Monday, March 28, 2011
Tutti pazzi per MadMen
Published on Saturno on March 25th. All rights reserved
Spesso, dove fallisce la scienza, arriva l’arte. Quale sociologo ci avrebbe reso il dettaglio della Parigi d’inizio secolo meglio di Proust nella Recherche? Ecco allora che un capolavoro di sociologia della famiglia s’incarna oggi in uno dei generi narrativi più riusciti dell’ultimo decennio: la serie TV. A metà strada tra cinema, soap-opera e racconto, la serie TV è oggi il prodotto culturalmente più raffinato che l’America abbia messo sul mercato. La formula è ormai ben rodata: un canovaccio scritto da un drammaturgo brillante, un casting ricercato e la regia dei diversi episodi affidata di volta in volta a registi di fama.
Così MadMen, la serie cominciata nel 2007 e scritta da Matthew Weiner, autore di The Sopranos, è alla sua quarta stagione, già uscita negli Stati Uniti e attesissima in Europa (data prevista per i fans: 29 marzo).
Ambientata negli Anni Sessanta, MadMen, espressione coniata all’epoca per indicare i pubblicitari che lavoravano in Madison Avenue a New York, racconta delle passioni, gli amori, le famiglie, le crisi d’identità di un gruppo di giovani pubblicitari, delle loro mogli, amanti e successive concorrenti, di come l’America ingenua e spietata del Dopoguerra prenda pian piano coscienza di sé.
La prima stagione ci immerge nel 1960, in piena campagna kennediana, nell’atmosfera elegante dell’agenzia pubblicitaria Sterling & Cooper. L’estetica è alla Hitchcock: i colori a contrasto, i costumi, il mobilio e qualcosa di finto, plastificato nei volti dei personaggi come se tutti nascondessero qualcosa. Come le Barbie e i Ken della nostra infanzia, i personaggi di MadMen si muovono in un mondo falsamente perfetto, mariti al lavoro con whisky e sigaretta in mano, segretarie sexy e mogli indistinguibili a casa nei sobborghi ricchi della metropoli a occuparsi di bambini altrettanto perfetti e di case altrettanto indistinguibili. Ma, dal primo episodio, e dalla sigla graficamente bellissima, in cui si vede il disegno stilizzato di un uomo in camicia bianca e completo scuro precipitare dall’ultimo piano di un grattacielo tappezzato di cartelloni pubblicitari, si accumulano le incrinature nella patina di ognuno dei protagonisti e dei formidabili deuteragonisti che fanno la forza della serie.
Tutto gira intorno alla figura di Don Draper, direttore artistico dell’agenzia e suo genio creativo. La sua carriera va di successo in successo, nell’ammirazione generale dei giovani ambiziosi che lo circondano. Le donne si accumulano, da Midge, l’artista stravagante del Village che diventerà eroinomane nella quarta serie, a Rachel, ricca figlia di un cliente ebreo, che gli fa scoprire l’esistenza dell’antisemitismo e della questione ebraica. Don è sposato con Betty, una delle mogli Barbie bionde platino del film, da cui ha due figli. Ma Don nasconde un segreto da Grande Gatsby: dai tempi della guerra di Corea, vive sotto una falsa identità per scappare dall’inferno della guerra e della sua poverissima famiglia d’origine. Anche la patina di Betty s’incrina presto: un dolore improvviso alle mani le fa perdere il controllo dell’auto e la convince a cominciare una terapia psicanalitica, sotto la stretta sorveglianza del marito, spazientito da tali velleità. Intanto in ufficio, tra le segretarie starnazzanti che sognano solo di sposare uno dei boss, si staglia Peggy, bruttina e severa, ma determinatissima a fare carriera. Durante una delle scene chiave della serie, un “brain-storming” in cui vengono convocate tutte le segretarie per provare una nuova collezione di rossetti sotto lo sguardo eccitato dei maschi creativi che ridono nascosti dietro a un vetro invisibile, Peggy osserva le altre, non sta al gioco e alla fine improvvisa uno slogan che piace ai capi. Uno di essi commenta sorpreso: “Era come vedere un cane giocare a scacchi…”.
E’ difficile spiegare dove stia esattamente la genialità di MadMen: a parte l’estetica perfetta, i dialoghi sono spesso banali, e gli intrighi tipici del serial: amori, aborti, tradimenti, passato che ritorna…Eppure la serie ci inchioda, come ci inchioda chi ci rende consapevoli di verità che erano lì, sotto gli occhi di tutti, e che nessuno aveva detto esplicitamente. Ciò che incanta della serie è lo sguardo attonito e insieme nostalgico della generazione nata negli Anni Sessanta sui suoi genitori, quel mito della famiglia borghese che i movimenti femministi e il Sessantotto hanno incrinato di fatto ma non scalfito di norma, come se ogni vita diversa da quella della pubblicità della famiglia felice fosse una derogazione, una scivolata dalla retta via. E’ il rendersi conto di quanto il mondo sia cambiato in una generazione, di come i rapporti uomo/donna, la coscienza della propria salute (le sigarette, l’alcool, il sesso libero e promiscuo senza paura dell’aids), la coscienza ecologica (concluso un picnic, i coniugi Draper non esitano e gettare gli avanzi sul prato e andarsene allegramente) siano valori che abbiamo acquisito quasi senza accorgerci. Ed è forse l’ambiguità di quello sguardo del bambino cresciuto che capisce infine le incrinature nelle vite dei genitori, che è insieme critico e nostalgico, a rendere la serie un capolavoro. Ridiamo delle sigarette a catena e insieme sogniamo di accenderne una mentre guardiamo il film, come se crescere davvero, vedere il mondo con occhi nuovi, voglia dire anche perdere per sempre il conforto regressivo dei bigodini e delle sigarette della "mamma platonica" della nostra infanzia.
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1 comment:
Bellissima recensione della serie, hai proprio colto nel segno :)
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