Tuesday, February 26, 2013

Che cos'è l'etica laica? Intervista a Vincent Peillon, Ministro dell'Educazione Francese


Published on Micromega (January 2013). All rights reserved. Do not quote without permission.


In settembre 2012, il nuovo Ministro dell’Educazione socialista lancia la proposta di un insegnamento di “morale laica” a scuola. La laicità, secondo Vincent Peillon, non è per niente tolleranza, “laissez-faire”, ma è un insieme di valori che fanno la coesione della società e che bisogna imparare a condividere.
In una piacevole discussione - un breve intermezzo nella tormenta mediatica che assilla Peillon intorno alla riforma della scuola - questo vero filosofo mi cerca di spiegare che cos’è la laicità “à la française”. E’ la semplice assenza d’interferenza della religione nella vita civica e nelle decisioni morali dello Stato, o è un progetto positivo, di costruzione di una morale pubblica che crei una cittadinanza attiva attorno a un nucleo di valori condivisi? Che valori deve promuovere una morale laica? La libertà d’opinione, il rispetto del credo religioso privato e la sua non intrusione nella vita pubblica, o l’affermazione della superiorità di una visione non religiosa del mondo su una visione religiosa? Qual è il rapporto tra laicità e libertà di coscienza? Qual è il rapporto tra laicità e conoscenza?
Non è certo la prima volta che la Francia si concede il privilegio di un filosofo al governo. Eppure questo colto professore di filosofia ha un fascino speciale: specialista del pensiero socialista pre-marxista, ha lo sguardo sulle cose dell’intellettuale impegnato che sa passare con estrema agilità dalla conversazione astratta ai progetti concreti. Qualcuno che con le idee è capace di fare un vero programma di governo. Vediamo come.

G.O. Il suo progetto di insegnamento di morale laica a scuola si fonda su una certa visione della laicità tipicamente francese, che lei stesso, in un libro recente, definisce così: “Una dottrina della repubblica che è insieme filosofica, morale, religiosa, pedagogica e politica”. Le chiedo allora di spiegare al pubblico italiano che cos’è la laicità alla francese e soprattutto che cosa lega così profondamente la laicità all’idea di repubblica.

V.P. La mia risposta è prima di tutto storica. Quel che è successo in Francia, come lei sa bene, è che ci fu una Rivoluzione nel 1789, la quale ben presto fallì, e di lì a poco assistiamo al ritorno dell’Impero e della monarchia. Ci fu bisogno quindi di una seconda rivoluzione, che avvenne nel 1848. Questa seconda rivoluzione, che instaura la Seconda Repubblica, fallisce anch’essa, e assistiamo al ritorno della famiglia Bonaparte al potere. Tra i partigiani della repubblica, costretti all’esilio, filosofi come Pierre Leroux s’interrogano allora sul perché in Francia non si riesca a instaurare in modo stabile una repubblica. E arrivano alla conclusione che la rivoluzione del 1789 aveva chiesto solo libertà materiali, non spirituali, e che dal punto di vista spirituale la Francia era ancora sotto la dominazione della Chiesa cattolica, essenzialmente monarchica e conservatrice.
Insomma, la rivoluzione aveva preso il potere materiale e aveva abbandonato il potere spirituale nelle mani dei preti. Ora, il potere spirituale è cruciale, perché una società vive sì di pane, ma anche di idee, di sogni, di rappresentazioni. Così, i filosofi socialisti repubblicani dell’epoca decidono di riflettere su come costituire un nuovo potere spirituale, alternativo alla Chiesa cattolica. Questo nuovo potere spirituale è un nuovo insieme di rappresentazioni, di valori che viene battezzato “laicità”. La cosa bizzarra è che questi pensatori sostengono che una società non può vivere senza una “religione”, nel senso latino di religare, ossia riunire gli uomini sotto un insieme di leggi e rituali comuni, e dunque ci vuole una religione che corrisponda allo stato politico della repubblica e della democrazia, essendo il cattolicesimo la religione che corrisponde a uno stato monarchico o imperiale.
Bisognava inventare dunque una “religione per la repubblica”. C’era ovviamente una religione naturale per questo progetto: il protestantesimo. Ma la Francia, data la sua storia di guerre sanguinose di religione, non riesce a convertirsi. Alcuni ci provarono: ci fu un certo numero di conversioni protestanti tra i pensatori socialisti della prima metà dell’Ottocento, come ad esempio Charles Renouvier (1815-1903), uno dei protagonisti intellettuali della rivoluzione del 1848 e autore di un Manuale repubblicano dell’uomo e del cittadino, che addirittura organizza delle conversioni di massa al protestantesimo. Ma la resistenza culturale è molto forte, e alcuni insistono che si tratta comunque di una variante del cristianesimo, che c’è bisogno di qualcosa di veramente differente, legato ai valori nuovi della rivoluzione.
Jean Jaurès, grande politico e parlamentare socialista, dirà: “La Francia non è diventata protestante, ma ha avuto la rivoluzione”. La laicità nasce in Francia quindi come una forza teologico-politica, una forma di trascendenza spirituale legata ai valori rivoluzionari. C’è un libro, poco noto, di Edgar Quinet, pubblicato nel 1865, dal titolo La rivoluzione, in cui questo storico sostiene che la rivoluzione che è stata fatta per le strade bisogna poi realizzarla nelle menti della gente per poter instaurare una repubblica duratura. Ed è quello che verrà fatto successivamente, dai ministri e governanti della Terza Repubblica, come Jules Ferry, proprio usando la scuola come strumento di riconversione delle menti. Davanti ad ogni chiesa bisogna costruire una scuola, e ad ogni prete deve corrispondere un insegnante laico. Contro la religione cattolica, bisogna insomma instaurare la laicità - la famosa guerra delle due France, che continua fino al 1905, quando verrà dichiarata finalmente la separazione dei poteri tra Chiesa e Stato.
La laicizzazione della Francia passa per questa riconversione spirituale, che secondo Jules Ferry, non dev’essere solo intellettuale, ma anche emotiva: bisogna instaurare rituali laici: non bisogna lasciare ai preti gestire le emozioni fondamentali della vita dei cittadini, come i momenti di festa, i matrimoni o i lutti e i funerali.
Il percorso storico della laicità francese dovrebbe rendere chiaro che la laicità in Francia non è solo neutralità: è molto di più. Non è per niente la tolleranza. È un corpus di valori che bisogna insegnare ai cittadini: libertà, uguaglianza, fraternità, rispetto degli altri, dovere verso gli altri, dignità della persona, uguaglianza tra uomini e donne, giustizia… Insomma la laicità è una teoria con dei valori che si affermano e non solo una posizione neutrale rispetto ai valori. Il laico pensa che l’uguaglianza sia meglio dell’ineguaglianza, che il rispetto della persona sia meglio della violenza, etc.

G.O. E la laicità oggi? E’ ancora un modo di promuovere un insieme di valori attivamente? E quali sono i valori da promuovere oggi, fino a dove ci si può sbilanciare senza cadere in uno stato illiberale che alla neutralità preferisce l’affermazione di un punto di vista su quello degli altri?

La regola principale della laicità, che è una forma di organizzazione della libertà, è la libertà di coscienza: non è dunque assolutamente anti-religiosa, né proibisce a chiunque di avere la propria fede. La sua funzione è quella di rendere possibile la coesistenza di tutte queste libertà e la loro vita comune. Dunque ci ritroviamo nel paradosso che conosciamo ormai bene, ossia che la laicità non può tollerare l’intolleranza. Ed è per questo che la laicità non è neutra, non considera che tutti i valori siano sullo stesso piano. La laicità può mettersi “al di sopra” dei valori e affermare, per esempio, l’uguaglianza. E, una volta affermata l’uguaglianza, è chiaro che un insegnamento laico può prendere posizione su molti dibattiti e sostenere che la mutilazione dei genitali femminili sia da evitare, o che la pena di morte sia da evitare. Insomma, essere laico non significa essere neutrale: significa prendere posizione.
La laicità non è mai stata anti-religiosa. Jules Ferry, fondatore della scuola pubblica francese, diceva agli istitutori di fare attenzione a non ferire nessuna credenza o valore delle famiglie degli allievi, e insieme spiegare agli allievi come le proprie credenze possono co-esistere in uno spazio pubblico con le credenze degli altri. Non dimentichiamo che non è la laicità che ha provocato le guerre: sono le religioni. La laicità è di per se stessa profondamente pacifica. La laicità non si sostituisce a nessuna fede, ma vuole mostrare che per scegliere il proprio credo e vivere la propria differenza bisogna essere capaci di definire un “bene comune”, una “res publica” che permette di definire questa differenza. La laicità presuppone quindi la repubblica in una dialettica sottile di autonomia privata e condivisione pubblica, d’identità ritrovata in uno spazio condiviso e di differenza. La laicità è una dottrina estremamente elaborata, e in realtà, mi accorgo, poco conosciuta nei dibattiti pubblici. La laicità francese è un’articolazione estremamente sottile dell’identità e della differenza, di ciò che è comune e ciò che è singolare per autorizzare e rendere possibili le libertà individuali, perché non dimentichiamo che la laicità è una dottrina individualista, di rispetto della libertà del soggetto e della sua possibilità di esprimere le proprie opinioni.

G.O. La sua laicità mi sembra rispecchiare un ideale razionalista e universalista che sembra iscritto nei geni della cultura francese…Ma se la laicità è ancorata a una visione forte di “ragione”, non rischia di scontrarsi con una richiesta di relativismo culturale che le società aperte di oggi dovrebbero saper accogliere?

Il dibattito sul relativismo è tornato di moda, ma in realtà se ne discuteva già trent’anni fa. Il mio maestro, Merleau-Ponty, diceva che esistono razionalisti che sono un pericolo per la ragione…La ragione di cui parlo, o l’universalismo, è che due più due fa quattro e non cinque, e niente di più: sul fatto che due più due fa quattro ci troviamo d’accordo e possiamo trovare un’intesa, ma se la premessa è che due più due deve fare cinque allora l’intesa è difficile. Ma è una razionalità presuntiva, niente di più. Tutto l’interesse dell’idea stessa di “universale filosofico” è presuntivo: nessuno lo possiede, ma dobbiamo cercarlo tutti. E’ insomma l’oscillazione perpetua tra il dogmatismo, “C’è una sola ragione e io la possiedo”, e lo scetticismo, che è una posizione di rinuncia estremamente pericolosa. C’è una tensione storica, perenne, tra dogmatismo e scetticismo in filosofia, e la formulazione francese di questa tensione è la laicità, ossia l’idea che nessuno pretende di possedere l’universale, ma che nessuno rinuncia a cercare qualcosa che è dell’ordine della verità. Siamo sempre in cammino. Questa tensione: “Non ho la verità, ma non rinuncio” è il luogo stesso della democrazia. La laicità incarna l’acrobatico equilibrio della filosofia, sempre in bilico tra dogma e rinuncia della verità, tanto che per un filosofo utopista come Pierre Leroux, la laicità coincideva con la filosofia stessa: erano lo stesso concetto.
Ho appena scritto un articolo sul pensiero filosofico di Jean-Pierre Vernant, storico dell’antica Grecia, antropologo ed eroe della Resistenza, e cerco proprio di ricostruire attraverso il suo pensiero una certa visione della razionalità laica e politica che ha influenzato così profondamente la storia francese. Vernant si considerava un razionalista perché solo la razionalità può fondare la democrazia, perché solo la razionalità può fondare il dibattito pubblico e la ricerca di un accordo. Ma allo stesso tempo Vernant diceva che questa ragione, che non è la ragione dogmatica, ma la ragione figlia del dialogo, la ragione critica, deve essere capace di criticare se stessa.

G.O. Sarà questa ragione critica, questa capacità argomentativa, alla base dell’insegnamento dell’etica laica nelle scuole francesi?

Sì. E’ la capacità di porsi delle domande, di negoziare le proprie opinioni in uno spazio pubblico che crea un patrimonio comune di valori. E questa capacità va sviluppata, con tecniche e metodi appropriati per ogni età scolare. Ma l’insegnamento della laicità andrà più lontano e affronterà le questioni morali prendendo posizione, ed è su questo aspetto che ho incontrato per ora più resistenza. Molti mi hanno chiesto stupefatti: “Ma come si può insegnare la morale agli altri?”. Molti pensano che un’istituzione come la scuola non ha il diritto di insegnare la morale, ossia un certo numero di valori ai ragazzi, anche se in maniera critica. Io credo invece la scuola abbia il diritto – e anche il dovere - di farlo.  Perché la pubblicità, il marketing, le chiese, i genitori, il mondo dell’economia, i guru avrebbero il diritto di instillare valori e la scuola dovrebbe sospendere il giudizio sulle questioni fondamentali della vita, su ciò che è bene e ciò che è male, su ciò che è giusto e che è ingiusto, sulla vita felice, sul piacere, sulla morte?
Secondo molti è meglio fare educazione civica, ossia insegnare un po’ di diritto, invece che insegnare la morale. Ma il cuore della democrazia è proprio avere distinto il diritto dalla morale! Se dico che una legge è ingiusta, il mio concetto di giustizia non è definito dal diritto positivo: il mio giudizio viene da un altro ordine normativo. D’altro canto, se non faccio che rispettare i diritti - per esempio, ho una voglia matta di uccidere qualcuno, ma non lo faccio per non incorrere in una sanzione - non ho agito “moralmente”: un atteggiamento morale sarebbe sentire dentro di me l’obbligo di non uccidere. Questa distinzione tra diritto e morale può essere insegnata agli allievi delle scuole ed è importantissima, perché non si può sperare che l’insegnamento di qualche diritto aiuti la comprensione del ragionamento morale. E difatti, l’ignoranza sulla distinzione tra diritto e morale fa sì che la gente faccia fatica a comprendere le motivazioni stesse delle proprie azioni: spesso non sa se agisce per rispetto delle regole, per paura delle sanzioni, o perché sente un obbligo morale a fare quel che ritiene giusto. E’ questa coscienza di sé che un insegnamento della morale deve sviluppare.

G.O. Tutto ciò sembra molto kantiano…

Assolutamente. E infatti, nel 1880, quando viene fondata la scuola pubblica e repubblicana in Francia, il messaggio ai maestri è il seguente: “Avete il cielo stellato sopra di voi e la legge morale dentro di voi”. La morale repubblicana è una morale kantiana, basata sull’imperativo categorico. Jules Barni, repubblicano convinto e uno dei politici francesi che più promosse la scuola pubblica e laica, era il traduttore di Kant…

G.O. Un’ultima domanda. In ciò che ci ha raccontato oggi e nel suo lavoro di studioso della storia della laicità francese, il bisogno di spiritualità, di trascendenza è intrinseco alla laicità. E’ solo uno sguardo storico sul concetto di laicità, o ritorna d’attualità nel suo progetto di educazione morale laica?

Io sono stato educato in una famiglia comunista con profonde convinzioni materialiste. Ho cominciato il mio lavoro filosofico studiando Merleau-Ponty perché mi interessava la questione del rapporto tra anima e corpo. La teoria di Merleau-Ponty mostrava che il pensiero è sempre incarnato e che, d’altra parte, il corpo non è un pezzo di materia, ma è informato dall’avventura della mente. Il corpo è animato, è corpo pensante…io non separo il materiale e lo spirituale. Ho ritrovato la stessa inseparabilità tra socialismo e religione. Quando sono entrato in parlamento come deputato socialista, non avevo mai prestato una grande attenzione al pensiero di Jean Jaurès. Cominciai a leggerlo più attentamente, e fui sorpreso di ritrovare nel suo pensiero la convinzione che in ogni essere umano esiste un’aspirazione a una forma di trascendenza, a un movimento infinito. Per Jaurès, il socialismo non doveva abbandonare questa aspirazione, perché è talmente forte in ogni essere umano che se i progressisti e i socialisti non rispondono a questa esigenza saranno sempre battuti dalle chiese. Jaurès riteneva che il socialismo dovesse essere una nuova religione. Ma che cosa voleva dire in realtà con quest’idea di religione socialista? Beh, che quel movimento infinito che portiamo in noi è il fatto di non chiudere mai, né con la scienza, né con la religione, il bisogno eterno di farsi delle domande. Malebranche diceva che nell’essere umano esiste un movimento perenne per andare più lontano, per superarsi, un desiderio infinito, un amore infinito. Una società laica non deve uccidere questo desiderio infinito, ma iniettarlo nel suo potenziale di andare avanti. 

Wednesday, November 28, 2012

Mother's Tongue

A short movie I made in New York based on the idea of "word therapy" I have used in my Italian memoir, La figlia della gallina nera, Nottetempo, 2008.


Thursday, October 25, 2012

Homeland. Truth Troubles


by Gloria Origgi and Ariel Colonomos. Published on the Berlin Review of Books, december 17th 2012.



And ye shall know the truth, and the truth shall make you free.
John 8:32

This passage of the Bible is inscribed on the marble walls of the lobby of the CIA Headquarters in Langley, Virginia. After passing through heavy security, this is probably the first thing visitors entering the building would see. Homeland – the 2012 award-winning American TV series – Obama’s favourite, we are being told – raises one important question: What is, then, the price to be paid for knowing such truth?

“I have never been so sure and so wrong”. This line in the mouth of Carrie – a manic bipolar CIA officer determined to stop Nicholas Brody, a former Marine and prisoner of war, who has been released from Iraq after eight years of torture and has been “turned” by Al-Qaeda – is the quintessence of the whole series, now in its second season.
Homeland brings together two essential dimensions of truth and identity, in a breathtaking superposition of identity of the self and political identity. The two main characters – Carrie and Brody – have both multiple identities. Carrie goes through phases of mania and depression. At the peaks of her condition – when she is hyperactive or utterly dejected – she delivers essential truths about the identity of her counterpart, Brodie, and about the future of the United States.

Brodie is Carrie’s enemy and her raison d’être. As such, naturally, he becomes her lover. Brodie is an equally ambiguous character. He has been turned, yet not completely: as such, he is a classic case of double allegiance. He is a congressman and yet is ready to blow himself up in a room where the top US military and the vice-president are gathered. Brodie is the reflection of the fantasies of the West, whose patriots fear being invaded from within by their natural enemies: Muslim fundamentalists. Last but not least, Brodie is also bisexual, another fear of the “enemy within”, i.e. the deep drives of the unconscious we all have to deal with. Believe it or not (for anyone who has not watched the show, this might seem a bit of a stretch), Brodie has been sexually ‘turned’ by US number one public enemy, Abu Nazir – a fancy Bin Laden.

There is no truth without ambivalence. This is the striking message carried by Homeland. Heroes are also traitors, and masters of intelligence are also delusional. Yet, there is something special in the way in which ambivalence is staged here: the essential dramatic texture of the whole story is based on the fundamental ambivalence not only of the characters, but of the values they embody and of the emotions they solicit in us. As if the series was able to broadcast the slow but inevitable loss of the monopoly of truth – the Good Truth, the Right Truth, the one we attain through the appropriate methods – which America is facing today.

Carrie is a modern oracle. Her outstanding ability to track the truth is invaluable, and her bosses at the CIA know this very well. Yet, her methods are sometimes odd, based on intuition instead of evidence, and her style of inquiry too disrespectful of rules. She allows herself to make unauthorized moves in order to come up with results, thereby putting herself and the CIA at risk. At the same time, she is a very attractive woman, with a restless mind of rare subtlety.

Brody is the mirror image of Carrie’s ambivalent truth: he has actually been turned by Abu Nazir, but now that he is back, he hesitates, goes back and forth, from the horrible tortures he underwent in Iraq, to the memories of the discovery of a new world of values with Abu Nazir, who protected him, helped him and became his lover. His being turned touches upon all the dimensions of his life: psychological, sexual, political and religious. When – at the beginning of season 2 – his wife discovers that he prays as a Muslim, she exclaims in horror: “This just can’t happen!”.

Brody elicits in us mixed feelings: we are horrified by the intolerant and narrow-minded reaction of his wife, who cannot acknowledge another religious credo, but are also horrified when we discover that he is actually ready to kill the vice-president. Yet, his reasons for losing faith in his country are the killing of civilians, including children – notably, of Abu Nazir’s son.

Brody’s truth is unstable, Carrie’s truth is volatile, and the audience is trapped in their ambivalent posture, going back and forth between heroism and cowardice, between objective truth and intuition, between reasons that are too many in number, yet seem all in all plausible.
What is shocking to an audience of our generation is that, for the first time, a U.S. TV show puts on stage the duplicity of truth, as if discriminating between good and evil were a long by gone endeavour. And this state of permanent moral ambivalence permeates the psyche of the audience to the point of exhaustion: we simply cannot bear such an uncertain world. We oscillate between the two sides of the truth as the plot unfolds through a series of spectacular turns and twists that are the mirror of this feeling of instability.

Carrie and Brodie are imprisoned in their double truths and are looking for a way out. They disturb the certainties of the people around them. They also dissolve the simplistic commitment to “The Truth” and “The Good” of the other characters. Indeed, the other characters are monoliths by comparison. Thus, Carrie’s mentor is a (good Jewish) father figure, Saul Berenson, who has just broken up with his wife, an Indian woman, whom we see (towards the middle of season 1) leaving her husband to return “home”. There was no place to stay for her in Saul’s patriotic and monastic life in Washington DC. Brodie’s wife is middle-class America at its best, with all its limitations. Her truth is simple and transparent. She strives for stability and a linear career that will land her husband in the White House (and, as for herself, will ultimately allow her to host charity dinners with the wives of other DC power brokers).

The uncertainty of the global order becomes the psychical instability of its subjects, in a sort of “collective manic-depression” in which we can no longer choose the right course of action, but can only oscillate permanently between a two-sided truth. Ironically, during the Cold War, bipolarity was used to refer to the stability of the balance of power that ruled the relation between the Soviet Union and the United States. In the post-9/11 era, bipolarity is internalized in the deep instability of the self, which reflects the trouble relation between the US and its ‘devils du jour’, both internal and external.

Homeland reminds us that the moral and political order of our world and its cognitive/epistemic order are impossible to disentangle. The ‘homeland’ that we all miss today is the homeland of a simple objective truth about how things are and how they should be. A truth that used to reassure us and made our decisions and actions grounded on a firm footing. As Odysseus already knew, outside our lost homeland, there is hell, permanent doubt and, in the end, loss. 

Tuesday, October 23, 2012

Don't Talk to Strangers

This post is online on the website of the International Cognition and Culture Institute

Why is Misinformation so Sticky?

When my mother was warning me against talking to strangers in the street, she might have had not only security concerns, but also epistemological ones. Misinformation, whichis so widespread in contemporary societies, is sticky! According to Stephan Lewandowsky, Ullrich K. H. Ecker, Colleen Seifert, Norbert Schwarz and John Cook, the authors of an excellent survey article on the topic, “Misinformation and its Correction: Continued Influence and Successful Debiasing”, just published in Psychological Science in the Public Interest, once you start believing bogus information it becomes very difficult to correct, even when you are told that it was bogus.

birther

The article discusses the main sources of misinformation in our societies and the cognitive mechanisms that may be responsible for its resilience in our minds, even when we are exposed to retractions. The authors also offer solutions to the problem that may help researchers, journalists and practitioners of various kinds to find the right packaging of counter-messages that challenge previously acquired beliefs.
Misinformation is not ignorance: it is worse. When you are merely ignorant about something you are not opinionated. People who do not know anything about a subject often come out with simple heuristics (as argued in particular in a 2002 paper by Goldstein & Gigerenzer) that help them make the right guesses, whereas when you have been misinformed and have made the effort of acquiring the false belief about, say, the potential harm of a vaccine or Barack Obama not being eligible as President of United States because he was born in Kenya, you don’t easily let your beliefs go away without anything in exchange, because you usually made up costly justifications and narratives in order to sustain it.

Four main sources of misinformation haunt our lives: (1) rumours and fiction; (2) governments and “propaganda”; (3) vested interested of various organizations and, of course, (4) the media.

Communication then plays the major guilty role in rooting bullshit in people’s minds. This is, I would argue, because when we engage in a communicative exchange, we take a stance of trust, at least for the sake of conversation, about what it is said: we follow rules of good cognitive conduct, by presupposing that those who are communicating with us have something relevant to tell us. In most contexts, to be exposed to what other people say is enough to come up believing that what they say is true. Once we accept, even if provisionally, what others say for the simple reason that they say it, then further checking is not really elaborate (in the absence of strong reasons to think that someone wants to fool us). Our filtering strategies limit themselves to checking the compatibility with other things we hold true, the coherence of what has been said, the (apparent) credibility of the source and the possibility that other people believe the same thing.

Thus, mere exposure to malicious communicative sources can infect us with beliefs that we think we have reasons to accept because we have “legitimized” them (by telling ourselves that they come from credible sources, that they are coherent, or that there is a social consensus about them, etc.)

What is most striking about misinformation is its resistance to retraction: even if exposed to retraction, even if they have understood the reason why the information was wrong, people hesitate to change their minds. Updating information is costly. We construct narratives, mental models about a certain event that stick to our mind and that we re-enact when presented with retractions. Also, it is humiliating to be asked NOT to believe what we previously believed and usually we ask something back to change our views.
primavera
Allegory of Spring. Or is it?

The last section of the paper presents strategies to correct misinformation, based on some simple principles. When people are presented with retracted information, they typically have the misinformed content repeated. It is more effective to build an alternative narrative that avoids repetition of the original bogus one. Also, the alternative narrative is the “goodie” people may like to have in exchange for giving up to their beliefs. I once remember having read a new interpretation of the allegory represented on the Italian Renaissance painting La Primavera by Sandro Botticelli. It put forward an alternative, highly structured narrative according to which the central character of the picture was not an allegory of the spring, but the muse Philosophy and the whole picture was a representation of the wedding between Philology and the god Mercury. The relevance of the alternative narrative was high enough to “erase” the previous narrative I had learned at school.

The article ends with a nice illustration on how misinformation can be corrected (see below), and some simple recommendations for practitioners.


Wednesday, October 10, 2012

Le Arti dell'Islam al Louvre



Le arti dell’Islam
Parigi, Louvre, court Visconti, apertura: 22 settembre 2012
di Gloria Origgi

Un velo di maglie dorate si posa morbido come un tessuto a ricoprire l’intera corte Visconti del Louvre, dove si è inaugurato sabato 22 settembre il nuovo spazio espositivo dedicato alle arti dell’Islam. Quella tettoia ondulata e translucida, progettata dal milanese Mario Bellini e il parigino Rudy Ricciotti, in bilico tra il tappeto volante e lo chador, riassume il senso riconciliatorio del progetto di un’ala di arte islamica nel cuore del più grande museo di Francia, paese della laicità, che nel 2004 bandì con una legge il velo islamico in nome della Repubblica.

I visitatori che accedono dalla piramide d’ingresso del Louvre ai nuovi spazi, 2800 metri quadrati su due livelli, sono accolti in un ambiente scuro ed epurato, volumi in vetro e pavimenti di piastrelle nere incrostate di scaglie d’ottone che creano un eco cromatico con i riflessi della tettoia dorata e il cemento nero dei muri portanti.

All’entrata, sulla sinistra, una lastra di pietra scura commemora i nomi dei mecenati del progetto, finanziato per un terzo dallo Stato francese e per il resto da sponsor privati e donatori mediorientali: si ringrazia sua maestà il re Mohammed IV del Marocco, sua altezza lo sceicco Al-Ahmad Al-Jaber Al-Sabah, emiro del Kuwait, sua maestà il sultano dell’Oman… la Francia repubblicana si piega a un rito diplomatico delicato e necessario: il riconoscimento da parte dell’occidente di una cultura islamica ricca e influente con cui il nostro passato e il nostro futuro devono fare i conti.




E difatti, le bellissime mappe digitali che accompagnano la mostra, incise anch’esse su lastre nere, s’illuminano di un azzurro iridescente per indicare l’espansione della civiltà islamica dal VII secolo in poi, dalla penisola arabica fino all’India e alla Spagna, un mondo immenso, una vera civiltà, con una sua unità estetica e culturale. Un racconto attraverso più di 2500 oggetti preziosi che rivoluziona la nostra concezione della storia, che mette in questione la retorica del ruolo centrale e unico della civiltà greco-latina nella formazione della cultura occidentale e la separazione netta tra oriente e occidente che ancora oggi influenza così profondamente la nostra lettura del mondo.




L’Islam, insistono le didascalie politically correct, non è solo una religione, è una civiltà. I suoi prodotti culturali vanno ben al di là della sfera religiosa: gli oggetti destinati alle élites - lampade, vasi, tappeti - hanno un’unità estetica e spesso i loro fruitori non erano neanche musulmani, come in Siria ad esempio, dove nel XII secolo la popolazione era ancora prevalentemente cristiana. La distinzione tra cultura islamica e religione musulmana è dunque il perno programmatico dell’intero progetto di presentazione di questa collezione di oggetti, la cui raccolta cominciò all’epoca della fondazione del Louvre e proseguì fino alla creazione, nel 1893 di una sezione del museo di “arte musulmana”, soprattutto religiosa, per poi evolvere, dal 1946 in poi, nella denominazione “arte islamica”, una concezione molto più vasta di questa espressione culturale, che per circa mille anni, dal VII al XVII secolo, si estese su un’area geografica enorme che ancora oggi porta le tracce di quel passaggio in certe forme che si ritrovano a Toledo come a Nuova Delhi, come i jalis, quei reticoli di pietra che coprono finestre e creano effetti di luce nei palazzi spagnoli e nelle regge dei maragià.



Così, la collezione ci trasporta per questo regno di mezzo, il trait-d’union tra oriente e occidente, tra i tappeti a decorazioni floreali di Samarcanda, ai motivi fitti di piante, animali e di calligrafie, ai cicli di immagini che si ritrovano su fregi, medaglioni, scatole in avorio, candelabri, lampade magiche. Ritroviamo le atmosfere incantate da Mille e una Notte, le spezie, i colori, gli azzurri profondi, i legni intagliati con i motivi a stella, gli ori e gli argenti. D’un tratto, una miriade di culture si fondono insieme sotto i nostri occhi: gli arabeschi spagnoli, la Sicilia, le steppe dell’Asia fino alla Cina, i profumi di zafferano, le pietre preziose, le turcherie, i Berberi, i magici elisir. Perché la cultura islamica non è solo cultura araba: i sultani di Bagdad, a partire dal XIII secolo, furono Turchi, e la conquista dell’Africa nera in nome dell’Islam è opera dei Berberi.




Dopo la visita al piano sotterraneo della mostra, il visitatore risale al livello della tettoia dorata: tra le vetrate si scorgono i muri della corte Visconti e, come per incanto, i motivi tipici disegnati sui mattoni di pierre de taille parigina che si ritrovano sulle pareti esterne di buona parte del Louvre, assumono qualcosa di orientale.



L’ala delle arti dell’Islam del Louvre è un atto simbolico concreto: dà un senso nuovo ai nostri occhi sospettosi occidentali a quella relazione ambivalente di appartenenza sognante e di paura che l’Europa intrattiene da secoli con l’Islam: rende i sogni d’oriente, i veli e i profumi, compatibili con il nostro mondo occidentale. E, in una strana mescolanza tutta francese di universalismo, grandeur e umiltà, è davvero un passo avanti per imparare che la tolleranza passa per nuove forme di racconto della nostra storia e modi nuovi di classificare e giustificare il nostro essere tra le cose.




Monday, October 01, 2012

Homo Singularis


C’è un vento nuovo nelle scienze sociali. Parole come visibilità, reputazione, riconoscimento, prestigio, invadono il vocabolario dei libri più interessanti che stanno uscendo negli ultimi anni, come se in tanti stessero girando attorno a un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti, ma al quale per troppo tempo si è stentato a dare peso scientifico, o a comprenderne l’unità teorica. 

Eppure, ripeto, è sotto gli occhi di tutti: ça crève les yeux, come recita l’incipit del nuovo libro della sociologa francese Nathalie Heinich, De la visibilité (Gallimard, 2012) quasi seicento pagine di analisi del perché, in società che si definiscono democratiche, il paesaggio sociale sembra sempre più strutturato intorno a immensi scarti di visibilità, ossia, alle capacità di alcuni individui, idee e oggetti di essere infinitamente più visti degli altri. Come ci vediamo visti, la parte del sé che affidiamo allo specchio degli altri, è un motore profondo del nostro agire, una passione sfrenata di esistere nello sguardo altrui che spesso supera le motivazioni dell’homo oeconomicus, interessato ossessivamente a ottimizzare il suo utile, ma forse una maschera troppo “autistica” di noi stessi per spiegare la socialità ipertrofica dell’io contemporaneo.

Notti intere su Facebook a confezionarsi un’immagine di sé per amici immaginari, a selezionare quel che di noi è spendibile socialmente: foto in cui siamo più belli, interessi musicali singolari, posizione in un network sociale che ci faccia guadagnare un po’ di status. Perché? Nessuno è diventato ricco con Facebook, tranne il suo fondatore, eppure quasi un miliardo di esseri umani in giro per il mondo perde tempo a curare la sua immagine virtuale come se da essa dipendesse la sua vita. Casi spettacolari di ossessioni reputazionali, come la storia recente di Orlando Figes, celeberrimo storico inglese dell’Unione Sovietica, il quale, dalle stelle alle stalle, è stato beccato a scrivere sotto pseudonimo recensioni velenose dei libri dei suoi colleghi su Amazon. Non è vero solo che la società ci manipola in modo univoco: siamo noi che manipoliamo in continuazione la nostra esistenza sociale curandola, travestendola, emendandola, nel tentativo di darle singolarità, di renderci unici agli occhi degli altri.
Il fenomeno non è interamente nuovo: già Hobbes definiva la passione della gloria come l’ambizione tanto fondamentale quanto vana di essere riconosciuto superiore dagli altri, di lasciare una traccia unica nel nostro breve passaggio su questa Terra. Quel che è nuovo è che il fenomeno assume oggi le dimensioni di un fatto sociale totale, come definiva l’antropologo Marcel Mauss quei fatti che si svelano da soli e per dare senso ai quali abbiamo bisogno di un nuovo paradigma che tocchi tutte le dimensioni delle scienze sociali: economia, antropologia, filosofia, storia, estetica.

Così, sempre in Francia, tra i due saggi più influenti di questi anni, due attacchi alla teoria economica dominante, uno alla teoria neo-classica del mercato, L’économie des singularités del sociologo Lucien Karpik (Gallimard 2007), e l’altro alla teoria del valore, L’empire de la valeur, dell’economista André Orléans (Seuil 2011). Entrambe le critiche si focalizzano sullo stesso punto: il valore si crea nello scarto qualitativo, non quantitativo: l’economia, che riduce tutto a merce/quantità, deve integrare la singolarità. Il progetto di Orléans è rifondare la teoria del valore di mercato senza cercare di ridurre il valore a una grandezza che gli pre-esisterebbe, come l’utilità, il lavoro o la rarità. Il valore è un prodotto autonomo dello scambio, ed è fine a se stesso. Come due specchi rivolti uno verso l’altro, il valore si genera nella relazione tra le cose: non è nelle cose stesse. Contro un’economia delle quantità o delle grandezze, Orléan propone un’ economia delle relazioni. Così Karpik, con la sua economia delle singolarità, ossia di quei prodotti che hanno valore solo se giudicati bene o male dagli altri, propone uno studio sistematico dei dispositivi di giudizio che creano le differenze di mercato. Insomma, come diceva Karl Mannheim, fondatore della sociologia della cultura, l’essere umano pensa ed esperisce il mondo gerarchicamente, non coglie la realtà se non attraverso l’insieme di valutazioni che derivano una dall’altra.


Le nuove tecnologie sociali della rete sembrano la realizzazione stessa di questa visione del mondo: all’era dell’informazione si sta sostituendo un’era della reputazione nella quale tags, giudizi, rankings, voti, numero di citazioni - ossia tracce di ciò che gli altri hanno detto di qualcosa – diventano l’unico accesso possibile alla cosa stessa. L’analisi di Nicoletta Cavazza nel suo libro recente Pettegolezzi e reputazione (Il Mulino) mostra, tra l’altro, i meccanismi reputazionali che tengono insieme l’intera economia dell’informazione in rete, da Wikipedia a eBay.
Siamo davanti insomma a un cambiamento di paradigma: la nascita di una “scienza della relazione” che prende come un’unità di analisi non l’individuo, né la società nel suo insieme, ma l’io sociale, ossia l’individuo cosciente di essere guardato dagli altri. Come dicevo, le implicazioni sono in tutti i rami del sapere, come mostra il bellissimo saggio filosofico di Barbara Carnevali in uscita sempre da Il Mulino, Le apparenze sociali: per una filosofia del prestigio, che spazia dall’estetica, alla teoria letteraria, alla fenomenologia sociologica per fondare filosoficamente una teoria della parte sociale del sé, troppo spesso considerata come immateriale, superficiale, insomma, causalmente irrilevante per spiegare i veri rapporti di forza soggiacenti alla costruzione della società. Per riassumere la sua tesi con la bella citazione di Oscar Wilde a epigrafe del libro: “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile”.
Essere visibile è una relazione. Della realtà che abbiamo da studiare sotto gli occhi non rimane altro che questo. Una rete di relazioni in cui diventa sempre più impossibile distinguere i fatti dai valori. 



Monday, September 24, 2012

Review of Barbara Carnevali: Le Apparenze Sociali

All rights reserved. Published on the cultural supplement of Il Sole 24 Ore on Sunday, September 23rd




"Ciò che sappiamo sugli altri e ciò che gli altri sanno su di noi si fonda essenzialmente su apparenze". Non esiste un accesso diretto all'anima altrui, a un io profondo, che non passi per le apparenze che socialmente si manifestano nell'interazione con i nostri simili. L'incipit del saggio di Barbara Carnevali, Le apparenze sociali (Il Mulino, in libreria il 6 settembre) non lascia scampo: basta con i piagnistei romantici dell'io autentico corrotto da una coscienza sociale alienata, basta con il contrasto tra essere e apparire: siamo quello che sembriamo perché la nostra identità più profonda si struttura proprio in quei meccanismi di presentazione del sé, di costruzione dell'identità sociale che tanta filosofia condanna come il sintomo di una patologia prettamente moderna. Con grande erudizione unita a una rara originalità, in questo saggio Barbara Carnevali affronta la questione delle apparenze sociali proponendo un vero e proprio programma di ricerca filosofico: un'estetica sociale che prenda sul serio il ricco sistema di segnali che offriamo alla percezione altrui e che struttura le nostre relazioni sociali. La società è lo spazio di scambio di questi segnali, un immenso sensorium che include tutte le percezioni socialmente significative: i gesti, le espressioni, gli accessori, gli ornamenti, i segnali di status. La dimensione estetica della sfera pubblica è per la Carnevali necessaria. E questo è l'aspetto più originale della sua ricerca: le apparenze sociali non solo trasmettono contenuti sociali, ma li plasmano, li costituiscono. Beh, nell'era di Facebook, in cui milioni di persone passano ore al giorno a plasmare e ritoccare la propria immagine sociale condivisa pubblicamente, ci voleva finalmente un'intellettuale che avesse il coraggio di dare consistenza teorica all'inspiegabile perdita di tempo collettiva di farsi belli agli occhi degli altri!
La dimensione estetica non è quindi riducibile a quella sociologica, come per esempio scriveva il sociologo francese Pierre Bourdieu nel suo libro, La distinzione: critica sociale del gusto (Il Mulino, 2000). Secondo Bourdieu, i nostri gusti estetici sono l'espressione della nostra posizione sociale; più che segnalare agli altri lo status attraverso i gusti, come nella teoria del consumo ostentativo del sociologo americano Thorstein Veblen, per Bourdieu i gusti "incorporano" l'appartenenza sociale, in un habitus che assorbiamo piano piano nel modo di essere e di sentire sin da piccoli. L'estetica sociale proposta dalla Carnevali, benché chiaramente nella tradizione di ricerca di Veblen e Bourdieu, rompe con il riduzionismo sociologico: apparenza estetica e appartenenza sociale sono in una relazione osmotica molto più complessa. Non si può ridurre una all'altra. E, per tornare all'esempio dei network sociali, ma non solo, mi sembra che l'analisi della Carnevali sia un passo avanti per comprendere fenomeni sociali contemporanei che vanno ben al di là della pura distinzione di classe.
Spaziando da Rousseau e il suo discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, alla società-spettacolo di Guy Débord, dalle provocazioni estetiche di Andy Warhol all'iconografia del prestigio nella storia dell'arte, dalla sociologia della vita quotidiana di Goffman, allo snobismo proustiano, la Carnevali articola una teoria dei fenomeni estetici come fatti sociali totali, per usare l'espressione di Marcel Mauss, ossia quei fatti che informano e organizzano pratiche  economiche, sociali, legali apparentemente molto distanti tra loro.
Rilassiamoci: il nostro io sociale non è una costruzione da cui ci possiamo liberare: l'ambivalenza tra quel che mostriamo di noi e quello che siamo riassume la condizione umana stessa. Ci voleva forse una filosofa donna e milanese per ricordarci che, in fondo, tra forma e sostanza non c'è poi tutta questa differenza.

Tuesday, September 18, 2012

Review of Michela Marzano: Avere Fiducia (Mondadori 2012)

This article has been published on the cultural supplement of Il Sole 24 Ore on Sunday, September 16th  2012. All rights reserved.






Il saggio filosofico, un genere letterario tipicamente francese, si sta imponendo anche nella nostra penisola. Reso celebre nella modernità da Michel de Montaigne, il saggio, a differenza dello studio filosofico, (ciò che in linguaggio accademico chiamiamo monografia) è tipicamente a tesi, affronta un tema con uno stile polemico e non risparmia le riflessioni personali, evitando la postura “oggettiva” del libro di ricerca. E’ indirizzato a un pubblico di lettori colti, ma non specialisti, pur mantenendosi in vivace conversazione con la comunità intellettuale e le sue tesi dominanti, che costituiscono proprio il bersaglio preferito dell’essayiste. E siccome in Italia, quando s’importano mode dall’estero, si diventa più realisti del re, il saggio italiano è sempre più spesso firmato da donne le quali, tradizionalmente erano più timide degli uomini a “spararle grosse” e si rifugiavano nel lavoro erudito, lasciando le luci della ribalta ai soliti noti colleghi tromboni. C’è da rallegrarsi dunque di questa nuova apertura stilistica nella nostra cultura e anche della sua encomiabile parità in termini di quote rosa.

Eppure, i risultati di questa nuova importazione non sono sempre soddisfacenti, tanto che viene da chiedersi se non fosse migliore la nostra cultura vecchiotta, i nostri libri infarciti di note a pié di pagina e di bibliografie sterminate - che i francesi manco si sognano - ma che hanno garantito la solidità culturale del nostro paese, complicato sì, ma ricchissimo di colti studiosi, forse pedanti, ma di grande raffinatezza, modestia, erudizione e indifferenti alle sirene della prima pagina.

Prendiamo l’ultima fatica saggistica di Michela Marzano, dedicata alla bellissima questione della fiducia. Un argomento che sembra ideale per questo genere letterario: chi di noi, infatti, tra crisi economiche, bolle speculative, crisi d’identità nazionale, globalizzazione, minacce di non fare più credito addirittura a stati sovrani, non s’interroga oggi su cosa resti della fiducia nelle nostre società? La fiducia è la dimensione nascosta del nostro vivere insieme, quel patto tacito quotidiano che fa sì che ci fidiamo che il cibo che compriamo sia commestibile, che i soldi che mettiamo in banca il 27 del mese siano ancora sul nostro conto il giorno dopo, che lo stipendio arrivi puntuale, che il ponte che attraversiamo in automobile non crolli, che il farmaco che ci ha prescritto il medico sia quello giusto e così via, fino alle questioni più intime della nostra vita, come l’amore, il tradimento, il rispetto della parola data. La fiducia è un concetto affascinante proprio perché è strutturalmente instabile, e quando pensi di averla spiegata, definita, catturata, ecco che ti sfugge di mano. La fiducia è fondamentale e fragile insieme: la si dà e la si pretende senza mai essere certi di essere corrisposti. E’ come se la certezza del legame sociale si fondasse su un’incertezza strutturale, irriducibile, una scommessa con gli altri continuamente rinnovata in una perenne postura da equilibristi che caratterizza la condizione umana, o, almeno, la condizione di noi moderni.

Ma alla Marzano tutta ‘sta incertezza moderna non piace. In realtà, secondo la filosofa, le nostre società, in cui si parla di fiducia in continuazione, sono società della sfiducia, in cui non ci si fida di nessuno, a meno che quell’altro non sia obbligato da un contratto firmato e controfirmato a rispettare gli impegni presi. Questa, secondo la Marzano, non è fiducia: al massimo è credito, un concetto tutto economico che rappresenta bene il degrado mercantile della nostra società, in cui la stoffa dei nostri rapporti sociali è intessuta di contratti, incentivi e sanzioni. E ciò perché la gente non ha il coraggio di fidarsi e basta e, senza chiedere nulla in cambio, correre a braccia aperte verso i suoi simili. Secondo la Marzano è proprio questa mancanza di fiducia, e quest’affidarsi solo a relazioni regolate di credito che ha provocato le recenti crisi finanziarie. E qui entriamo nell’analisi più bizzarra del volume, che occupa tutta la prima parte, in cui attraverso una superficiale ricostruzione della storia delle istituzioni monetarie dal Seicento fino alla crisi dei subprimes, la Marzano ci spiega che è proprio la fiduciaimmateriale e vuota che diamo alla moneta, che non rappresenta più nulla, che ci fa affondare nel disastro. 

Ora, il lettore resta lievemente spiazzato: quale sarebbe la colpa delle istituzioni finanziarie? Di usare la moneta e le azioni fiduciarie? Di farsi credito sulla base di contratti? Per farci davvero del bene e fidarci tutti insieme dovremmo tornare al baratto? Ma non sono forse gli eccessi  di fiducia nel mercato che creano le bolle? E non sono proprio coloro che i contratti non li rispettano, che si fanno fiducia facendosi l’occhiolino perché sanno di far parte della stessa cordata di strapotenti che può fregarsene delle regole che hanno portato il mondo a catafascio? Secondo la Marzano no. E’ la visione manageriale della fiducia razionale, quella - diciamo - che si studia con la teoria dei giochi, il dilemma del prigioniero e tutte quelle stregonerie, che ci sta sotterrando. Chi dà ragioni per fidarsi, chi pensa che cooperare possa essere razionale, fa parte di un complotto di razionalisti che sta portando la società sul lastrico. Anche i successi della bioetica, come la legislazione sul consenso informato che regola in modo nuovo, ragionato, i rapporti spesso paternalistici tra medico e paziente, non convincono pienamente l'autrice. Perché la fiducia, quella vera, “si impara unicamente dal momento in cui si accetta di saltare dalla finestra” (p. 11). Senza chiedere nulla in cambio, neanche che qualcuno ti venga ad acchiappare.

Il salto nel vuoto della Marzano lascia perplessi. Qual è il bersaglio? La società decente, per usare la bella espressione del filosofo Avishai Margalit, quella dove si ha ragione di far fiducia agli altri e di sviluppare norme e aspettative sull’affidabilità del prossimo? La Marzano conclude ieratica: “La scommessa della fiducia è la scommessa dell’uomo”. Ma che c’è di così morale, profondo e fondamentale nell’essere sicuri di perderla?