Il Sessantotto mi ha sempre fatto sognare. Nata a Milano nel 1967, il Sessantotto per me è sempre stato solo un mito, un momento di magia e di confusione di cui si parlava in casa quando ero piccola. Dei movimenti di sinistra degli Anni Settanta ricordo solo, purtroppo, l’atmosfera plumbea milanese del terrorismo, la violenza e le morti. Ma il Sessantotto non era legato a nessuna violenza nella mia percezione di bambina. Era stata una specie di primavera, in quella Parigi libera e poetica che sognavo da piccola e che sarebbe diventata la mia città da grande.
Mi sono trasferita a Parigi per un dottorato nel 1992, in un’epoca in cui gli anni della contestazione erano un ricordo lontano. Ma lo spirito di quegli anni si sentiva ancora nelle coscienze dei miei maestri cinquantenni. Nel centro di ricerca dove andai a studiare, una concentrazione di menti eccezionali che stavano rivoluzionando le scienze sociali e cognitive dell’epoca, si respirava ancora, appunto, lo spirito rivoluzionario di quegli anni: ognuno era libero di contribuire alla ricerca con quello che sapeva, secondo il motto marxista “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue esigenze”, tutte le discipline si confondevano, nuovi saperi si creavano nelle conversazioni di corridoio del piccolo Centro di Ricerca di Epistemologia Applicata, dell’Ecole Polytechnique, allora nel cuore del Quartier Latin di Parigi, a due passi dalla Sorbona che era stata il teatro degli eventi del famoso maggio parigino.
Per il numero speciale di Micromega dedicato al Sessantotto e pubblicato a distanza di cinquant'anni nel febbraio del 2018, intervistai due miei maestri francesi, l’antropologo e scienziato cognitivo Dan Sperber e il sociologo Alain Touraine. Di generazioni diverse (Sperber è del 1942, Touraine del 1925), entrambi erano all’epoca già accademici, Dan giovane ricercatore al CNRS e Alain professore di sociologia a all’università di Nanterre. Entrambi già militanti, Dan aveva militato nel movimento contro la guerra d’Algeria e Touraine, dopo due anni passati a lavorare in miniera (1948-1950) per rendersi conto della condizione di lavoro dei minatori, militava nei movimenti operai dell’epoca, di cui è anche uno specialista. Mai nella mia vita ho trovato interlocutori più felici di poter raccontare la storia di quegli anni: i sorrisi si moltiplicavano ad ogni frase e gli occhi pieni di nostalgia andavano indietro negli anni, a quella primavera chiassosa che aveva cambiato le loro vite e quelle di molti altri.
Touraine e Sperber si incontrarono in una libreria vicino all’Odéon, dove si andava quasi tutti i giorni a discutere di cambiamento, rivoluzione e nuove idee. Si erano riuniti il sabato 11 maggio, e Touraine a un certo punto si alzò e disse: “Non serve a nulla che stiate qui chiusi dentro a discutere, bisogna andare in strada per capire cosa succede!”. La frase risultò immediatamente come un’evidenza, e il piccolo gruppo di studenti, giovani docenti e altri intellettuali si riversò nelle vie di Parigi. Alcune università erano già state occupate, tra le quali l’università di Censier e quella di Nanterre. Dan Sperber fu tra coloro che occuparono la Sorbona lunedì 13 maggio1968. Si recarono la mattina presto, e lui e Jean Métasse, un giovane storico della schiavitù, e andarono a chiedere le chiavi al decano che si trovava già nel suo ufficio. Il professore ribatté: “Ma chi siete voi? Perché dovrei darvi le chiavi?”. Jean Métasse si presentò dicendo: “Sono agrégé in Storia”. Allora il professore impressionato da quel titolo tutto francese (l’agrégation è una sorta di abilitazione ed è molto prestigiosa in Francia) gli strinse calorosamente la mano e gli consegnò le chiavi. Subito si sistemarono nei vari locali della Sorbona, erano circa una ventina, e cominciarono ad attaccare fogli sulle porte delle aule con l’annuncio di corsi in materia completamente nuove: “Storia della schiavitù”, “Sociologia dei minatori”, “Sociologia della sessualità”… Tutto era possibile, bastava immaginarlo. Se pensiamo alla cancel culture contemporanea, che invece di chiedere l’impossibile come facevano allora, restringe sempre di più le libertà di espressione, certo viene nostalgia per quel pensiero libero di immaginare nuovi campi del sapere invece che restringere quelli già esistenti. Un parallelo con i movimenti culturali contemporanei è comunque possibile: c’è in entrambi una richiesta di una cultura nuova, di nuovi orizzonti intellettuali per comprendere un mondo che non era e non è più lo stesso di quello in cui erano stati educati i genitori. Benché oggi il movimento di rinnovamento culturale sia imbrigliato dalle norme del politically correct e dunque tenda a una costante vittimizzazione e colpevolizzazione, credo che il bisogno di cambiare radicalmente il modo in cui la cultura è concepita sia più che legittimo allora come oggi.
Ma all’epoca non ci si vittimizzava: si agiva. Cosa volete studiare? I popoli autoctoni del Brasile perché nessuno ve lo insegna? Benissimo! Troviamo un giovane studente in antropologia che faccia un corso su questo. Era un cambiamento di paradigma à la Thomas Kuhn, lo storico della scienza autore del libro Le Rivoluzioni Scientifiche, ma invece che essere a livello di una disciplina scientifica era al livello della cultura e della società intere. Come in Kuhn, il mondo sotto gli occhi di quei giovani non era semplicemente più lo stesso. Non si sarebbero mai più potuti indossare gli occhiali di prima: una vera rivoluzione che rendeva la realtà incommensurabile al mondo precedente era cominciata.
Nel pomeriggio, il piccolo gruppo degli occupanti della Sorbona riuscì a salire sulla famosa cupola dell’edificio e da là osservare la grande manifestazione (circa un milione di persone) guidata da Daniel Cohn-Bendit che attraversava il boulevard Saint Michel per dirigersi verso l’università. Sperber si ricorda il cielo terso di Parigi, l’aria unica di libertà che si respirava là in cima al mondo, in cima alle istituzioni, il senso di ebbrezza di poter cambiare tutto e il senso di rinascita in un mondo nuovo, giovane e aperto a domande che nessuno si era mai fatto.
La manifestazione confluì alla Sorbona e molti studenti si unirono all’occupazione. C’era un circolare frenetico tra una sala e l’altra, tutti avevano idee di attività possibili: gruppi di autocoscienza delle donne, gruppi di riflessione sul razzismo, sugli operai, sui diritti degli immigrati, sulla medicina alternativa…e a un certo punto un ragazzo entra in una sala per avvertire tutti: “Venite: si fa l’amore nell’anfiteatro!”. Di colpo, uomini e donne cresciuti in una società dai valori borghesi come la Francia, abituati a non incontrarsi sui banchi di scuola, ancora separati per genere, si guardavano con occhi nuovi, lasciavano cadere le inibizioni, e nell’imponente anfiteatro dell’università, facevano l’amore.
Qualcuno suggerì che ci voleva un po’ di musica. L’idea fu allora di andare a cercare un pianoforte. Un gruppo di forzuti si recò dunque in casa di qualche amico di amici che aveva lo strumento e insieme lo trasportarono nel cortile della Sorbona. I momenti rivoluzionari sono quelli in cui le idee diventano performative: si trasformano immediatamente in atti. Sono azione e pensiero insieme.
Non voglio fare un resoconto storico di quel che successe nel maggio 1968 a Parigi, non ne sarei capace e ci sono tanti protagonisti di quei tempi che hanno scritto di questo nel numero di Micromega del 2018. Quel che sto cercando di fare è catturare un’atmosfera, un sentire che mi è stato trasmesso da tanti amici più vecchi di me e che ha fatto del Sessantotto un’esperienza unica, un’esplosione di passioni, amore, coraggio, entusiasmo, collera, sentimento di ingiustizia, che non so se si è mai ripetuta, almeno in Europa, in tempi più recenti.
Alain Touraine, sociologo dei movimenti sociali, grande intellettuale e uomo impegnato politicamente, era stato il professore di Daniel Cohn-Bendit, un giovane ebreo franco-tedesco che fu la guida spirituale del famoso maggio. Cohn-Bendit era nato in Francia da genitori tedeschi militanti di estrema sinistra e poi antinazisti e aveva studiato a Nanterre per poi diventare la voce del movimento di maggio. Arrestato a più riprese in quell’anno - mi racconta Touraine - quando il giudice gli chiede dettagli su cosa stava facendo al momento delle violenze che ebbero luogo sulle barricate, Cohn-Bendit risponde con un sorriso soave: “Mais je faisais l’amour, votre honneur!” (“Stavo facendo l’amore, vostro onore!”).
In un articolo pubblicato sul giornale di estrema destra Minute, Jean-Marie Le Pen dice di lui: “Questo Cohn-Bendit, perché è ebreo e tedesco, si prende per un nuovo Karl Marx!”.
Esperto dei movimenti sociali, professore già all’epoca, Touraine aveva uno sguardo più disincantato sul movimento quando lo intervistai nel 2018. Secondo lui, l’impatto politico del 1968 fu poco e se ci fu, fu negativo. Ma l’impatto sociale e culturale fu immenso, così come la risonanza mondiale del movimento, che rimbalzava dagli Stati Uniti, all’Italia, dalla Germania al Cile. A partire dal Sessantotto, come spiega nel libro Un nouveau paradigme (Fayard, 2005), i movimenti cosiddetti sociali si sono trasformati in movimenti culturali, cosa che è confermata da movimenti recenti come per esempio la primavera araba. Le rivendicazioni sono più simboliche che sostanziali. In più, sempre secondo il sociologo, il movimento del maggio Sessantotto non aveva alcuna unità, era spontaneo. L’opposizione tra studenti e sindacati in quell’occasione ne è per lui un sintomo. E le correnti di estrema sinistra che parteciparono, fondamentalmente tre: i comunisti, i gruppuscoli di sinistra e gli studenti di Nanterre, erano in lotta tra di loro. I comunisti, per esempio, erano del tutto ostili alle barricate. Quando il mitico poeta e scrittore comunista Louis Aragon si presenta alla Sorbona per parlare con gli studenti viene fischiato da tutti. Solo Cohn-Bendit insiste che gli sia data la parola urlando: “Laissez parler cette vieille crapule communiste!” (Lasciate parlare questa vecchia canaglia comunista!).
Secondo Touraine nel Sessantotto non si era in un mondo politico, ma in mondo di immaginario, di rappresentazioni, di immagini. Centrali, per esempio, le espressioni grafiche del movimento, soprattutto a Nanterre, dove il grande corridoio della facoltà fu completamente decorato. Qualsiasi idea di un’estrema sinistra forte e di un pericolo rivoluzionario va scartata, cosa che è provata dal fatto che non ci furono morti a Parigi. L’unità era nell’immaginario e nella cultura, non nella politica, il che spiega anche gli effetti politici deleteri che il Sessantotto ebbe negli anni a venire, i cosiddetti anni di piombo. Ciò non vuol dire che il movimento non abbia avuto impatto sulla società francese. Secondo Touraine, ci sono almeno due aspetti sui quali il movimento ha radicalmente cambiato la società: le questioni soggettive, personali, come il rapporto alla sessualità, e le questioni post-coloniali e globali. E questa eredità è ancora presente ai giorni nostri: se pensiamo a movimenti come me too, agli studi post-coloniali e all’ecologia, soggetto eminentemente non politico, ci rendiamo conto che l’eredità di quegli anni è ancora vivacissima ai giorni nostri.
Consegnate a Micromega le mie conversazioni con Sperber e Touraine, avevo in programma un viaggio di lavoro a New York. Negli stessi giorni anche Paolo Flores D’Arcais si trovava a New York per lavoro. A cena da vecchi amici incontrai Todd Gitlin, uno dei protagonisti dei movimenti studenteschi americani, autore di libri come The Sixties: Years of Hope, Days of Rage (1987) e The Whole World is Watching (1972). Decidemmo dunque con Paolo di raccogliere anche la sua testimonianza.
Todd ci ricevette in un ufficio modesto e disordinato, pieno di libri dappertutto, in un sotterraneo della scuola di giornalismo di Columbia University. Aveva parlato talmente tante volte dei movimenti americani degli Anni Sessanta, che aveva paura di non aver più niente da dire. E invece la conversazione fu piacevolissima, molto personale, e Todd decise di raccontare gli eventi dal punto di vista del suo vissuto di giovane studente americano per cercare di capire la portata esistenziale che quegli anni avevano avuto per lui.
Negli Stati Uniti, il Sessantotto cominciò ben prima dell’anno 1968, e Todd fu convolto dall’inizio, ancora prima della fondazione dell’organizzazione attivista SDS (Students for a Democratic Society), che fu la base del movimento della New Left, la sinistra radicale americana. Ciò che lo portò alla contestazione, già nel 1959, era il rischio del nucleare, la nuova spada di Damocle che pendeva sulle teste del mondo intero.
Studiava a Harvard, dove fu coinvolto in un gruppo locale di attivisti anti-nucleare, influenzato soprattutto dalla sua ragazza di allora, una “red diaper baby” come li si chiamava allora, ossia figlia di comunisti. L’attivismo in questo gruppo divenne rapidamente il centro della sua vita da studente a Harvard per i successivi tre anni. Ma non era ancora l’attivismo radicale della New Left: era un attivismo pacifista and anti-militarista ispirato soprattutto dalla sensazione apocalittica di stare rischiando l’estinzione dell’umanità.
Negli anni successivi, Todd, come molti giovani, viveva un paradosso esistenziale: da un lato era molto facile pensare al peggio, alla catastrofe totale, il che è ben comprensibile in un’epoca in cui le crisi politiche/nucleari tra i due blocchi erano di attualità. Dall’atro lato, improvvisamente c’era la sensazione di trovarsi in un mondo nuovo, un mondo dove c’erano molte persone con le quali sentire una forte affinità, e condividere tutto. Una sorta di nuova famiglia, intelligente, appassionata e idealista. Tutti erano pieni di passione, senza rinunciare anche a un certo realismo: non si sentivano solo in uno stato teologico di preparazione alle fiamme dell’inferno del nucleare, ma pensavano di poter far rinsavire il mondo. Non come movimento studentesco da solo, ma con l’aiuto di altre parti della società che avrebbero aiutato ad avere influenza sul potere e spingere per nuove riforme. Kennedy era diventato presidente, il movimento per i diritti civili era diventato una realtà che stava muovendo la società…insomma, si viveva il paradosso di alternare una visione catastrofica del futuro ad un certo ottimismo pragmatico.
Nella SDS c’erano comunque differenze, anzi forti dissensi su cosa fare praticamente. Quando Todd divenne il terzo presidente dell’organizzazione nel 1963, la maggior parte dei membri (a quei tempi giusto qualche centinaia), provenivano dai movimenti per i diritti civili. Ma già allora, qualche leader delle frange più radicali del movimento per i diritti civili, anticipando il fatto che il movimento avrebbe potuto vincere e che il vecchio ordine sudista e razzista era ormai al tramonto, come per esempio Stokely Carmichael, leader del SNCC- Student Nonviolent Coordinating Committee, cominciava a pensare che bisognasse guidare il movimento verso la lotta di classe e trasformarlo in un movimento interraziale, al di fuori delle università.
Nel frattempo, però, scoppia la guerra in Vietnam. La SDS decise di organizzare una grande manifestazione contro la guerra nell’aprile del 1965. E da quel momento, le energie per il movimento nei campus furono fomentate fondamentalmente dalla guerra. La guerra divenne l’ossessione collettiva non solo della SDS ma di tutta la New Left. Ciò ebbe molte conseguenze importanti. Per prima cosa, la New Left vedeva nel presidente Lindon Johnson, successore di John F. Kennedy, vero liberal, che fece avanzare le cause dei diritti civili e si impegnò in molte altre battaglie sociali, soltanto un presidente guerrafondaio che affondava sempre di più l’America nella guerra del Vietnam. Questo spostò il movimento naturalmente a sinistra: non volevano avere nulla a che fare con la sinistra dell’establishment politico che era responsabile della guerra. Poi, una parte considerevole del movimento si alienò dalla New Left in generale e questo fu l’inizio di quello che un paio d’anni dopo fu chiamato il Black Power.
C’era poi la causa dei neri che avanzava in un certo senso in modo parallelo. I due segmenti più radicali del movimento dei diritti civili però erano entrambi interraziali all’inizio, non solo neri: uno era il SNCC, l’altro era il CORE (The Congress of Racial Equality). Il capo del CORE era un uomo meraviglioso: James Farmer, un socialista che era stato attivo nelle organizzazioni che avevano preceduto SDS. Era interraziale lui stesso, con una moglie bianca. Le maggiori manifestazioni al nord in supporto dei sit-in organizzati al sud a quei tempi per i diritti dei neri furono organizzate da CORE. Ma l’umore razziale si stava indurendo già a partire dal 1964, in parte a causa della violenta negazione di molti diritti richiesti dal movimento al Sud. Anche SNCC cominciò a muoversi in una direzione più dura e i bianchi furono espulsi. Lo stesso disagio cominciò a sentirsi in CORE, e James Farmer fu sostituito da un leader molto più orientato a fare CORE un movimento nero.
Lo spirito di insurrezione generale accelerò nell’ottobre 1967, con la marcia verso il Pentagono e la settimana di proteste a Oakland Stop the Draft, che riuscirono ad occupare l’intero centro della città. Il senso di essere ormai in un ciclo ascendente di violenza continuava a crescere. Il 1968 fu anche l’anno di due assassinii: Martin Luther King e Robert Kennedy. Dopo la morte di King ci furono manifestazioni dappertutto, ma soprattutto vere e proprie sommosse nelle comunità nere. La SDS non giocò un grande ruolo, perché ormai i destini della lotta dei neri e del movimento erano separati. L’atmosfera era orribile e molti pensarono che l’ultima speranza per una riforma non violenta dell’America se ne fosse andata con King.
Nel 1968 la militanza del movimento entrò in conflitto con il governo assolutista e la polizia di Chicago durante la convention del Partito Democratico, un evento recentemente ricostruito al cinema dal bel film di Aron Sorkin,
The Trial of the Chicago 7.
Todd è un idealista, un uomo gentile e senza violenza. Aveva visto persone che conosceva perdere la testa, prendere posizioni assurde, dogmatiche, idiote…Conosceva abbastanza storia per sapere come vanno a finire le rivoluzioni di sinistra, e in quel momento viveva in California dove lavorava per un giornale underground, e aveva già perso in parte speranze nel movimento. Decise comunque di andare alla grande manifestazione organizzata contro la convention democratica. Racconta a me e a Paolo nel suo studio di New York: “Andai con un doppio ruolo, di manifestante e di giornalista: osservatore e attore insieme. C’era una rivista di sinistra radicale che si chiamava Ramparts a quei tempi e che pubblicava, a Chicago, ogni giorno durante la settimana della Convention democratica, dei rapporti e analisi su quello che succedeva nella strada. E io scrissi di ciò che stava accadendo a Chicago. Ero là, dentro e fuori allo stesso tempo. Vedevo com’era facile arrendersi al caos psicologico che regnava. Sapevo di amici picchiati e arrestati, ero acciecato dai gas lacrimogeni, etc. etc. E mentre succedeva questo inferno, eravamo fieri ed eccitati di aver rovinato la convention democratica”.
La gente uscì da quello scontro confusa. Todd non credeva alla rivoluzione, ma sapeva che il mondo stava guardando e che questo dava un peso cruciale a quell’evento. Non era il cambiamento del potere che contava, ma il cambiamento dei rapporti di potere che sarebbe stato trasformato per sempre.
L’altro ricordo di Todd è la rivoluzione sessuale. All’inizio i gruppi di discussione sulla sessualità erano misti: uomini e donne che si raccontavano le loro esperienze, che imparavano a confrontarsi. Poi le donne decisero di procedere da sole, etichettando gli uomini come “membri della classe dominante”. Todd lo visse male, visse anche quella rottura come la fine di una speranza universalista del movimento, bianchi e neri, uomini e donne, operai e studenti tutti insieme per un mondo migliore. Ma Todd è un idealista. Credeva a un risveglio collettivo. Una grande riconciliazione, con gli esseri umani, tra le nazioni, con la Natura. Quella visione chiaramente fallì. Era assurdo pensare che la rivoluzione cubana potesse essere applicata agli Stati Uniti, che le cause dei gay fossero comparabili a quelle dei bianchi poveri americani, che le cause delle donne fossero da confrontare con quelle dei neri. Eppure, da quel sentimento di risveglio collettivo dipese anche l’emergere di tutte quelle lotte.
Ho ascoltato questi tre protagonisti del Sessantotto con aria sognante, cercando di immaginarmi cosa possa significare a diciotto o vent’anni vivere un’esperienza collettiva così intensa. Non mi è mai capitato nulla di questo genere, anche se un’atmosfera di sfrenata fantasia e di apertura al nuovo la vissi a Parigi durante il grande sciopero del 1995. Solo l’atmosfera: i contenuti politici e culturali erano pochi, ma la città era come sotto un incanto nuovo, la solidarietà gli uni con gli altri era totale e si moltiplicavano le iniziative collettive. Ho il ricordo di una meravigliosa prima colazione all’alba, sul Pont des Arts, organizzata spontaneamente da un gruppo di ragazzi, che chiedevano a tutti i passanti di portare qualche croissant, di sedersi attorno un lunghissimo tavolo improvvisato e di parlare insieme. Partecipai piena di gioia, dicendomi che il famoso Sessantotto francese doveva aver avuto momenti di altrettanta bellezza.
Ho molti amici della generazione che aveva vent’anni nel Sessantotto. Alcune amiche mi chiedono: “Ma perché ti piace tanto frequentare i vecchi?” Non sanno in realtà che i miei amici oggi settantenni sono stati quelli che hanno inventato la gioventù. E’ perché mi piacciono i giovani che sono a loro così tanto affezionata.
Mi sono trasferita a Parigi per un dottorato nel 1992, in un’epoca in cui gli anni della contestazione erano un ricordo lontano. Ma lo spirito di quegli anni si sentiva ancora nelle coscienze dei miei maestri cinquantenni. Nel centro di ricerca dove andai a studiare, una concentrazione di menti eccezionali che stavano rivoluzionando le scienze sociali e cognitive dell’epoca, si respirava ancora, appunto, lo spirito rivoluzionario di quegli anni: ognuno era libero di contribuire alla ricerca con quello che sapeva, secondo il motto marxista “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue esigenze”, tutte le discipline si confondevano, nuovi saperi si creavano nelle conversazioni di corridoio del piccolo Centro di Ricerca di Epistemologia Applicata, dell’Ecole Polytechnique, allora nel cuore del Quartier Latin di Parigi, a due passi dalla Sorbona che era stata il teatro degli eventi del famoso maggio parigino.
Per il numero speciale di Micromega dedicato al Sessantotto e pubblicato a distanza di cinquant'anni nel febbraio del 2018, intervistai due miei maestri francesi, l’antropologo e scienziato cognitivo Dan Sperber e il sociologo Alain Touraine. Di generazioni diverse (Sperber è del 1942, Touraine del 1925), entrambi erano all’epoca già accademici, Dan giovane ricercatore al CNRS e Alain professore di sociologia a all’università di Nanterre. Entrambi già militanti, Dan aveva militato nel movimento contro la guerra d’Algeria e Touraine, dopo due anni passati a lavorare in miniera (1948-1950) per rendersi conto della condizione di lavoro dei minatori, militava nei movimenti operai dell’epoca, di cui è anche uno specialista. Mai nella mia vita ho trovato interlocutori più felici di poter raccontare la storia di quegli anni: i sorrisi si moltiplicavano ad ogni frase e gli occhi pieni di nostalgia andavano indietro negli anni, a quella primavera chiassosa che aveva cambiato le loro vite e quelle di molti altri.
Touraine e Sperber si incontrarono in una libreria vicino all’Odéon, dove si andava quasi tutti i giorni a discutere di cambiamento, rivoluzione e nuove idee. Si erano riuniti il sabato 11 maggio, e Touraine a un certo punto si alzò e disse: “Non serve a nulla che stiate qui chiusi dentro a discutere, bisogna andare in strada per capire cosa succede!”. La frase risultò immediatamente come un’evidenza, e il piccolo gruppo di studenti, giovani docenti e altri intellettuali si riversò nelle vie di Parigi. Alcune università erano già state occupate, tra le quali l’università di Censier e quella di Nanterre. Dan Sperber fu tra coloro che occuparono la Sorbona lunedì 13 maggio1968. Si recarono la mattina presto, e lui e Jean Métasse, un giovane storico della schiavitù, e andarono a chiedere le chiavi al decano che si trovava già nel suo ufficio. Il professore ribatté: “Ma chi siete voi? Perché dovrei darvi le chiavi?”. Jean Métasse si presentò dicendo: “Sono agrégé in Storia”. Allora il professore impressionato da quel titolo tutto francese (l’agrégation è una sorta di abilitazione ed è molto prestigiosa in Francia) gli strinse calorosamente la mano e gli consegnò le chiavi. Subito si sistemarono nei vari locali della Sorbona, erano circa una ventina, e cominciarono ad attaccare fogli sulle porte delle aule con l’annuncio di corsi in materia completamente nuove: “Storia della schiavitù”, “Sociologia dei minatori”, “Sociologia della sessualità”… Tutto era possibile, bastava immaginarlo. Se pensiamo alla cancel culture contemporanea, che invece di chiedere l’impossibile come facevano allora, restringe sempre di più le libertà di espressione, certo viene nostalgia per quel pensiero libero di immaginare nuovi campi del sapere invece che restringere quelli già esistenti. Un parallelo con i movimenti culturali contemporanei è comunque possibile: c’è in entrambi una richiesta di una cultura nuova, di nuovi orizzonti intellettuali per comprendere un mondo che non era e non è più lo stesso di quello in cui erano stati educati i genitori. Benché oggi il movimento di rinnovamento culturale sia imbrigliato dalle norme del politically correct e dunque tenda a una costante vittimizzazione e colpevolizzazione, credo che il bisogno di cambiare radicalmente il modo in cui la cultura è concepita sia più che legittimo allora come oggi.
Ma all’epoca non ci si vittimizzava: si agiva. Cosa volete studiare? I popoli autoctoni del Brasile perché nessuno ve lo insegna? Benissimo! Troviamo un giovane studente in antropologia che faccia un corso su questo. Era un cambiamento di paradigma à la Thomas Kuhn, lo storico della scienza autore del libro Le Rivoluzioni Scientifiche, ma invece che essere a livello di una disciplina scientifica era al livello della cultura e della società intere. Come in Kuhn, il mondo sotto gli occhi di quei giovani non era semplicemente più lo stesso. Non si sarebbero mai più potuti indossare gli occhiali di prima: una vera rivoluzione che rendeva la realtà incommensurabile al mondo precedente era cominciata.
Nel pomeriggio, il piccolo gruppo degli occupanti della Sorbona riuscì a salire sulla famosa cupola dell’edificio e da là osservare la grande manifestazione (circa un milione di persone) guidata da Daniel Cohn-Bendit che attraversava il boulevard Saint Michel per dirigersi verso l’università. Sperber si ricorda il cielo terso di Parigi, l’aria unica di libertà che si respirava là in cima al mondo, in cima alle istituzioni, il senso di ebbrezza di poter cambiare tutto e il senso di rinascita in un mondo nuovo, giovane e aperto a domande che nessuno si era mai fatto.
La manifestazione confluì alla Sorbona e molti studenti si unirono all’occupazione. C’era un circolare frenetico tra una sala e l’altra, tutti avevano idee di attività possibili: gruppi di autocoscienza delle donne, gruppi di riflessione sul razzismo, sugli operai, sui diritti degli immigrati, sulla medicina alternativa…e a un certo punto un ragazzo entra in una sala per avvertire tutti: “Venite: si fa l’amore nell’anfiteatro!”. Di colpo, uomini e donne cresciuti in una società dai valori borghesi come la Francia, abituati a non incontrarsi sui banchi di scuola, ancora separati per genere, si guardavano con occhi nuovi, lasciavano cadere le inibizioni, e nell’imponente anfiteatro dell’università, facevano l’amore.
Qualcuno suggerì che ci voleva un po’ di musica. L’idea fu allora di andare a cercare un pianoforte. Un gruppo di forzuti si recò dunque in casa di qualche amico di amici che aveva lo strumento e insieme lo trasportarono nel cortile della Sorbona. I momenti rivoluzionari sono quelli in cui le idee diventano performative: si trasformano immediatamente in atti. Sono azione e pensiero insieme.
Non voglio fare un resoconto storico di quel che successe nel maggio 1968 a Parigi, non ne sarei capace e ci sono tanti protagonisti di quei tempi che hanno scritto di questo nel numero di Micromega del 2018. Quel che sto cercando di fare è catturare un’atmosfera, un sentire che mi è stato trasmesso da tanti amici più vecchi di me e che ha fatto del Sessantotto un’esperienza unica, un’esplosione di passioni, amore, coraggio, entusiasmo, collera, sentimento di ingiustizia, che non so se si è mai ripetuta, almeno in Europa, in tempi più recenti.
Alain Touraine, sociologo dei movimenti sociali, grande intellettuale e uomo impegnato politicamente, era stato il professore di Daniel Cohn-Bendit, un giovane ebreo franco-tedesco che fu la guida spirituale del famoso maggio. Cohn-Bendit era nato in Francia da genitori tedeschi militanti di estrema sinistra e poi antinazisti e aveva studiato a Nanterre per poi diventare la voce del movimento di maggio. Arrestato a più riprese in quell’anno - mi racconta Touraine - quando il giudice gli chiede dettagli su cosa stava facendo al momento delle violenze che ebbero luogo sulle barricate, Cohn-Bendit risponde con un sorriso soave: “Mais je faisais l’amour, votre honneur!” (“Stavo facendo l’amore, vostro onore!”).
In un articolo pubblicato sul giornale di estrema destra Minute, Jean-Marie Le Pen dice di lui: “Questo Cohn-Bendit, perché è ebreo e tedesco, si prende per un nuovo Karl Marx!”.
Esperto dei movimenti sociali, professore già all’epoca, Touraine aveva uno sguardo più disincantato sul movimento quando lo intervistai nel 2018. Secondo lui, l’impatto politico del 1968 fu poco e se ci fu, fu negativo. Ma l’impatto sociale e culturale fu immenso, così come la risonanza mondiale del movimento, che rimbalzava dagli Stati Uniti, all’Italia, dalla Germania al Cile. A partire dal Sessantotto, come spiega nel libro Un nouveau paradigme (Fayard, 2005), i movimenti cosiddetti sociali si sono trasformati in movimenti culturali, cosa che è confermata da movimenti recenti come per esempio la primavera araba. Le rivendicazioni sono più simboliche che sostanziali. In più, sempre secondo il sociologo, il movimento del maggio Sessantotto non aveva alcuna unità, era spontaneo. L’opposizione tra studenti e sindacati in quell’occasione ne è per lui un sintomo. E le correnti di estrema sinistra che parteciparono, fondamentalmente tre: i comunisti, i gruppuscoli di sinistra e gli studenti di Nanterre, erano in lotta tra di loro. I comunisti, per esempio, erano del tutto ostili alle barricate. Quando il mitico poeta e scrittore comunista Louis Aragon si presenta alla Sorbona per parlare con gli studenti viene fischiato da tutti. Solo Cohn-Bendit insiste che gli sia data la parola urlando: “Laissez parler cette vieille crapule communiste!” (Lasciate parlare questa vecchia canaglia comunista!).
Secondo Touraine nel Sessantotto non si era in un mondo politico, ma in mondo di immaginario, di rappresentazioni, di immagini. Centrali, per esempio, le espressioni grafiche del movimento, soprattutto a Nanterre, dove il grande corridoio della facoltà fu completamente decorato. Qualsiasi idea di un’estrema sinistra forte e di un pericolo rivoluzionario va scartata, cosa che è provata dal fatto che non ci furono morti a Parigi. L’unità era nell’immaginario e nella cultura, non nella politica, il che spiega anche gli effetti politici deleteri che il Sessantotto ebbe negli anni a venire, i cosiddetti anni di piombo. Ciò non vuol dire che il movimento non abbia avuto impatto sulla società francese. Secondo Touraine, ci sono almeno due aspetti sui quali il movimento ha radicalmente cambiato la società: le questioni soggettive, personali, come il rapporto alla sessualità, e le questioni post-coloniali e globali. E questa eredità è ancora presente ai giorni nostri: se pensiamo a movimenti come me too, agli studi post-coloniali e all’ecologia, soggetto eminentemente non politico, ci rendiamo conto che l’eredità di quegli anni è ancora vivacissima ai giorni nostri.
Consegnate a Micromega le mie conversazioni con Sperber e Touraine, avevo in programma un viaggio di lavoro a New York. Negli stessi giorni anche Paolo Flores D’Arcais si trovava a New York per lavoro. A cena da vecchi amici incontrai Todd Gitlin, uno dei protagonisti dei movimenti studenteschi americani, autore di libri come The Sixties: Years of Hope, Days of Rage (1987) e The Whole World is Watching (1972). Decidemmo dunque con Paolo di raccogliere anche la sua testimonianza.
Todd ci ricevette in un ufficio modesto e disordinato, pieno di libri dappertutto, in un sotterraneo della scuola di giornalismo di Columbia University. Aveva parlato talmente tante volte dei movimenti americani degli Anni Sessanta, che aveva paura di non aver più niente da dire. E invece la conversazione fu piacevolissima, molto personale, e Todd decise di raccontare gli eventi dal punto di vista del suo vissuto di giovane studente americano per cercare di capire la portata esistenziale che quegli anni avevano avuto per lui.
Negli Stati Uniti, il Sessantotto cominciò ben prima dell’anno 1968, e Todd fu convolto dall’inizio, ancora prima della fondazione dell’organizzazione attivista SDS (Students for a Democratic Society), che fu la base del movimento della New Left, la sinistra radicale americana. Ciò che lo portò alla contestazione, già nel 1959, era il rischio del nucleare, la nuova spada di Damocle che pendeva sulle teste del mondo intero.
Studiava a Harvard, dove fu coinvolto in un gruppo locale di attivisti anti-nucleare, influenzato soprattutto dalla sua ragazza di allora, una “red diaper baby” come li si chiamava allora, ossia figlia di comunisti. L’attivismo in questo gruppo divenne rapidamente il centro della sua vita da studente a Harvard per i successivi tre anni. Ma non era ancora l’attivismo radicale della New Left: era un attivismo pacifista and anti-militarista ispirato soprattutto dalla sensazione apocalittica di stare rischiando l’estinzione dell’umanità.
Negli anni successivi, Todd, come molti giovani, viveva un paradosso esistenziale: da un lato era molto facile pensare al peggio, alla catastrofe totale, il che è ben comprensibile in un’epoca in cui le crisi politiche/nucleari tra i due blocchi erano di attualità. Dall’atro lato, improvvisamente c’era la sensazione di trovarsi in un mondo nuovo, un mondo dove c’erano molte persone con le quali sentire una forte affinità, e condividere tutto. Una sorta di nuova famiglia, intelligente, appassionata e idealista. Tutti erano pieni di passione, senza rinunciare anche a un certo realismo: non si sentivano solo in uno stato teologico di preparazione alle fiamme dell’inferno del nucleare, ma pensavano di poter far rinsavire il mondo. Non come movimento studentesco da solo, ma con l’aiuto di altre parti della società che avrebbero aiutato ad avere influenza sul potere e spingere per nuove riforme. Kennedy era diventato presidente, il movimento per i diritti civili era diventato una realtà che stava muovendo la società…insomma, si viveva il paradosso di alternare una visione catastrofica del futuro ad un certo ottimismo pragmatico.
Nella SDS c’erano comunque differenze, anzi forti dissensi su cosa fare praticamente. Quando Todd divenne il terzo presidente dell’organizzazione nel 1963, la maggior parte dei membri (a quei tempi giusto qualche centinaia), provenivano dai movimenti per i diritti civili. Ma già allora, qualche leader delle frange più radicali del movimento per i diritti civili, anticipando il fatto che il movimento avrebbe potuto vincere e che il vecchio ordine sudista e razzista era ormai al tramonto, come per esempio Stokely Carmichael, leader del SNCC- Student Nonviolent Coordinating Committee, cominciava a pensare che bisognasse guidare il movimento verso la lotta di classe e trasformarlo in un movimento interraziale, al di fuori delle università.
Nel frattempo, però, scoppia la guerra in Vietnam. La SDS decise di organizzare una grande manifestazione contro la guerra nell’aprile del 1965. E da quel momento, le energie per il movimento nei campus furono fomentate fondamentalmente dalla guerra. La guerra divenne l’ossessione collettiva non solo della SDS ma di tutta la New Left. Ciò ebbe molte conseguenze importanti. Per prima cosa, la New Left vedeva nel presidente Lindon Johnson, successore di John F. Kennedy, vero liberal, che fece avanzare le cause dei diritti civili e si impegnò in molte altre battaglie sociali, soltanto un presidente guerrafondaio che affondava sempre di più l’America nella guerra del Vietnam. Questo spostò il movimento naturalmente a sinistra: non volevano avere nulla a che fare con la sinistra dell’establishment politico che era responsabile della guerra. Poi, una parte considerevole del movimento si alienò dalla New Left in generale e questo fu l’inizio di quello che un paio d’anni dopo fu chiamato il Black Power.
C’era poi la causa dei neri che avanzava in un certo senso in modo parallelo. I due segmenti più radicali del movimento dei diritti civili però erano entrambi interraziali all’inizio, non solo neri: uno era il SNCC, l’altro era il CORE (The Congress of Racial Equality). Il capo del CORE era un uomo meraviglioso: James Farmer, un socialista che era stato attivo nelle organizzazioni che avevano preceduto SDS. Era interraziale lui stesso, con una moglie bianca. Le maggiori manifestazioni al nord in supporto dei sit-in organizzati al sud a quei tempi per i diritti dei neri furono organizzate da CORE. Ma l’umore razziale si stava indurendo già a partire dal 1964, in parte a causa della violenta negazione di molti diritti richiesti dal movimento al Sud. Anche SNCC cominciò a muoversi in una direzione più dura e i bianchi furono espulsi. Lo stesso disagio cominciò a sentirsi in CORE, e James Farmer fu sostituito da un leader molto più orientato a fare CORE un movimento nero.
Lo spirito di insurrezione generale accelerò nell’ottobre 1967, con la marcia verso il Pentagono e la settimana di proteste a Oakland Stop the Draft, che riuscirono ad occupare l’intero centro della città. Il senso di essere ormai in un ciclo ascendente di violenza continuava a crescere. Il 1968 fu anche l’anno di due assassinii: Martin Luther King e Robert Kennedy. Dopo la morte di King ci furono manifestazioni dappertutto, ma soprattutto vere e proprie sommosse nelle comunità nere. La SDS non giocò un grande ruolo, perché ormai i destini della lotta dei neri e del movimento erano separati. L’atmosfera era orribile e molti pensarono che l’ultima speranza per una riforma non violenta dell’America se ne fosse andata con King.
Nel 1968 la militanza del movimento entrò in conflitto con il governo assolutista e la polizia di Chicago durante la convention del Partito Democratico, un evento recentemente ricostruito al cinema dal bel film di Aron Sorkin,
The Trial of the Chicago 7.
Todd è un idealista, un uomo gentile e senza violenza. Aveva visto persone che conosceva perdere la testa, prendere posizioni assurde, dogmatiche, idiote…Conosceva abbastanza storia per sapere come vanno a finire le rivoluzioni di sinistra, e in quel momento viveva in California dove lavorava per un giornale underground, e aveva già perso in parte speranze nel movimento. Decise comunque di andare alla grande manifestazione organizzata contro la convention democratica. Racconta a me e a Paolo nel suo studio di New York: “Andai con un doppio ruolo, di manifestante e di giornalista: osservatore e attore insieme. C’era una rivista di sinistra radicale che si chiamava Ramparts a quei tempi e che pubblicava, a Chicago, ogni giorno durante la settimana della Convention democratica, dei rapporti e analisi su quello che succedeva nella strada. E io scrissi di ciò che stava accadendo a Chicago. Ero là, dentro e fuori allo stesso tempo. Vedevo com’era facile arrendersi al caos psicologico che regnava. Sapevo di amici picchiati e arrestati, ero acciecato dai gas lacrimogeni, etc. etc. E mentre succedeva questo inferno, eravamo fieri ed eccitati di aver rovinato la convention democratica”.
La gente uscì da quello scontro confusa. Todd non credeva alla rivoluzione, ma sapeva che il mondo stava guardando e che questo dava un peso cruciale a quell’evento. Non era il cambiamento del potere che contava, ma il cambiamento dei rapporti di potere che sarebbe stato trasformato per sempre.
L’altro ricordo di Todd è la rivoluzione sessuale. All’inizio i gruppi di discussione sulla sessualità erano misti: uomini e donne che si raccontavano le loro esperienze, che imparavano a confrontarsi. Poi le donne decisero di procedere da sole, etichettando gli uomini come “membri della classe dominante”. Todd lo visse male, visse anche quella rottura come la fine di una speranza universalista del movimento, bianchi e neri, uomini e donne, operai e studenti tutti insieme per un mondo migliore. Ma Todd è un idealista. Credeva a un risveglio collettivo. Una grande riconciliazione, con gli esseri umani, tra le nazioni, con la Natura. Quella visione chiaramente fallì. Era assurdo pensare che la rivoluzione cubana potesse essere applicata agli Stati Uniti, che le cause dei gay fossero comparabili a quelle dei bianchi poveri americani, che le cause delle donne fossero da confrontare con quelle dei neri. Eppure, da quel sentimento di risveglio collettivo dipese anche l’emergere di tutte quelle lotte.
Ho ascoltato questi tre protagonisti del Sessantotto con aria sognante, cercando di immaginarmi cosa possa significare a diciotto o vent’anni vivere un’esperienza collettiva così intensa. Non mi è mai capitato nulla di questo genere, anche se un’atmosfera di sfrenata fantasia e di apertura al nuovo la vissi a Parigi durante il grande sciopero del 1995. Solo l’atmosfera: i contenuti politici e culturali erano pochi, ma la città era come sotto un incanto nuovo, la solidarietà gli uni con gli altri era totale e si moltiplicavano le iniziative collettive. Ho il ricordo di una meravigliosa prima colazione all’alba, sul Pont des Arts, organizzata spontaneamente da un gruppo di ragazzi, che chiedevano a tutti i passanti di portare qualche croissant, di sedersi attorno un lunghissimo tavolo improvvisato e di parlare insieme. Partecipai piena di gioia, dicendomi che il famoso Sessantotto francese doveva aver avuto momenti di altrettanta bellezza.
Ho molti amici della generazione che aveva vent’anni nel Sessantotto. Alcune amiche mi chiedono: “Ma perché ti piace tanto frequentare i vecchi?” Non sanno in realtà che i miei amici oggi settantenni sono stati quelli che hanno inventato la gioventù. E’ perché mi piacciono i giovani che sono a loro così tanto affezionata.
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