Friday, June 10, 2011

Filosofia per i piccoli

Copyright Il Fatto, Saturno. Do not quote or reproduce without permission

La filosofia non ha certo la reputazione di un sapere per ragazzi. I pochi insegnamenti che contemplano una formazione filosofica sono destinati agli studenti degli ultimi anni del liceo o all’università. Ciò ha sempre avuto una giustificazione pedagogica: la mente del bambino non sarebbe adatta all’istruzione filosofica. Secondo Jean Piaget, i bambini sarebbero privi delle strutture cognitive adeguate per “pensare il pensiero”, ossia per riflettere sulla loro stessa attività concettuale. Inoltre, dato che scopo dell’istruzione è dare certezze al bambino e instillargli concetti chiari e distinti con cui leggere il mondo, la filosofia sembra una pericolosa insidia, un continuo rimettere in questione i fondamenti stessi della realtà e della conoscenza.

Eppure quale genitore non si è trovato davanti a domande imbarazzanti dei propri figli, come: “Ma se Dio è dappertutto, come fa a essere dove sono io?” oppure “Se una cosa è uguale a se stessa, come fa a essere uguale a un’altra?”

La psicologia più recente, pace Piaget, sostiene che i bambini siano capaci di utilizzare categorie concettuali astratte ancor prima di apprendere il linguaggio. I lavori sullo sviluppo cognitivo di Susan Carey, Elisabeth Spelke, Alison Gopnik (si veda il suo libro: Il bambino filosofo, 2010, Bollati Boringhieri) mostrano centinaia di esperimenti in cui i bambini ragionano con categorie astratte, come oggetto, identità, causa, effetto, etc. dai primi giorni di vita.

Non sarà dunque una vecchia concezione dell’infanzia, e un antico riflesso autoritario che premia le certezze contro il dubbio a escludere i bambini dal mondo della filosofia? A giudicare dal successo dei libri di Oscar Brenifer e Jacques Desprès, sembrerebbe di sì. Oscar Brenifer è un filosofo che propone ateliers di filosofia per i bambini. I suoi libri, illustrati da Jacques Desprès e pubblicati da ISBN, sono dei veri e propri esercizi di stupore filosofico: un oggetto è uno o è una moltitudine di particelle? Una persona sola può esprimere una verità oggettiva? Il libro dei grandi contrari filosofici è organizzato intorno ad opposizioni concettuali: uno/molteplice, finito/infinito, essere/apparenza. Il libro dell’amore e dell’amicizia mostra come possano esistere punti di vista diversi su questi due sentimenti fondamentali, e Il libro del bene e del male affronta le grandi questioni etiche.

Tra i libri per bambini che vanno per la maggiore in Francia, Les Philofables di Michel Piquemal (Albin Michel), parabole filosofiche che guidano il bambino nel mondo del dubbio, del paradosso e dello spirito critico.

Come scrive Roberto Casati nella sua bella Prima lezione di filosofia (Laterza, 2011), lo sforzo di negoziazione concettuale a cui la filosofia ci costringe, la capacità di venire a patti con le proprie certezze per comprendere gli altri, è un esercizio che non ha età.

Saturday, June 04, 2011

The Italian Way of "Give it Away"

La Gradisca

Now that the abnormal behaviour of the human male - especially if powerful and internationally renowned - has become a global political issue, it is important that nations share their insights on how this strange species, the male, reasons and acts. A first cue may come from examining his language. Take the Italian case. One cannot deeply understand the Italian male without a closer inspection of a basic expression that characterizes his talk: Give IT Away. Each time the Italian male faces a specimen of the other sex, the female, especially in work settings, his first legitimate question is: “The lady in front of me must have given it away to someone in order to deserve her job”. For example, I write articles for the cultural supplement of an Italian newspaper. As an online comment on one of my first contributions about the destiny of French philosophy, I have received the following question: Miss, could you please let me know whom did you give it away to in order to obtain the job at the newspaper?

Now, the reader may wonder what the mysterious it of the expression refers to. The Italian original version of the expression is Darla via, which is easier to interpret, given that the pronoun la attached to the verb dare (to give) has a feminine inflexion. The mysterious it thus refers to the sexual female organ, the vagina, given away, according to the Italians, usually in exchange of some favour. And here is the paradox of the expression: To give away evokes the release of a free act, a freeing from an obligatory economic exchange. “Give away economy” refers today to a disinterested way of distributing goods, especially software, in which the giver doesn’t expect anything in exchange. But the disinterested sexual economy evoked by the expression: Darla via doesn’t exist in the mentality of the Italian human male: women don’t give it away, rather, they give it in exchange of some favours: money, jobs, career upgrades, etc.

The contradiction may be explained by a fundamental ambiguity that the Italian male attributes to the Italian female: on the one hand, women are like pitiful Madonnas, who give away the best part of themselves just for compassion, as an act of pure love. The emblematic character that embodies this imaginary generous female is the Gradisca in the Fellini’s autobiographical movie Amarcord. Gradisca, the village beauty, just kindly offers herself and fuels the dreams of the young men of, usually forbidden and affordable at last, sexual pleasures. On the other hand, the man who indulges in the warm pleasure of the reassuring Madonna, wakes up abruptely from his dream to face a frightening whore, the Puttana, who actually was not generous and loving, but was asking for something in exchange.

So, the Give away economy of Italian sexual life is a betrayal, according to the male: women just bewitch men with their Mediterranean spell and then end up with the usual demands.

Darla via is a central expression of the Italian way of thinking. Travellers to Italy, as well as diplomats should be aware of it in order to understand the phenomenology of the Italian everyday life.

Monday, May 16, 2011

DKS: Non ci resta che ridere

Era stato oracolare Stéphane Guillon, nella sua cronaca irresistibile su radio France Inter, il 17 febbraio 2009, in cui prendeva in giro i costumi libertini del presidente del Fondo Monetario Internazionale, invitato della trasmissione 7 à 10 proprio quella mattina: “Misure eccezionali sono state prese in redazione per la visita di Dominique Strauss Kahn: la presentatrice indosserà un burka e un piano di evacuazione di tutto il personale femminile è previsto, se la situazione fosse fuori controllo. Armadi, spogliatoi e luoghi bui sono stati sigillati e le signore sono pregate di non passeggiare per i corridoi…”. Lo sketch, che potete vedere su You Tube: http://www.youtube.com/watch?v=QekWZCN1Xc4 non era piaciuto Strauss Kahn, ed era costato il posto al povero Guillon, accusato di aver oltrepassato i limiti e di aver mancato di rispetto al serio e rispettabile ex-ministro dell’economia francese.

Salta fuori ora che quel che Strauss Kahn faceva nel 2009 al Fondo Monetario internazionale erano noccioline rispetto a quello di cui è capace. Altro che relazioni extra-coniugali, si può fare di meglio, come saltar fuori nudo dalla vasca da bagno di un hotel di lusso di NY e mettere le mani addosso alla cameriera, o aggredire (come fece nel 2002) la giovane scrittrice francese Tristane Banon, all’epoca ventenne, figlia di una compagna deputata socialista. Strauss-Kahn accetta la proposta di intervista della Banon, le dà appuntamento in un appartamento vuoto, le salta addosso e l’intervista finisce a pugni e graffi sul pavimento, roba da far sembrare i nostri bunga bunga riunioni da oratorio…

Insomma, siamo ben al di là delle scappatelle, e entriamo nel regno della psicopatologia. Ovviamente la bella moglie Anne Sinclair difende il marito a spada tratta, e le donne del suo partito, da Ségolène Royal, a Martine Aubry, richiamano all’ordine, alla decenza (sic!) e si appellano alla “presunzione di innocenza”.

Che dire? Mettiamola così. Se “ogni donna siede sulla propria fortuna”, come ricordava il buon Ostellino in un articolo di qualche tempo fa sul Corriere della Sera, sembra che il maschio più fortunato è e meno riesca a stare seduto….

Sunday, May 15, 2011

Perché andare all'università?


Uno spettro si aggira per gli Stati Uniti: e se l’università non servisse più a niente? L’idea dell’anno che fa discutere l’America su giornali, blogs e televisione è la seguente: a che serve indebitarsi fino ai denti per passare quattro anni al college? Da quando l’aria dei tempi ha invaso anche l’ultimo baluardo della ragione - l’accademia - trasformandolo in un business a tutti gli effetti, con metriche di competitività, managers, joint-ventures e politiche di espansione, un dubbio si è infiltrato nella mente del consumatore americano di conoscenza: ma varrà la pena di spendere una media di trentamila dollari l’anno, di ritrovarsi indebitati alla fine degli studi, per stare quattro anni in un hotel di più o meno lusso a fare sport, uscire con le ragazze e bere birra con gli amici?

Da sinistra e da destra, dall’esterno e dall’interno del sistema, il nuovo business universitario americano è sotto il fuoco incrociato di intellettuali, giornalisti, drop-out di successo e milionari che incoraggiano i giovani a investire il loro tempo e i risparmi dei loro genitori in un modo più utile.

Così James Altucher, imprenditore, venture capitalist, e editorialista del Financial Times, snocciola dalle colonne del suo blog (http://www.jamesaltucher.com ) le 8 alternative al college, tra le quali: gettarsi subito nell’arena e cominciare un’attività imprenditoriale. Unica regola da sapere: comprare a poco e vendere a molto. Secondo Altucher, anche se tutto va male, dopo quattro anni si saprà molto di più di dividendi, strategie commerciali, prestiti bancari etc., di quanto qualsiasi college avrebbe potuto insegnarci. E si rischia pure di aver fatto qualche soldo…Oppure: viaggiare, lavorare per un’organizzazione di beneficienza, scrivere un libro, imparare a fondo le regole di un gioco intelligente (per esempio gli scacchi), dipingere, imparare bene uno sport, recitare.

Gli fa eco Peter Thiel, miliardario high-tech, fondatore di PayPal e uno dei primi investitori entusiasti di Facebook. Libertario convinto, Thiel sostiene che l’istruzione imposta dall’alto non sia che inutile paternalismo, e ha istituito una borsa di non-studio (20 under 20: http://www.thielfoundation.org ) che dà un finanziamento di centomila dollari a venti ragazzi di meno di vent’anni che decidono di lasciar perdere l’università e cercare invece di mettere in pratica la loro idea più visionaria sotto la guida dei migliori imprenditori di Silicon Valley.

Se le posizioni estreme di Altucher e Thiel provocano reazioni indignate, la questione del valore degli studi superiori resta aperta: dopo la crisi finanziaria, la crisi immobiliare, l’America si prepara ad affrontare l’esplosione di una nuova bolla speculativa: l’università. In effetti, dati inquietanti emergono da vari studi, come il libro di Andrew Hacker e Claudia Dreifus, Higher Education? How Colleges Are Wasting Our Money and Failing Our Kids (2010, Times Book), o il rapporto dell’economista Richard K. Vedder, fondatore di un Think Tank sulla sostenibilità dell’istruzione universitaria, ripreso in un articolo del New York Times dal titolo eloquente: Plan B: Skip College? I costi delle rette universitarie sono decuplicati negli ultimi trent’anni, un aumento abnorme, confrontato all’aumento dei costi sanitari (cresciuti di sole sei volte nello stesso arco di tempo) o dell’inflazione (triplicata). In più, si tratta di un business sicuro, dato che gli investimenti nell’istruzione sono gli unici che non calano anche durante la più dura crisi economica. I rettori strapagati delle grandi università americane lo sanno bene, e approfittano delle ansie ataviche della classe media che vede nei figli laureati al college il simbolo della propria riuscita sociale e la sicurezza di un futuro migliore. Cinicamente, i grandi amministratori alzano la posta di entrata nei college esclusivi, ben coscienti che la domanda si manterrà grazie all’effetto di networking di questi club di lusso, per cui i laureati delle università della Ivy League assumono solo laureati che provengono dalle stesse università. Anche le banche sguazzano nel nuovo business: i prestiti per lo studio costituiscono un prezioso prodotto e fidelizzano una clientela di giovani che si troveranno ad avere a che fare con i rimborsi per i successivi vent’anni.

Eppure i dati mostrano che la correlazione tra carriera di successo e buoni studi universitari è scarsa. Inoltre, nell’era di Internet, avere un Master non è nemmeno più una credenziale, dato che i modelli sociali dei giovani sono gli imprenditori senza laurea di Silicon Valley, da Steve Jobs a Zuckerberg. Il mito del giovane genio che inventa il futuro nel garage fa più sognare dell’impettito diplomato di Harvard con stemma sulla giacca.

Insomma, il college non è un buon investimento. Gli stessi soldi investiti in una casa garantirebbero un futuro più roseo ai poveri freshmen indebitati.

Mentre l’Europa si agita in tutti i sensi per rispondere alla sfida della competitività universitaria e si affanna a iniettare un modello aziendalista nelle nostre vecchie istituzioni, l’America comincia a scoprire che il prodotto universitario non serve a niente. Perché? Sembra ovvio, ma evidentemente non lo è per governanti e presidenti di facoltà: semplicemente, come spiega bene il bel saggio di Martha Nussbaum Not For Profit (Princeton University Press) perché le università non servono alla produzione, bensì alla riproduzione di un insieme di valori e di un corpus culturale senza il quale una società perde la sua identità. Forse è più lucido lo studente di filosofia, che non si è mai chiesto che tipo di investimento stava facendo quando si è iscritto all’università, dell’apprendista finanziere che si trova buggerato semplicemente perché ha comprato qualcosa che non si vende e non si compra. Insomma, più Kant e meno account dovrebbe essere lo slogan per salvare i campus dal nonsenso in cui si sono cacciati.

Thursday, May 05, 2011

The Forum Programme

Faking it in business
Sat, 30 April 11
Duration: 41 mins Available.
Poscast: 25 days remaining


The subterfuge of the business world. Behavioural economist Dan Ariely on the posturing of bankers when it comes to big bonuses, sociologist Shehzad Nadeem on the Indian call centre workers who pretend to be Westerners, and Italian philosopher Gloria Origgi on why in business we sometimes conspire to deliver second best.
Download 19MB (right click & "save target as")

Tuesday, April 19, 2011

L'oscuro disastro della filosofia francese


Cet article sur le dernier pamphlet d'Alain Badiou, L'antisémitisme partout, a été publié sur Saturno et il est en ligne sur mon nouveau blog: http://www.ilfattoquotidiano.it/blog/goriggi/

Tuesday, March 29, 2011

The Counter-Protocols


Draft. Do not quote without permission. Submitted to IRIS.

Review of Umberto Eco: Il cimitero di Praga, Bompiani, 2010.


In an old Woody Allen’s movie, The Sleeper, some scientists in the future try to reconstruct the culture of the past world through the testimony of its only survivor. They show him a series of documents, among which various videos, a centrefold of Playboy, pictures of various political men, chattering teeth and, in the end, a video of Howard Cosell, a famous American sports anchor in the Seventies: “First - the scientist says - we didn’t know exactly what it was, but then we developed a theory: when citizens in your society were guilty of a crime towards the State, they were forced to watch this”…The joke perfectly matches the last Umberto Eco’s literary effort, Il cimitero di Praga: a 523 pages-length torture that could indeed be used as a major punishment to inflict to Italian ex-pupils who still have nightmares about endless school hours dedicated to the Risorgimento, Garibaldi, the expedition of the “Thousands” and Ippolito Nievo. And if this doesn’t seem boring enough for the non-Italian reader, let’s mix it with a conspiracy theory: an intricate plot of the Christian Church and the Monarchic movements in Italy and in France to get rid of Freemasonry and the Jewish that ends up with the forgery of the Protocols of the Elders of Zion: A tour de force you wouldn’t inflict to your worst enemy.

The first thing that came up to my mind while reading the book was that once you become a bestseller writer in Italy, then you probably start intimidating your editors, who don’t dare to edit the sacred words of a heavyweight author of the publishing house anymore or, worse, don’t see the point in making the effort, given that they know the book will be sold in any case. And it is true: the book has already sold more than 300 000 copies, will be translated in 40 different languages and the first edition is at its third printing. But, definitely, it is not a good book.

I am not a literary critic, so I will try to avoid appreciations of style and structure, even if I must confess I found it too long, confusing and difficult to read. Rather, I will concentrate my criticism on the content. The plot is so intricate that the author adds a “story-line” at the end of the volume that summarizes the major events in chronological order. We deal with an ignominious central character, captain Simone Simonini, a Franco-Italian adventurer and a forger, whose virulent anti-Semitism goes back to his grand-father. All characters but Simonini are real historical characters, sometimes under their own real name, sometimes under fictional names because they condense more than just one historical figure. Simonini’s grandfather was thus an historical character, one who played a major role in the diffusion of the anti-Semitic poison in the XIX century as the purported author of a letter to the French Jesuit priest Augustin Barruel. Barruel, a counter-revolutionary priest who fled to England during the Revolution, published in 1797 his Memoirs Illustrating the History of Jacobinism, a conspiracy theory on the role of a coalition of philosophers, Freemasons and the secret society of the Bavarian Illuminati to overthrow the throne and the altar not only in France but everywhere in Europe. According to Barruel, the plot had been inherited by the Jacobins during the Revolution. After the publication, he received a letter by an Italian military, who claimed he got evidence that the founders of all the secret societies in Europe were Jewish.

Simone Simonini thus grew up as a convinced anti-Semite and decided to devote his life to participating in various plots and conspiracies aimed at destroying the Jewish. A lonely and sinister figure, whose only pleasure is to stuff himself of heavy French cuisine in good restaurants, Simonini has a double, the ecclesiast Dalla Piccola, whose role in the story is pretty confused (Eco says that all the characters but Simonini are real: is Dalla Piccola a real character? I tried to find some traces of his existence on the Web but end up with nothing). Under the Dalla Piccola personality, Simonini infiltrates other anti-Masonic and conservative circles, especially those religious ones who were manufacturing a document showing the horrendous anti-Christian rituals of various Masonic societies.

Although it is clear from the onset that Simonini and Dalla Piccola are one and the same person, the mystery is kept until the end of the novel, which is partly written in the form of Simonini’s journal interrupted at some points by some annotations by Dalla Piccola. An amnesia caused by a sex intercourse with a young woman, Diana, member of a Satanic sect, makes Simonini forget that Dalla Piccola is himself. Following the suggestion of a young Jewish doctor met at the restaurant - an unknown Sigmund Freud visiting Charcot in Paris - Simonini decides to heal his amnesia by writing a journal. The therapy is successful and, while retrieving the memory of the Satanic Sabbat, he ends up realizing that Dalla Piccola and Simonini are just one. The reader should be surprised, but is not.

Simonini’s journal doesn’t spare anything to the patient reader about his life and adventures: trained as a forger by the notary Rebaudengo in Turin, Simonini becomes a spy and is sent by the Savoy Intelligence to Sicily in the wake of thousand of Giuseppe Garibaldi. There he meets the writer Ippolito Nievo, treasurer and lieutenant of the army of volunteers. In order to get rid of some documentation Nievo possesses that could prove of funds bestowed by the Savoy under the table, Simonini causes the sinking of the ship on which it travels Nievo and the death of the same.

Back in Paris, Simonini begins to manufacture a fake document inspired by the feuilletons of Dumas and Sue, first to discredit the Jesuits, then turned to the Jews, which is staged in an alleged secret meeting the night of the rabbis of the various leaders of Jewish communities' Europe in the old Jewish cemetery in Prague, where they expose their plans for world domination and the destruction of Christianity. Another source of inspiration is the French pamphlet written by the satirist Maurice Joly, a Dialogue in Hell between Macchiavelli and Montesquieu, depicted as two diabolical plotters aiming at overthrow the power of the French Monarchy. The document circulates in different hands and under different forms, growing and transforming itself in the final Protocols of the Elders of Zion. Simonini, though, won’t be the author of it, because he sells the material to the Russian Secret Police and delivers it to an agent named Matvei Golovinskij.

While writing his masterpiece forgery, Simonini goes on with side activities as a spy and a counter-revolutionary. He provides the fake documents to condemn captain Dreyfus, then takes part into various terroristic acts to end up with the making of a bomb that will probably conclude his evil career: The journal stops on the date of his last terrorist mission…

Eco’s prowess is the manufacturing of a “fake” with a collage of real existing characters and documents. To make things more confused, Eco fabrics a sort of “counter-fake”, that is, the mirror-side of one of the best-known frauds of our history: the fabrication of the Protocols of the Elders of Zion. His anti-hero Simonini is at the center of an orthogonal (and fictional as well) plot, aimed at destroying Jewish, revolutionaries and Freemasons. But, of course, as the Protocols are fake, Eco’s fabricated plot is fictional: even if it is based on real characters and documents that reveal the presence in our history of these feelings and fantasies, the international conspiracy against the Jewish, the Jesuits and the Freemasons orchestrated by the Catholic Church is as imaginary as the Protocols are. Suffocated in a Google-erudite archipelago of real facts, books and characters, the simple truth that unfortunately there are no complot-based serious explanations of the major tragic events of our history, seems to sink down. Conspiracy theories have never made good novels, although we all know that they work very well for airport best-sellers. And they are historically untenable, an interesting subject today for sociologists, psychologists and experts of folklore.

So, what all this effort for? I hate ad-hominem arguments, but if I tried to find the most charitable explanation of why a well-thought and sophisticated intellectual such as Umberto Eco has written Il cimitero di Praga, and imposed on his readers the horrendous Captain Simonini, I would be tempted to say that the feeling of being a forger must have floated in the author’s mind, as it is probably the case for all talented and successful people: hence the fascination of writing a story from the “wrong-side”. Eco is an academic who has used his erudition and intelligence to write novels: he must have felt sometimes to be novelist among academics and an academic among novelists. This feeling of misplacement could have motivated this strange literary experiment, perhaps an exercise in perplexity which leaves the readers perplex as well.

Monday, March 28, 2011

Tutti pazzi per MadMen


Published on Saturno on March 25th. All rights reserved

Spesso, dove fallisce la scienza, arriva l’arte. Quale sociologo ci avrebbe reso il dettaglio della Parigi d’inizio secolo meglio di Proust nella Recherche? Ecco allora che un capolavoro di sociologia della famiglia s’incarna oggi in uno dei generi narrativi più riusciti dell’ultimo decennio: la serie TV. A metà strada tra cinema, soap-opera e racconto, la serie TV è oggi il prodotto culturalmente più raffinato che l’America abbia messo sul mercato. La formula è ormai ben rodata: un canovaccio scritto da un drammaturgo brillante, un casting ricercato e la regia dei diversi episodi affidata di volta in volta a registi di fama.
Così MadMen, la serie cominciata nel 2007 e scritta da Matthew Weiner, autore di The Sopranos, è alla sua quarta stagione, già uscita negli Stati Uniti e attesissima in Europa (data prevista per i fans: 29 marzo).
Ambientata negli Anni Sessanta, MadMen, espressione coniata all’epoca per indicare i pubblicitari che lavoravano in Madison Avenue a New York, racconta delle passioni, gli amori, le famiglie, le crisi d’identità di un gruppo di giovani pubblicitari, delle loro mogli, amanti e successive concorrenti, di come l’America ingenua e spietata del Dopoguerra prenda pian piano coscienza di sé.


La prima stagione ci immerge nel 1960, in piena campagna kennediana, nell’atmosfera elegante dell’agenzia pubblicitaria Sterling & Cooper. L’estetica è alla Hitchcock: i colori a contrasto, i costumi, il mobilio e qualcosa di finto, plastificato nei volti dei personaggi come se tutti nascondessero qualcosa. Come le Barbie e i Ken della nostra infanzia, i personaggi di MadMen si muovono in un mondo falsamente perfetto, mariti al lavoro con whisky e sigaretta in mano, segretarie sexy e mogli indistinguibili a casa nei sobborghi ricchi della metropoli a occuparsi di bambini altrettanto perfetti e di case altrettanto indistinguibili. Ma, dal primo episodio, e dalla sigla graficamente bellissima, in cui si vede il disegno stilizzato di un uomo in camicia bianca e completo scuro precipitare dall’ultimo piano di un grattacielo tappezzato di cartelloni pubblicitari, si accumulano le incrinature nella patina di ognuno dei protagonisti e dei formidabili deuteragonisti che fanno la forza della serie.

Tutto gira intorno alla figura di Don Draper, direttore artistico dell’agenzia e suo genio creativo. La sua carriera va di successo in successo, nell’ammirazione generale dei giovani ambiziosi che lo circondano. Le donne si accumulano, da Midge, l’artista stravagante del Village che diventerà eroinomane nella quarta serie, a Rachel, ricca figlia di un cliente ebreo, che gli fa scoprire l’esistenza dell’antisemitismo e della questione ebraica. Don è sposato con Betty, una delle mogli Barbie bionde platino del film, da cui ha due figli. Ma Don nasconde un segreto da Grande Gatsby: dai tempi della guerra di Corea, vive sotto una falsa identità per scappare dall’inferno della guerra e della sua poverissima famiglia d’origine. Anche la patina di Betty s’incrina presto: un dolore improvviso alle mani le fa perdere il controllo dell’auto e la convince a cominciare una terapia psicanalitica, sotto la stretta sorveglianza del marito, spazientito da tali velleità. Intanto in ufficio, tra le segretarie starnazzanti che sognano solo di sposare uno dei boss, si staglia Peggy, bruttina e severa, ma determinatissima a fare carriera. Durante una delle scene chiave della serie, un “brain-storming” in cui vengono convocate tutte le segretarie per provare una nuova collezione di rossetti sotto lo sguardo eccitato dei maschi creativi che ridono nascosti dietro a un vetro invisibile, Peggy osserva le altre, non sta al gioco e alla fine improvvisa uno slogan che piace ai capi. Uno di essi commenta sorpreso: “Era come vedere un cane giocare a scacchi…”.

E’ difficile spiegare dove stia esattamente la genialità di MadMen: a parte l’estetica perfetta, i dialoghi sono spesso banali, e gli intrighi tipici del serial: amori, aborti, tradimenti, passato che ritorna…Eppure la serie ci inchioda, come ci inchioda chi ci rende consapevoli di verità che erano lì, sotto gli occhi di tutti, e che nessuno aveva detto esplicitamente. Ciò che incanta della serie è lo sguardo attonito e insieme nostalgico della generazione nata negli Anni Sessanta sui suoi genitori, quel mito della famiglia borghese che i movimenti femministi e il Sessantotto hanno incrinato di fatto ma non scalfito di norma, come se ogni vita diversa da quella della pubblicità della famiglia felice fosse una derogazione, una scivolata dalla retta via. E’ il rendersi conto di quanto il mondo sia cambiato in una generazione, di come i rapporti uomo/donna, la coscienza della propria salute (le sigarette, l’alcool, il sesso libero e promiscuo senza paura dell’aids), la coscienza ecologica (concluso un picnic, i coniugi Draper non esitano e gettare gli avanzi sul prato e andarsene allegramente) siano valori che abbiamo acquisito quasi senza accorgerci. Ed è forse l’ambiguità di quello sguardo del bambino cresciuto che capisce infine le incrinature nelle vite dei genitori, che è insieme critico e nostalgico, a rendere la serie un capolavoro. Ridiamo delle sigarette a catena e insieme sogniamo di accenderne una mentre guardiamo il film, come se crescere davvero, vedere il mondo con occhi nuovi, voglia dire anche perdere per sempre il conforto regressivo dei bigodini e delle sigarette della "mamma platonica" della nostra infanzia.

Monday, March 14, 2011

Review (In Italian) of Premarital Sex in America



Published on Saturno on March 12th 2011. All rights reserved. Do not quote without permission

Premarital Sex in America. How Young Americans meet, mate and think about marriage
Mark Regnerus e Jeremy Uecker, Oxford University Press, 2011

di Gloria Origgi

Chissà perché il sesso in mano agli accademici assume istantaneamente un aspetto di fredda necessità animale, come se la scienza messa al servizio di una delle nostre attività esistenziali più complesse avesse pudore di parlare di quel che si fa a letto, o in automobile, o sdraiati su un prato d’estate sotto le stelle, come di una forma di vita profondamente umana, un’espressione culturale fondamentale che ha influenzato letteratura, pittura, musica e immaginario di tutti i tempi. No, non c’è Cantico dei Cantici che tenga, né Venere di Tiziano che commuova. Per parlare di sesso seriamente è necessario adottare il secco linguaggio della copula che sembrerebbe riduttivo pure se applicato a una coppia di conigli. Dal celeberrimo rapporto Kinsey, per chi se lo ricorda, del 1948 sul Sexual Behaviour in the Human Male e il successivo del 1953 sul Sexual Behaviour in the Human Female, la pruderie dell’accademico americano richiede una retorica zoo-etologica sugli intercorsi sessuali della nostra specie, come se quel velo di scientismo mondasse l’anima e l’assolvesse da qualsiasi responsabilità per il comportamento osceno del corpo che faticosamente è costretta a portarsi appresso.

Non sfugge alla critica il recente volume dei due sociologi americani Mark Regnerus e Jeremy Uecker: Premarital Sex in America. How Young Americans Meet, Mate and think about Marriage (Oxford University Press 2011), un’informatissima inchiesta sociologica sulle pratiche eterosessuali dei giovani americani di oggi. Il riferimento al mate nel titolo, l’accoppiarsi, il copulare, ricorda lo stile linguistico dell’umano maschio e l’umano femmina del rapporto Kinsey. Ma il modello soggiacente al saggio dei due studiosi americani non è qui la zoologia, bensì l’economia. Ebbene sì: la teoria della scelta razionale, onnipresente nei modelli economici americani, per cui un agente qualsiasi, che sia un ragno, un governo, o una multinazionale, è considerato razionale se massimizza i suoi utili, ossia se cerca di ottenere al costo più basso il beneficio più alto, è approdata anche tra le lenzuola.

La sexual economics è la teoria che modellizza le relazioni eterosessuali a fine sessuale come un mercato in cui le donne vendono e gli uomini comprano. L’articolo di riferimento sull’argomento fu pubblicato nel 2004 da due economisti in una rivista accademica di psicologia con il titolo: Sexual Economics. Sex as a Female Ressource for Social Exchange in Heterosexual Interactions ed è ripresa pari pari dai nostri sociologi.

L’idea regolatrice del libro, il filo teorico che sottende la dettagliata ricerca empirica quantitativa e qualitativa, è che la scarsità di uomini presenti nei campus americani fa sì che sia per loro più facile avere accesso a prestazioni sessuali, e dunque abbassi il “prezzo” che l’uomo deve pagare per ottenerle. Il prezzo da pagare per l’uomo secondo la sexual economics è costituito dall’investimento nel “corteggiamento”: numero di telefonate per ottenere un appuntamento, numero di aperitivi da offrire prima di poter finalmente strappare un invito a cena, costo del ristorante, e dell’eventuale mazzo di fiori, costo psicologico del mostrarsi carino e interessato a una relazione a lungo termine, e così via…I principi economici suggeriscono che gli intercorsi tra i ventenni americani siano regolati dalla dura legge della domanda e dell’offerta, dalla competizione tra i venditori (le venditrici in questo caso), e le variazioni sul prodotto. Così le ragazze americane, ci dicono i due autori, sono estremamente seccate dallo sbarcare nel loro campus di giovani promiscue, perché il fatto che ci siano prodotti “a basso costo” disponibili sulla piazza, abbassa ancora più il prezzo delle loro azioni. Insomma, se arriva una bella signorina disposta a una notte d’amore in cambio di un semplice caffè, o ancor peggio, di una buona conversazione di filosofia, sbanca il mercato di quelle altre che non si sarebbero azzardate a togliersi nemmeno un guanto senza tre o quattro inviti al bar, una cena nel ristorante chic della cittadina e un paio di scatole di cioccolatini.

Se il filo conduttore teorico del libro fa sorridere, l’indagine però è seria ed informata, e ci fa scoprire che meno del 6 per cento delle giovani americane di oggi non ha avuto rapporti sessuali prima di sposarsi, che più aumenta il livello di istruzione e di guadagno delle donne, meno sentono la pressione di un rapporto stabile e di un eventuale matrimonio.
Il libro alterna i risultati di inchieste a larga scala con la descrizione dettagliata di profili personali. Incontriamo così nel secondo capitolo Cami, vent’anni che proviene da una famiglia di cattolici devoti, ma che sul campus è diventata un po’ meno devota. Come il 27% delle americane della sua età non è in una relazione stabile. Ha deciso di rimanere comunque vergine a suo modo, confessando di “aver fatto tutto tranne la penetrazione e il sesso orale”. In realtà una delle motivazioni di Cami per non avere una relazione stabile è proprio quella di cercare di rimanere vergine fino al matrimonio, come ha promesso alla sua mamma, perché sa bene che, una volta fidanzata, sarà difficile far tenere le mani a posto allo spasimante. Infatti, dati alla mano, se per le donne un’attesa di 4 mesi dal primo incontro alla prima copula sembra ragionevole, per i maschi, influenzati sembrerebbe dai video pornografici su Internet, il passatempo preferito tra un date e l’altro, tutto quel che va al di là di un’attesa di quattro minuti è tempo perso se si va in buca, o investimento costoso se si ottiene infine qualcosa.

A quando un libro che saprà parlare di sesso umano in linguaggio umano, magari non trascurando quei dettagli, come l’amore, l’incontro, l’imprevisto e quel certo non so che nel suo sguardo quella sera per cui senza nessun calcolo lui fece le valigie e scappò di casa per sempre?

Tuesday, January 25, 2011

Pourquoi est-il si grave de mentir ? Du mensonge en philosophie.



Londres, 7 décembre 2010 : Julian Assange, journaliste australien, fondateur du très controversé site d’information Wikileaks, se rend à la police britannique. Libéré sous caution dix jours après et assigné à résidence, il est nommé homme de l’année du quotidien La Monde, le 25 décembre. Une campagne internationale d’indignation se lève un peu partout - sur Internet comme sur les journaux - pendant les jours de son arrestation, comme si, au delà des détails des accusations, il y avait quelque chose d’indécent, d’inacceptable, à arrêter quelqu’un dont le crime principal était celui de produire un excès de vérité et de combattre le « mensonge d’état ».
New York, 5 février 2003 : Colin Powell, secrétaire d’Etat américain, prononce un discours très controversé sur la présence des armes de destruction massive en Iraq. Le discours est basé sur les données fournies par les services de l’Intelligence britannique, un rapport que l’administration de Powell reçoit le 3 février et qui est censé contenir des preuves irréfutables de la présence de ces armes en Iraq. Le rapport s’intitule : Iraq – Its infrastructure of concealement, deception, and intimidation. Quelque jour après, la chaine 4 de la télévision anglaise annonce que ce rapport est bien problématique : il contient des plagiats. Le professeur de Cambridge, Glen Rangwala, déclare à la télé que le rapport à été massivement copié d’un article d’un jeune chercheur, Ibrahim al Marashi, publié en septembre 2002 sur la revue The Middle East Review of International Affairs. La nouvelle est rapidement confirmée par le gouvernement anglais, qui s’excuse pour le plagiat. D’ailleurs, le plagiat ne contient pas d’informations fausses, un cas de fortune épistémique : des informations copiées sans souci se révélèrent pourtant assez précises sur la situation en Iraq. Mais la réaction de l’opinion publique est violente : on ne décide pas d’une guerre sur la base d’un plagiat : c’est du mensonge !
Ces deux exemples tirés de notre histoire récente visent à montrer que la vérité n’est pas qu’un concept abstrait : elle est une valeur fondamentale dans notre vie sociale : nous nous attendons que les autres nous disent le vrai, sommes indignés face à la violation de cette valeur commune, et avons du mal à accepter moralement des pratiques sociales visant à encourager des manquements à la vérité. Le mensonge, comme la violence, est une forme de coercition : elle est une façon d’exercer un pouvoir arbitraire sur l’autre en le faisant agir contre ses intentions et sa volonté.
Pourtant, les deux exemples sont bien différents entre eux : dans le premier cas, la réaction indignée de défenseurs de Julian Assange n’est pas exactement contre des normes qui encouragent le mensonge, mais contre des normes qui restreignent l’accès à la vérité (le secret d’état). Dans le deuxième cas, ce qui a été reproché aux gouvernements américain et britannique c’est la violation d’une valeur d’exactitude qui va ensemble à une norme de sincérité : pour parler vrai, il faut respecter au moins deux normes : être sincères et en même temps être exactes, précis. Colin Powell pouvait bien se défendre contre les attaques d’incompétence après son discours à l’ONU en affirmant d’avoir été sincère : mais la sincérité ne suffit pas si elle n’est pas accompagnée d’un souci de précision, d’une méthode légitime et correcte d’acquisition de l’information, et le plagiat n’est pas une méthode légitime. Etre sincères et inexactes viole les normes et les attentes de vérité qui assurent le bon fonctionnement de notre vie sociale.
L’équilibre de vérité et de mensonge qui définit une société moralement acceptable est aujourd’hui un débat ouvert. La tension entre ce qu’il faut dire et ne pas dire est une question particulièrement sensible dans les sociétés démocratiques : si la décision est dans le mains de tout le monde, nous devrions partager les mêmes ressources épistémiques (informations disponibles) d’une façon égalitaire afin de maximiser les probabilités d’une décision collective avisée. Pourtant, jamais comme pendant les dernières années, les mensonges d’état, le manque d’exactitude dans la vérification d’informations, l’incertitude sur les sources d’information ont dominé la vie publique et les choix importants qui l’ont accompagnée, comme l’attaque par les Etats Unis et ses alliés en 2003, de l’Iraq, un état souverain, sur la base d’informations douteuses sur la présence d’armes de destruction massive. Ce qui a amené le philosophe américain Harry Frankfurt à consacrer un volume à la question : De l’art de dire des conneries, dans lequel il établit un catalogue d’actes linguistiques trompeurs, en soulignant en particulier la distinction entre dire des conneries et dire des mensonges. Alors qu'un menteur dit délibérément le faux, le diseur de conneries est simplement désintéressé par la vérité. C’est pour ça qu’un menteur a besoin de connaître la vérité pour mieux la cacher à l'interlocuteur, alors que le diseur de conneries (par example M. Powell devant l’ONU), n'étant intéressé que par ses propres objectifs, n'en a pas nécessairement besoin. Mais si Frankfurt en conclut que : « Les conneries sont un ennemi plus grand de la vérité que ne le sont les mensonges » , la philosophie a toujours vu dans le mensonge l’acte trompeur le plus grave.
La question philosophique de la légitimité du mensonge est ancienne : est-on jamais justifiés à mentir ? Est-ce qu’il y a des circonstances où un mensonge est moralement supérieur à une vérité, en permettant, par exemple, d’éviter un mal plus grave ? Et qu’est-ce que précisément mentir ? Est-ce qu’une plaisanterie, une connerie ou un baratin sont des mensonges ? Est-ce que cacher la vérité en ne disant rien, omettre des informations, signifie mentir ? Est-ce qu’un désintérêt pour la vérité est une faute morale, ou la faute morale est seulement à attribuer à ceux qui connaissent la vérité et pourtant mentent?
Le mensonge étant inséparable de la question de la vérité, la question du mensonge est « une des premières obsessions de la philosophie » . Le paradoxe d’Epiménide témoigne l’ancienneté de cette obsession : Un homme dit : « Je mens ». S’il ment, il dit la vérité. S’il dit la vérité, il ment. Le mensonge est un piège linguistique donc : mentir ce n’est pas tout simplement dire le faux, car se tromper est différent de tromper : mentir c’est dire le faux en en ayant l’intention et en connaissant le vrai. Le menteur doit donc avoir les mêmes compétences linguistiques et sémantiques de celui qui dit la vérité. Comme Platon fait dire à Socrate : « Ainsi, c’est le même homme qui est capable de mentir et de dire vrai » .
C’est sur ce point qu’Augustin insiste dans son traité contre les mensonges : mentir ce n’est ni plaisanter, ni se tromper : « Mentir c’est avoir une pensée dans l’esprit (in animo) et, par paroles ou tout autre moyen d’expression, en énoncer une autre » . Il faut connaître donc la vérité pour pouvoir véritablement mentir : « Aussi dit-on que le menteur a un cœur double, c’est à dire une double pensée. Il a une pensée qu’il juge vraie, mais qu’il garde pour lui ; et il en a une seconde qu’il juge fausse, mais qu’il exprime à la place de la première […] C’est par l’intention de l’esprit et non pas par la vérité ou la fausseté des choses en elles mêmes qu’il faut juger si quelqu’un ment ou ne ment pas » .
Voici que, depuis l’aube de la philosophie, la double question de la nature linguistique e morale du mensonge est posée. La condamnation de Platon et Aristote de la sophistique est au nom de la vérité : la sophistique ne peut pas être de la philosophie car les sophistes encouragent à séparer le discours, la parole, de sa valeur de vérité. Protagoras dit qu’il n’y a pas de sens à distinguer des discours faux et des discours vrais. C’est dans cet usage du langage détaché de toute valeur de vérité que Platon voit la menace suprême du sophiste. Comme l’explique Barbara Cassan :
L’accusation majeure portée par Platon comme par Aristote se laisse consigner dans le terme pseûdos. Pseûdos objectif, le « faux » : le sophiste dit ce qui n’est pas, le non être, et ce qui n’est pas véritablement étant, les phénomènes, les apparences. Pseûdos subjectif, le « mensonge » : il dit le faux dans l’intention de tromper, en utilisant pour se tailler un succès monnayable toutes les ressources du logos.

Dès les débuts de la philosophie, un lien essentiel, ontologique, nécessaire existe entre le langage, la vérité et les intentions des locuteurs : le monde se tient ensemble comme nous le voyons car les mots ont une référence, sont ancrés dans le monde extérieur, et le locuteur, en utilisant ces mots, les utilise avec l’intention de respecter cet ancrage : l’usage subversif du langage de la part des sophistes contient donc un danger métaphysique : de perdre l’ancrage fondamental de la référence au monde. Le mensonge est l’outil diabolique de ceux qui possèdent l’art de parler : en énonçant ce qu’il sait être faux, le menteur met le monde à l’envers, et soustrait au langage sa puissance métaphysique fondamentale d’assurer le lien sémantique entre paroles et objets. Le langage étant le miroir du monde et sa représentation fidèle, tout usage impropre, vicieux, comporte le risque de casser le miroir : d’ici la responsabilité morale de tout locuteur : si on veut préserver ce lien précieux, constitutif de la réalité extérieure, on a la responsabilité de faire bon usage de la parole.
Pourtant, les raisons métaphysiques et morales de la proscription des mensonges avancées par les plus purs des réalistes dans l’histoire de la pensée, se heurtent au bon sens : est-il toujours moralement acceptable de dire la vérité ? Si nous pouvons sauver un être humain d’un destin atroce en mentant, devons-nous nous tenir à la sincérité ? Et est-ce que tout le monde mérite, au même titre, de n’entendre que le vrai ? Le bourreau qui inflige des tortures pour extorquer des vérités dangereuses dans ses mains, a le droit à la même sincérité que nous nous réservons l’un l’autre dans la vie quotidienne ? Le médecin doit tout dire à un patient atteint d’une maladie létale, ou a-t-il le droit de « diluer » sa vérité ? En général, n’est-il pas permis de mentir pour éviter un plus grand mal ?
Les philosophes ont débattu longtemps sur ces questions. Il existe une riche casuistique religieuse autour de la légitimité du mensonge. Certains exégètes de la Bible rappelaient que, dans l’Ancien Testament, « les sages femmes d’Egypte pour sauver de la mort les nouveaux-nés des Hébreux, mentirent avec l’approbation et la récompense de Dieu (Exode, I, 9) » . D’autres affirmaient qu’il ne faut jamais mentir, à aucune occasion. Dans son traité, Saint Augustin discute les deux positions et conclut avec véhémence qu’on est tous et dans toutes les circonstances dans « l’obligation absolue de ne jamais mentir » . Le mensonge, même justifié par des circonstances dramatiques de notre vie temporelle, est une souillure de l’âme éternelle et un égarement irréparable dans la quête de perfection et d’amour de la vérité qui nous rapproche à Dieux. Le bon chrétien, ayant deux vies, une temporelle, l’autre éternelle, doit préférer la deuxième à la première et garder toujours l’amour de la vérité qui l’amène vers la perfection divine. Mentir c’est une tâche morale qu’on ne peut pas effacer. Le mensonge, c’est à dire cet acte linguistique qui consiste à dire le faux lors qu’on connaît le vrai avec l’intention de tromper quelqu’un, ne sont jamais justifiables, même si ils sont excusables en certains cas. C’est pour ça qu’il est si important d’isoler le véritable mensonge (dire le faux avec l’intention de tromper) d’autres formes de discours trompeurs : car les autres discours trompeurs (dire des choses qu’on connaît pas bien, faire de l’ironie, se tromper) sont justifiables, ou au moins excusables.
Une intuition traverse l’histoire de la pensée : que le mensonge est un acte contre nature qui rend son exécuteur un être immonde, méconnaissable. Ceci est la clé pour comprendre l’interdiction de tout mensonge, même dans la forme extrême proposée par Saint Augustin et reprise, comme nous le verrons dans la suite, par Kant. Bien que les arguments d’Augustin sur le salut de l’âme et ceux de Platon sur les risques du parler faux semblent très loin l’un de l’autre, il y a un ingrédient commun qui lie l’idée même de philosophie à cette proscription, et qui revient dans les arguments des philosophes de toute époque : le mensonge atteint notre nature humaine, notre âme - dans le langage d’Augustin - ou la relation constitutive entre nous mêmes, le langage et le monde dans Platon : mentir c’est l’abandon de cette nature, c’est pour ça que c’est une tâche irréparable. Ainsi dit Thomas d’Aquin :
Or, le mensonge est mauvais par nature ; c’est un acte dont la matière n’est pas ce qu’elle devrait être ; puisque les mots sont les signes naturels des pensées, il est contre nature et illégitime qu’on le fasse signifier ce qu’on ne pense pas […] Il n’est donc jamais permis de dire un mensonge pour soustraire quelqu’un à n’importe quel danger ; quoiqu’il soit permis de dissimuler prudemment la vérité .

Etant donnée la gravité du délit du menteur - que dans l’Enfer de Dante se retrouve au 8ème cercle infernal, à la 9ème fosse, bref, dans les plus bas fonds de l’enfer, juste avant les traîtres - il est très important de distinguer le mensonge de tout autre acte linguistique de violation de la vérité. Les manuels de causistique médiévale débordent de stratagèmes pour éviter de mentir lors qu’on connaît la vérité. On raconte de Saint Athanase par exemple qui rencontra ses persécuteurs lors qu’il ramait sur une rivière pour s’enfuir. Les persécuteurs lui demandent : « Où est le traître Athanase ? » et il répond : « Pas loin d’ici » . Une bonne façon de se sauver du mensonge en sauvant sa peau en même temps ! Parmi les manières d’échapper au mensonge on trouve dans la tradition : refuser de parler, répondre à un question par une autre question, changer de sujet, ou bien utiliser l’équivoque, c’est à dire une phrase ambiguë qui peut exprimer en même temps une proposition que le locuteur pense vraie et une proposition qu’il croit fausse et qu’il voudrait transmettre à l’auditeur, en espérant que l’auditeur l’interprète dans cette deuxième acception…
Nous retrouvons la même insistance sur la gravité des mensonges chez Montaigne :
C’est un vilain vice que du mentir […] Notre intelligence se conduisant par la seule voie de la parole, celui qui la fausse, trahit la société publique. C'est le seul outil, par le moyen duquel se communiquent nos volontés et nos pensées : c'est le truchement de notre âme : s'il nous faut, nous ne nous tenons plus, nous ne nous entrecognoissons plus. S'il nous trompe, il rompt tout notre commerce, et dissout toutes les liaisons de notre police .

Même le contractualiste Locke, dans les Deux Traités sur le gouvernement, place le devoir de vérité dans les composantes de la nature humaine qui précèdent tout contrat et existent aussi dans l’Etat de Nature :
Car la vérité et le respect de la parole donnée appartiennent aux hommes en tant qu’hommes et non comme membres de la société .

Locke ancre ainsi sa vision de la confiance nécessaire à la construction d’une société de contrat à une certaine conception de la nature humaine, selon laquelle les individus assument la responsabilité de leur parole. C’est grâce à la reconnaissance de ce trait fondamental de la nature humaine – le respect de la parole donnée – que nous avons des raisons de nous fier aux autres, même à des inconnus. La responsabilité individuelle de la sincérité crée donc un lien profond entre les personnes : celui qui nous trompe sort d’un contrat moral de confiance implicite qui règle notre vie sociale.
La même interdiction morale à mentir nous la retrouvons chez Kant, qui soutient que le mensonge ne peut jamais être justifié dans n’importe quelle circonstance :
Je m'aperçois bientôt ainsi que si je peux bien vouloir le mensonge, je ne peux en aucune manière vouloir une loi universelle qui commanderait de mentir; en effet, selon une telle loi, il n'y aurait plus à proprement parler de promesse, car il serait vain de déclarer ma volonté concernant mes actions futures à d'autres hommes qui ne croiraient point à cette déclaration ou qui, s'ils y ajoutaient foi étourdiment, me payeraient exactement de la même monnaie : de telle sorte que ma maxime, du moment qu'elle serait érigée en loi universelle, se détruirait elle-même nécessairement.

Kant se montre encore plus intransigeant qu’Augustin : non seulement en aucun cas on ne peut mentir, mais il ne faut pas essayer d’atténuer la faute morale du mensonge en distinguant entre types d’actes trompeurs : tout acte trompeur est un mensonge et la règle contre le mensonge ne connaît pas d’exceptions. Une assertion, pour être telle, doit être vraie, peine la perte de communication et des relations morales avec les autres :
La communication de ses pensées à autrui au moyen des mots qui contiennent intentionnellement le contraire de ce que pense le sujet qui parle est une fin directement opposée à la finalité naturelle de la faculté de communiquer ses pensées, un renoncement à la personnalité et au lieu de l’homme même, l’apparence illusoire de l’homme.

Dans son échange célèbre avec Benjamin Constant, Kant réaffirme l’impossibilité d’une norme qui admettrait le mensonge en quelques circonstances, peine le désordre social et l’incommunicabilité. Si jamais il nous arrive de mentir pour nos fins, même nos fins les plus nobles, comme celui de sauver la vie à un innocent, ceci doit être vu comme une exception contingente à une loi universelle qui maintient l’interdiction de mentir et non pas comme une possible modification de la norme universelle :

La véracité dans les déclarations que l’on ne peut éviter est le devoir formel de l’homme envers chacun quelque grave inconvénient qu’il en puisse résulter pour lui ou pour un autre ; et quoique, en y en altérant la vérité, je ne commette pas d’injustice envers celui qui me force injustement à le faire, j’en commets cependant une en général dans la plus importante partie du devoir par une semblable altération, et dès lors celle-ci mérite bien le nom de mensonge .

Benjamin Constant avait en effet repris un exemple d’Augustin pour montrer qu’il ne peut pas y avoir une norme si stricte sur la vérité, car pas tout le monde mérite la vérité :
Le principe moral que dire la vérité est un devoir, s'il était pris de manière absolue et isolée, rendrait toute société impossible. Nous en avons la preuve dans les conséquences directes qu'à tirées de ce dernier principe un philosophe Allemand qui va jusqu'à prétendre qu'envers des assassins qui vous demanderaient si votre ami qu'ils poursuivent n'est pas réfugié dans votre maison, le mensonge serait un crime [...] Qu'est-ce qu'un devoir ? L'idée de devoir est inséparable de celle de droits : un devoir est ce qui, dans un être, correspond aux droits d'un autre. Là où il n'y a pas de droit, il n'y a pas de devoirs. Dire la vérité n'est donc un devoir qu'envers ceux qui ont droit à la vérité. Or nul homme n'a droit à la vérité qui nuit à autrui.


La réfutation de Kant des arguments de Constant se base sur l’analyse suivante de l’exemple de Constant, qui avait déjà été en partie avancée par Augustin : prenons quelqu’un qui veut sauver la vie à un ami innocent et il sait où l’ami se trouve. Interrogé par les persécuteurs de son ami, il va leur dire qu’il se trouve ailleurs, car ces gens là, selon Constant, ne méritent pas la vérité. Mais imaginons maintenant que l’ami s’est entre temps déplacé sans que l’homme le sache et qu’il se trouve maintenant à l’endroit où ses assassins, faussement renseignés, sont partis le chercher. Eh bien, pour Kant c’est évident que la faute morale de celui qui a dit le mensonge est majeure dans ce cas que s’il avait dit la vérité. Il ressentira une culpabilité vis-à-vis de l’ami et de soi-même beaucoup plus grande que s’il avait simplement livré l’ami à ses bourreaux en disant la vérité.
C’est la tragédie de la nouvelle de Jean-Paul Sartre Le Mur, parue en 1939 suite à la guerre d’Espagne. L’anarchiste Pablo Ibbieta est arrêté par les sbires du pouvoir et condamné à mort. Il peut sauver sa vie en avouant où se trouve son complice, Ramon Gris. Ibbieta ment et dit qu’il ne sait pas, qu’il est peut-être à Madrid, tandis qu’il sait très bien qu’il est caché chez ses cousins à 4 km de la ville. Ménacé de mort par ses geôliers, Ibbieta ment une deuxième fois et il dit qu’il sait où se trouve Gris : « Il se cache prés du cimitière ». Ils partent vérifier. A’ leur retour, à grande surprise d’Ibbieta, il n’est pas exécuté. Son ami Gris se trouvait effectivement au cimetière et il a été fusillé sur place. Il aurait bien voulu se cacher chez Ibbieta, mais en apprenant qu’il avait été pris, il avait décidé de se cacher au cimetière. Voici comment le mensonge d’Ibbieta, même avec les meilleures intentions, loin de préserver son ami, l’a condamné à mort. La faute morale d’Ibbieta est plus grande dans ce cas, si on suit l’analyse de Kant de l’exemple, que s’il avait dit la vérité. Il est perdu non seulement devant les autres, mais devant soi-même : la nouvelle de Sartre se conclut avec le rire absurde d’Ibbieta lors qu’il apprend que son ami Gris a été exécuté : un rire inexplicable, hystérique, le rire de quelqu’un qui n’est plus lui même, qui a perdu toute dignité humaine par son mensonge. Selon le philosophe Pierre Pachet , Sartre avait à l’esprit le débat Kant-Constant et le dilemme moral que les deux positions suscitent : le devoir envers soi même de dire la vérité est-il compatible avec nos devoirs envers les autres ? La réponse de Kant est bien sûr que ces deux devoirs sont indissociables : on ne peut pas avoir des relations morales avec les autres si nous manquons aux devoirs envers nous-mêmes. Les conséquences de ces manquements sont illustrées par la nouvelle de Sartre. Selon Pachet la position de Kant ne serait pas du rigorisme poussé au paroxysme, comment nombreux commentateurs ont soutenu, mais elle permettrait au sujet de mieux apprécier ses actions en les mesurant à la loi.
La rigueur kantienne pourrait être interprétée comme une variation de l’indispensabilité de la vérité dans la communication humaine, non pas à des fins purement morales, mais afin de préserver le rapport quasi-sacré que la philosophie établit entre vérité, réalité externe et communication. Dans l’analyse des maximes qui gouvernent la conversation, le philosophe Paul Grice introduit une méta-maxime, celle de dire le vrai. C’est la condition même de la communication : même lors qu’on ment, nous faisons comme si nous disions le vrai, sans cela la communication ne serait pas possible .
Peut être dans un monde où le baratin triomphe, la philosophie se révèle trop exigeante : il suffirait de se contenter d’informations pertinentes et d’ajuster nos standards épistémiques à chaque contexte, en filtrant d’une façon responsable l’information qui nous vient d’autrui. Mais les implications morales d’une baisse des standards sont évidentes : l’idéal du vrai nous permet de mesurer la responsabilité morale de notre discours. Même un mensonge doit être responsable : c’est une grave responsabilité que nous prenons vis-à-vis de la victime de notre mensonge, le patient malade qui ne veut pas entendre un diagnostic létal, le citoyen auquel on épargne une vérité diplomatique compliqué par souci d’éviter un soulèvement d’opinions qui pourrait nuire à la paix sociale, l’enfant auquel on ne dit pas la vérité sur le Père Noël. Un monde de mensonges responsables est peut être plus sûr qu’un monde de conneries irresponsables, où personne de se donne le souci de mesurer ses actes de parole trompeurs à leurs conséquences.

Bibliographie
Augustin, 2010 Le Mensonge, nouvelle édition ave un préface de Jean-marie Salamito, Editions de l’Herne, Paris.
Bok, S. 1978 On Lying, Moral Choices in Public and Private Life, New York, Pantheon Books.
Cassan, B. (éd.) 1986 Le plaisir de parler, Minuit, Paris.
Constant, B. 1797 Ecrits et discours politiques, éd. par O. Pozzo di Borgo, Pauvert, 1964, tome I.

Frankfurt, H. 2005 On Bullshits, Princeton University Press ; tr. fr. 2006 De l’art de dire des conneries, Editions 10/18.
Grice, P. 1975 How to do Things with Words, Harvard University Press, Cambridge, Mass.
Kant E. 1797 Métaphysique des mœurs, éd. française citée 1971, Vrin, Paris.
Kant, E. 1797 Sur un prétendu droit de mentir par humanité, dans Théorie et pratique. Droit de mentir, tr. fr. L. Guillermit, Vrin, Paris, 1967.

Locke, J. Deux Traités sur le gouvernement, II, § 14, trad. Fr. B. Gilson, Paris, Vrin, 1997.

Origgi, G. 2008 « Trust, authority and epistemic responsibility » Theoria, 23, 1, n. 61 : 35-44.
Origgi, G. 2009 « Confiance, autorité et responsabilité épistémique. Pour une généalogie de la confiance raisonnée » dans C. Lobet (éd) Variations sur la confiance, Peter Lang, Amsterdam.
Pachet, P. 1999 « Existe-il un droit de mentir ? » dans J.F. Chiantaretto (éd.) Ecriture de soi et sincérité, InPress, Paris.
Thomas d’Aquin, Summa theologiae, Paris, Le Cerf, 1985.
Williams, B. 2006 Vérité et véracité, Gallimard, Paris, tr. fr de l’original anglais Truth and Truthfulness, 2002, Princeton University Press, Princeton.
Wilson, D., Sperber, D. 2000 « Truthfulness and Relevance » Mind : 216-256.

Friday, January 21, 2011

La truzzizzazione dell'Italia



Confesso. Ho mentito. Ho tradito come Pietro prima che il gallo canti. Passeggiavo per Parigi con una collega brasiliana in visita alla mia università, conversando in italiano di questo e quello, nell'unica lingua che ci trovavamo a condividere. Dalla vetrina di un negozio di scarpe vistose, ci fa segno un giovane truzzo, capelli imbrattati di brillantina, faccia abbronzata, giacca di cuoio, scarpe appuntite, insomma l'hecht-truzzo, la forma platonica del truzzo, e con un bel sorriso ci chiede: "Italiane?". E con un sorriso altrettanto generoso ho risposto "No". Il truzzo, rattristato, si è richiuso nel suo negozio di scarpe.

Anche se ora un po' mi vergogno di aver risposto quel no secco, è stata la vergogna a farmi rispondere così. Certo, mi vergognavo di quell'immagine dell'italiano truzzo davanti alla mia collega brasiliana. Truzzo è un termine di origine incerta: descrive un tipo volgare, mal vestito, e insieme arrogante: il truzzo è fiero della sua truzzaggine, la sottolinea con dettagli di vario tipo, borchie sulla giacca, strappi nei pantaloni, orecchini nel naso. L'etimologia potrebbe essere simile a quella di Tamarro o Buzzurro, ossia potrebbe trattarsi di un'aggettivazione del cognome Truzzi, diffuso nel bergamasco e nel bresciano, così come è molto probabile che Tamarro e Buzzurro siano aggettivazioni di cognomi diffusi al Sud.

L'arroganza del truzzo è dunque fragile: il truzzo, come il tamarro, o il buzzurro, ha bisogno di armarsi di quella fierezza del suo essere per polemica con la classe dominante, con chi lo considera un marginale, un tipo che viene da chissà dove. Mia madre soleva dire che un truzzo è qualcuno che arriva dalla Val Trompia con la piena del fiume, a sottolineare lo snobismo di chi vedeva nel provinciale, nel diverso, il maleducato, il "selvaggio" che arrivava dalle campagne.

Ma la mia vergogna era doppia. Non era dettata solo dallo snobismo di non voler far parte dello stesso gruppo etnico del truzzo. A ripensarci, ciò che mi faceva vergognare era dire per strada che ero italiana. Mi vergognavo di essere italiana, come se quel povero truzzo rappresentasse l'italianità in pieno, fosse un tale modello dell'Italia di oggi, che non ce l'ho fatta a dichiararmi dei loro.

La vergogna fa sempre riflettere. E' vero che il truzzo, un tempo marginale, è diventato lo stereotipo dell'Italia. La truzzizzazione del paese è partita quindici anni fa, con l'arrivo di Berlusconi al potere in Italia, una rivoluzione il cui profondo senso antropologico è spesso sfuggito agli osservatori. Berlusconi, truzzo per eccellenza, con il suo pessimo italiano, le sue giacche tagliate male, le battute pesanti, legittimò d'un tratto i truzzi del paese intero (e sprattutto del Nord) da sempre disprezzati dallo snobismo un po' gauche caviar per esempio di noi ragazze borghesi a Milano, e fornendo loro l'arroganza necessaria per assumere con fierezza la loro truzzaggine. In questo Berlusconi provocò una vera rivoluzione culturale: i venditori di scarpe vistosi, i bottegai, i piccoli industriali delle ricche province del Nord, che adoravano vestirsi da truzzi, avere moto costose, parlare di porcherie con gli amici e fare battute volgari sulle tette delle ragazze, trovarono così il loro modello pubblico, si fecero più coraggiosi nell'esibizione della truzzaggine, dato che Berlusconi, truzzo per eccellenza, ora guidava il paese.

Ma la vittoria dei truzzi, che poteva anche avere un che di ammirevole, permettendo infine a una classe quasi di intoccabili di prendere la parola e non vergognarsi più di sé stessi, si trasformò pian piano in un misterioso fenomeno di contagio collettivo: la truzzaggine, da forma di vita di nicchia, diventò lo stendardo dell'italianità. Basta con lo stile italiano, l'eleganza, le virtù un po' vecchia maniera: i sarti più raffinati della moda italiana piano piano cambiarono stile, e cominciarono a produrre vestiti per truzzi. I modi di interagire nello spazio sociale diventarono piano piano dominati dall'arroganza del truzzo. Il truzzo prese posti di potere, nei giornali, nelle riviste, in televisione, nell'industria, sempre più arrogante, sempre più convinto delle sue rivendicazioni di legittimità della sua natura di truzzo. E piano piano contagiò anche gli altri. Invece di difendersi, i vecchi nemici dei truzzi si intruzzirono lentamente: cominciarono a vestirsi male, a parlare male, e a scrivere scemenze sui giornali.

Prendiamo il caso di un recente articolo di Piero Ostellino sul Corriere della Sera, prestigioso quotidiano nazionale con sede a Milano. Ostellino è un giornalista italiano con un carriera rispettabile. E' stato direttore del Corriere della Sera, inviato a Mosca, inviato a Pechino. E' laureato in scienze politiche a Torino, probabilmente ha seguito i corsi di Norberto Bobbio, insomma, tutto ciò di più lontano dall'immagine del truzzo. Eppure. Nel suo articolo recente sulla dignità del nostro paese dichiara che ogni donna sta seduta sulla propria fortuna, e insiste che ne ha conosciute tante che andavano a letto di qua e di là per avere un posto di lavoro. Bene, la parlata da truzzo ha contagiato anche il buon Ostellino. Avrebbe potuto usare direttamente l'espressione "darla via", adorata dai truzzi, per manifestare ancor più chiaramente la sua conversione alla truzzaggine.

La truzzizzazione dell'Italia è un fenomeno ancora inspiegabile. Perché, la legittima uscita dall'ombra del truzzo, ha contagiato tutti? Perché quelli che sapevano scrivere bene si sono messi a scrivere male, quelli che parlavano bene a parlare male, quelli che si vestivano bene a vestirsi male? Resta un mistero assoluto.

Non avrei mai pensato che avesse senso un giorno scrivere una frase come quella con cui concludo: Ostellino è un truzzo.

Wednesday, January 19, 2011

The Kakonomics of Facebook

This is an add-on to the previous post I have written in reply to the EDGE annual question. The best example that comes to my mind to illustrate a typical kakonomical interaction (or LL-exchange) is Facebook . Why do people tell you during the day that they have plenty of things to do, not a minute for a sandwich together, so many papers to finish etc, and then you find them on Facebook all the night without the least guilty feeling? Because on Facebook we are LLing together: They like you to waste time by writing comments and adding YouTube videos because they are doing exactly the same and this makes them feel less guilty in wasting their own time. Facebook friends are L-friends: They are partners in producing the very low outcome of entire evenings in front of the computer without writing a line of what you should write. The worst betrayal by such a good L-friend is to take the High quality (H) rhetoric seriously (I have many commitments and things to do), let you down and go to work while you're hanging around YouTube to find the most stupid possible video to share with them....

Facebook and other similar examples (Twitter, etc) are examples of the economy of the new millennium, the hidden face of human preferences we would like to hide in the H public space, but we love to share with people whom we are sure they are committed to the same L standards.

The pleasure of the immediate reply to one of your comments to a friend's new post is to discover that he or she is complying in L, we're wasting time together, we don't feel guilty and tomorrow we won't be ashamed to tell each other that we're terribly busy....A perfect L-world!

Monday, January 17, 2011

Kakonomics. Or, the strange preference for Low quality outcomes


This is my reply to the annual EDGE question. This year's question was: WHAT SCIENTIFIC CONCEPT WOULD IMPROVE EVERYBODY'S COGNITIVE TOOLKIT?

Kakonomics, or the strange preference for Low-quality outcomes

I think that an important concept to understand why does life suck so often is Kakonomics, or the weird preference for Low-quality payoffs.

Standard game-theoretical approaches posit that, whatever people are trading (ideas, services, or goods), each one wants to receive High-quality work from others. Let's stylize the situation so that goods can be exchanged only at two quality-levels: High and Low. Kakonomics describes cases where people not only have standard preferences to receive a High-quality good and deliver a Low-quality one (the standard sucker's payoff) but they actually prefer to deliver a Low-quality good and receive a Low-quality one, that is, they connive on a Low-Low exchange.

How can it ever be possible? And how can it be rational? Even when we are lazy, and prefer to deliver a Low-quality outcome (like prefer to write a piece for a mediocre journal provided that they do not ask one to do too much work), we still would have preferred to work less and receive more, that is deliver Low-quality and receive High-quality. Kakonomics is different: Here, we not only prefer to deliver a Low-quality good, but also, prefer to receive a Low-quality good in exchange!

Kakonomics is the strange — yet widespread — preference for mediocre exchanges insofar as nobody complains about. Kakonomic worlds are worlds in which people not only live with each other's laxness, but expect it: I trust you not to keep your promises in full because I want to be free not to keep mine and not to feel bad about it. What makes it an interesting and weird case is that, in all kakonomic exchanges, the two parties seem to have a double deal: an official pact in which both declare their intention to exchange at a High-quality level, and a tacit accord whereby discounts are not only allowed but expected. It becomes a form of tacit mutual connivance. Thus, nobody is free-riding: Kakonomics is regulated by a tacit social norm of discount on quality, a mutual acceptance for a mediocre outcome that satisfies both parties, as long as they go on saying publicly that the exchange is in fact at a High-quality level.

Take an example: A well-established best-seller author has to deliver his long overdue manuscript to his publisher. He has a large audience, and knows very well that people will buy his book just because of his name and anyway, the average reader doesn't read more than the first chapter. His publisher knows it as well…Thus, the author decides to deliver to the publisher the new manuscript with a stunning incipit and a mediocre plot (the Low-quality outcome): she is happy with it, congratulates him as she had received a masterpiece (the High-quality rhetoric) and they are both satisfied. The author's preference is not only to deliver a Low-quality work, but also that the publisher gives back the same, for example by avoiding to provide a too serious editing and going on publishing. They trust each other's untrustworthiness, and connive on a mutual advantageous Low outcome. Whenever there is a tacit deal to converge to Low-quality with mutual advantages, we are dealing with a case of Kakonomics.

Paradoxically, if one of the two parties delivers a High-quality outcome instead of the expected Low-quality one, the other party resents it as a breach of trust, even if he may not acknowledge it openly. In the example, the author may resent the publisher if she decides to deliver a High-quality editing. Her being trustworthy in this relation means to deliver Low-quality too. Contrary to the standard Prisoner Dilemma game, the willingness to repeat an interaction with someone is ensured if he or she delivers Low-quality too rather than High-quality.




Kakonomics is not always bad. Sometimes it allows a certain tacitly negotiated discount that makes life more relaxing for everybody. As one friend who was renovating a country house in Tuscany told me once: "Italian builders never deliver when they promise, but the good thing is they do not expect you to pay them when you promise either."

But the major problem of Kakonomics — that in ancient Greek means the economics of the worst — and the reason why it is a form of collective insanity so difficult to eradicate, is that each Low-quality exchange is a local equilibrium in which both parties are satisfied, but each of these exchanges erodes the overall system in the long run. So, the threat to good collective outcomes doesn't come only from free riders and predators, as mainstream social sciences teach us, but also from well-organized norms of Kakonomics that regulate exchanges for the worse. The cement of society is not just cooperation for the good: in order to understand why life sucks, we should look also at norms of cooperation for a local optimum and a common worse.

Monday, December 20, 2010

Gloria's Ranking 2009

Leo at Museum Kampa in Prague

What's in a year? What makes it so special, so different from any other years? Scattered pictures of vacations with friends, dinner parties, children birthdays, ends of schools, Christmas days, give to each year an unforgettable touch, as in a vintage selection, that filters what we will keep in memory for the rest of our life. The value of these precious pictures, lost in some drawers that sometimes we open in the boring winter evenings, is that they produce a selection of instants worth remembering, a ranking of what must be kept in memory and what will be lost in the magmatic confusion of our unconscious past.
Here I'll provide another way of making an year unforgettable, just by giving grades, ranking the days and the experiences in a way that makes it distinguishable in my memory from any other year forever. Ranking is a form of visualization of reality, a way of illustrating a special configuration of the world worth remembering.

Best lunch: May 29th, Paris, a small café, at the corner between rue de Grenelle and rue de Bellechasse, close to the Marie of 7th arrondissement where we had declared, few minutes earlier, to be the mother and the father of Raphaël. It was a bit like a wedding, we thought. I took a lousy sandwich and Ariel a mixed salad, but they tasted very special.

Best dinner: Alone, 7 months pregnant, at the pizzeria Brandi, Salita Sant’Anna di Palazzo, 1, Napoli. I had just a pizza Margherita, but it was not a Margherita, it was the hecht-pizza, the Platonic idea of the pizza, and I’ve cried…

Best friend of the year: Vivian Norris De Montaigu, film producer, co-author with me of the documentary movie Obama Mama, who was able to get me out of my house in a December evening when I felt really depressed and in so doing she started a new phase of my life... Thank-you, Vivian!

Best philosopher: It’s getting harder every year... Mmmmmmhhh, I’d say Steven Holmes and his radical conferences at the Collège de France in March.

Best academic talk: Yochai Benkler’s talk at the Institut Nicod on The End of Universal Rationality, May 26th. New ideas and the perfect Harvard style: 45 minutes of talk without a written note, with the dexterity of a Shakespearean actor on the stage…


Best place: On the roof of the Museum Kampa, Prague, with Leo and Raphaël still inside.

Best website: http://www.3quarksdaily.com/ . Always sharp, interesting and entertaining.


Best day: Sunday, August 16th: Raphaël was born in Paris, at the Hospital Saint Vincent de Paul. A sunny Sunday, nobody around, just me, Ariel and the baby.


Best song: Adele, First Love (well, it was released in 2008, but I am a slow follower in the world of pop music).

Best movie: Up, because of the dog who speaks like a dog.

Best documentary movie: Food Inc.

Best theater: Shadow theater with Leo in Prague, just because we were there together.

Best museum: Museo Madre in Naples, an old palace in the Spanish quarters, with a collection of the best Italian art of the 60ies and 70ies.

Best exhibition: No exhibitions.

Best non-fiction book: Sarah Hrdy, Mothers and Others.

Best fiction book: An old book suggested by my friend Pia: My Year of Meat by Ruth Ozeki.

Best culinary invention: Pasta with fresh tuna and eggplants. I have prepared the eggplants as for a regular Norma’s sauce (but I prefer to slice them very thin and cook them in the oven with some brush of olive oil on them). Then I sliced the fresh tuna fish and marinated it into a mixture of olive oil, soja sauce, lemon juice, orange juice, some strawberries and fresh mint. Then, when the eggplants were ready and the macaroni cooked, I just fried for three minutes the marinated tuna in a pan, then added the eggplant and then the pasta. Delicious.


Best hotel: Again, Prague with Leo: our lousy Bed and Breakfast at the corner of Karl’s bridge, with a small terrace and a wonderful Internet connection.


Tuesday, December 07, 2010

Who Gets to Keep Secrets?


Here is my reply to Daniel Hillis' question on EDGE. Do not quote without permission.

Secrecy is the forbidden fruit: you want to know more even at the risk of loosing the heavenly security of the Garden of Eden. Speech is power: some information is so potent that it could be dangerous. God created the universe with speech and he put the forbidden tree to remind to his creatures that they could not get the overall picture, that some files remained classified.

In classical mythology, those who steal secrets from God are damned heroes, like Prometheus, who stole the secret of fire from Zeus. Being human is a damned heroic destiny: we are scavengers, scraping off layers of lies and prohibitions to reach bitter truths.

Truth is not just an epistemic commodity: it is a human value. It mixes the needs of sincerity, accuracy and honesty that are essential to trust each other, to feel that we belong to the same species, that we are playing the same game.

But secrecy is not a sacred value: it is perceived as an abuse of power. It may have rational motivations, it may be indispensable in order to keep order and peace, but the secret-keeper never has the part of the hero, apart from extreme cases when lying is a way of saving people against an oppressive power that wants to brutally extort information to act in an evil way.

State secrecy is not a clear principle: no constitutions in the Western world endorse State secrecy as a legal or moral principle. It is an old privilege of sovereigns that has taken different shapes in the political history. It goes from the British Majesties' privilege of the Habeas Corpus, which overrules local authorities, to the Macchiavellian precepts to the Prince, who must classify some information in order to succeed in governing the people. What is called Raison d'Etat, is the privilege of the sovereign to act "out of law" for the State's interests. That is why it is so difficult these days to see State secrecy as legitimate, and to see those who violate it as traitors.

In our times, the first time United States advocated exclusion of evidence in a trial based only on affidavit was in 1953, in the United States vs. Reynolds case which involved the crash of a military plane whose mission had to be kept secret.

That is to say: it is difficult to have a spontaneous sympathy for the secrets' holders, and the damned heroes à la Julian Assange have all their chance to gain popular consensus.

Also, we come out from a decade in which truth-wars have been at the centre of the most difficult political choices, such as the Iraq invasion. For those who have studied the whole story, the balance between secrecy and security was really odd: the report from the British Intelligence on which Colin Powell based his speech at the UN, contained a major plagiarism from the journal Middle Eastern Studies. The following British report had been "sexed up" in order to affirm that an Iraq nuclear attack was possible in 45 minutes.

But what are the truths we value in the information society? Now that the Information Age is leaving its place to the Reputation Age, we want certified truths, attested by authoritative sources: we want the seal of quality that warrants us on where the truth come from, who is the authority endorsing it. Plain, factive truths, like plain facts, don't exist anymore: we trust a chain of production of truths, with its labels and legitimacies. The naked "truth" that leaks from unknown sources is unreadable, it is a noisy voice that we do not know what to do with. Yet, the Wikileaks scandal comes from the fact that many newspapers have given credit to the source, thus showing that they endorse this chain of production. They have provided the reputation these naked truths needed.

We have to understand better how these chains of reputation of information are constructed and endorsed. We have to take the epistemic responsibility of asking ourselves why we trust news or an information provider. And perhaps, with the power of collaborative work on the Web, we can contribute in giving the appropriate labels to the information we are able to control, thus contributing to the damned human enterprise of unveiling the forbidden truths.