Tutti i diritti riservati. Scritto per il supplemento Robinson 2009 - Il Sole 24 Ore
Fuggire, godersi la calma del non essere per qualche tempo, come fare, cosa c’è di veramente difficile nel lasciarsi dimenticare ? Chiedete a qualsiasi pensionato, a qualsiasi puerpera incarcerata in casa dal lattante, a qualsiasi malato costretto al letto per mesi, di come in realtà sia facile cadere nell’oblio, essere piano piano dimenticati non solo dagli altri esseri umani, ma anche dalle macchine.
Mi riconnetto dopo mesi sul mio blog e scopro che la procedura di connessione è cambiata. Vado sul sito della banca, e, a causa della mia lunga assenza, la password non è più valida : devo chiederne un’altra per lettera e aspettare la risposta cartacea. Apro la posta elettronica e scopro che l’operatore del mio cellulare è stato acquisito da un altro. Ora devo cambiare i codici, altrimenti il mio abbonamento non varrà più. Esausta, cerco di connettermi al mio sito preferito di social networking per riprendere i contatti con gli amici. Ma il sito non c’è più : si è trasformato in un servizio di vendita online, i miei contatti sono stati inglobati nel database insieme agli altri, anonima lista a cui inviare promozioni…
Insomma, la nostra presenza forzata al mondo è caduca : le nostre tracce virtuali incerte, abbozzate ed eliminabili molto più facilmente di quanto crediamo. Se non ci pensiamo noi a farlo, ci pensa comunque la mano invisibile del ciberspazio e le spietate leggi del mercato.
Cosa c’è di così complicato allora nello scomparire ? In un romanzo di Pascal Quignard, Villa Amalia, da cui il regista Benoît Jacquot ha tratto l’anno scorso un bel film omonimo con Isabelle Huppert e Maya Sansa, la protagonista, Ann Hidden, decide di far perdere le sue tracce. Pianista e compositrice di successo, con una vita apparentemente riuscita a Parigi, Ann organizza con molta determinazione la sua fuga: mette rapidamente in vendita la sua casa, annulla i concerti, chiude i conti in banca, apre una casella postale a nome di un vecchio amico di scuola, ritrovato per caso proprio la sera della sua risoluzione a scomparire. Parte in treno, getta via il telefonino, studia un percorso tortuoso, attraverso diversi paesi d’Europa. Sbarca così a Ischia, dopo molto girovagare, già assuefatta a quella nuova vita, al silenzio opaco di quel mondo estraneo che non la riconosce più, affitta una casa isolata, con una meravigliosa vista sul mare, ricomincia pian piano ad essere, a tessere una tela intorno a sé nuova, diversa, ma anche più umana e sincera, come se quella rottura di sé, quel desiderio di fuga repentino e inspiegabile, sia stato un modo di riscoprirsi, di scendere a patti infine con un’autenticità di sé stessa che nella sua vita parigina ormai regolata dalle aspettative degli altri le era irraggiungibile. Ann Hidden, nascondendosi si ritrova e si apre a sé stessa. Il suo coraggio, il coraggio di qualsiasi Robinson, è trovare la forza di rompere lo specchio in cui gli altri ci riflettono, disattendere le aspettative routinarie, le lente e rassicuranti induzioni che il mondo intorno a noi ci getta addosso sottoforma di richieste di fiducia.
Tradire la fiducia di essere domani la stessa persona di oggi agli occhi degli altri è il vero passo difficile per ogni Robinson, come lo fu per quel signor Stevenson, fatto di sogni, che dalla sua fredda Scozia ritrovò il tesoro di sé stesso a Samoa.
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