behavioural ecology (Krebs and Davies 1998) to the sociology and the economy of cultural tastes and lifestyles (Bourdieu, 1984). An agent emits signals in order to make a threat or a promise credible. Costly signals and robust signals, that is, signals that are difficult to fake, are those considered more credible (Zahavi, 1998).
The economist George A. Akelrof has shown that quality uncertainty is such a risky feature of markets, that reputation is needed: “Seals of reputation” in a markets are labels, certifications, guides, that is, all the devices that tend to reduce the informational asymmetry. A rational agent, according to Akelrof, has an interest in embodying these devices in order to compensate the cognitive deficit of the informational asymmetry.
Quality uncertainty and informational asymmetries have become crucial epistemological issues in contemporary information-dense societies. The vast amount of information available on Internet and on the media makes the problem of reliability and credibility of information a central issue in the management of knowledge. Informational items that do not come with some label, or seal of approval from the appropriate communities, are lost in the data deluge of the Information Age.
From the evaluator’s perspective, that is, the agent who has to filter information, reputation has an informational value. This has become a prominent issue in Web studies. Given that the structure of the Web is that of a reputational network, in which each link from a page to another can be read as a “vote” from a page to another, a number of algorithmic techniques have been developed to compute reputation of different entities on the Web: Recommender Systems, Collaborative Filtering and Reputation Systems (Resnick, 2000).
Collaborative forms of sharing ratings are also relevant in the study of Collective Intelligence (Landermore & Elster, 2012). People do not share information: they share evaluated and classified information that creates a “reputational stream” of shared judgements. The epistemological implications of the massive use of shared ratings in networked societies are huge: relying on other people’s judgements and authority challenges our epistemic responsibility. The reasons we trust collectively filtered ratings about an item or an agent are seldom explored. Choosing a doctor, an academic institution or a wine is a way of endorsing a tradition of values, a way of filtering information that is not always transparent and legitimate. Notorious biases in social networks - such as the Matthew effect, investigated by the sociologist of knowledge Robert Merton, according to which the nodes of a network that are more prominent have more probabilities to earn more reputation - create noise in the way reputation is diffused.
Other biases need further epistemological and cognitive inquiry. For example, people tend to form beliefs in order to acknowledge previously established reputations, such as voting for a certain party because a very well-reputed friend votes for that party. Also, reputations are resilient and may last over time even when the facts of the matters they are supposed to signal are no more there. For example, the prestige of institutions and corporations may last long time after their decay.
Reputation is a social commodity that needs to be handled in scientific way in order to avoid informational cascades, conformism and the perpetuation of received views.
Further readings:
Akelrof, G. (1970) "The Market for Lemons". Quarterly Journal of Economics, 84 (3), 488-500.
Bourdieu, P. (1984). Distinction. A Social Critique of the Judgement of Taste. Routledge and Kegan Paul.
Gambetta, D. (2009). "Signaling". In: P. Hedström, P. Bearman (eds) Oxford Handbook of Analytical Sociology, ch. 8.
Krebs, J. R., and Davies, N. B. (1998). An Introduction to Behavioural Ecology. Blackwell, Oxford.
Origgi, G. (2012)." Designing Wisdom Through the Web. Reputation and the Passion of Ranking". In H. Landermore, J. Elster (eds) Collective Wisdom. Cambridge University Press.
Veblen, T. (1899/2007). The Theory of the Leisure Class. Oxford World’s Classics.
Zahavi, A. (1998). The Handicap Principle. Oxford University Press.